
Mr. Tambourine
Dolore. Muto, intenso, profondo. È tutto ciò che mi resta del tempo trascorso con Constance.
La musica riusciva a pacarmi, ma tutto ciò che posso fare, ormai, è ricordarla. Non sembra più la stessa qui, in questo assurdo limbo sotterraneo dove non trovo interlocutori. Dove sono solo.
Amavamo quella melodia. Le avevano raccontato di una band psichedelica che si era ispirata alla sua storia per intitolare il nuovo album. Constance sembrò non darvi importanza al momento; eppure, il giorno dopo tornò a casa con un trentatré dalla copertina che non si era mai vista prima: un quadrupede in primo piano, sul prato verde.
Non c’era settimana che Constance non lo ascoltasse, e io con lei: attraverso di lei. Infine l’ho trascritto a modo mio, utilizzando i battiti del suo cuore. Nuovo, differente eppure lo stesso, anche senza le trombe che s’interrogavano su un’alba funesta, imitando il lungo acuto delle ambulanze, grida disperate verso un cielo plumbeo.
La mia musica aveva bisogno di un unico strumento… Constance. Lei era la cassa di risonanza e l’eco, la voce e il solco dove dimorava il groove. Con le mie note io le parlavo. Ma lei, lei non ascoltava. Il suo debole cuore, quello nel quale, con la più costante delle devozioni, avevo provato a infondere una nuova energia, era tormentato da mille insicurezze.
La mia è la storia del più disperato degli amori: lei non ha creduto in me. Vano è stato il mio sforzo, che eppure mi ha innalzato oltre la natura inanimata a cui ero destinato. Colui che mi ha creato non crederebbe mai che io, proprio io, sono stato capace di comporre musica per donare la speranza di una vita migliore.
Forse fu tutto inevitabile dal principio. Posto così vicino al suo cuore, non potevo che subirne l’incanto. Sì è trattato di un contagio dell’anima.
Così mi ritrovai a battere per Constance ogni notte, ogni giorno. Lei mi sentiva ma non voleva ascoltarmi, facendosi del male. Come nei pomeriggi piovosi quando, davanti allo specchio, lo sporcava con il rossetto perché si vedeva brutta.
Il mio impegno per salvarla mi trasformò fino a farmi sentire nuovo, diverso. Fu per questo che volli cambiare il nome datomi dal Creatore, quel ‘Coratomic’ freddo come i meandri più profondi della materia inerte. Dapprima avevo pensato ad HAL, il potente cervello elettronico che una sera avevo visto, insieme a Constance, in “2001 Odissea nello Spazio”, personaggio nel quale riconobbi una disperazione meccanica e consapevole, affine alla mia, cosi prossima alla umana solitudine. Eppure, non lo sentivo ancora mio. Per fortuna ne ho avuto di tempo, nel corso degli otto anni in cui io e lei siamo stati legati, per pensare a una valida alternativa. Difatti una notte, mentre Constance dormiva il suo sonno agitato, fece un sogno che divenne, per me, una vera rivelazione: lei che, imbottita di farmaci e droghe, si dava a uno sconosciuto sull’Isola di Wight, durante quello che sarebbe diventato uno dei più celebri festival, icona del Peace&Love. Durante quegli attimi concitati, un menestrello cantava sul palco “Mr. Tambourine Man”, parole senza tempo soffiate nel vento da una melodia incantevole. Mr.Tambourine… decisi di chiamarmi così.
Seppi poi che quel sogno era realtà: fu lì che Constance ebbe il primo attacco cardiaco, ripetutosi poi, con conseguenze quasi fatali, a distanza di poche settimane.
Furono due le ragioni che la tennero in vita.
Syd, il bimbo che portava in grembo, il cui padre non ebbe mai un nome.
E io.
– Dottore, è sicuro che il bimbo non avrà conseguenze, che non nascerà malformato?
– La tecnica è ancora sperimentale, qui in Inghilterra non abbiamo ancora una casistica. Le maternità portate a termine negli altri continenti si possono contare sulle dita di una mano, ma mi risulta che i bambini nati in America siano tutti in perfetta salute.
– Si, ma temo il peggio.
– Signora Constance, ne avevamo già parlato prima dell’intervento. Il dispositivo è schermato. Stia tranquilla, sarà un bambino sano. Ciò che deve fare ora è mettere la testa a posto.
– Lo sa che non sono serena. Sto provando a curarmi, sono seguita da uno psicologo.
– Forse dovrebbe guardare a una soluzione più incisiva. Se vuole, le indico un valido psichiatra.
Lo psichiatra non bastò, come non bastò il mio amore. Anzi, dovetti infine spingermi a odiarla. Quella notte, dentro il garage della sua casa, lei ascoltava altro, i Doors. Il disco di sempre no, non andava bene: sembrava troppo profetico. C’erano quei suoni veri e minacciosi a infastidire violoncelli e chitarre: il motore di una motocicletta, gli spari, l’ambulanza, l’aereo pronto a sganciare una bomba. E quel coro pieno d’angoscia: “Rapateeka, rapashaaa – rapateeka, rapashaaa…”
Presi coscienza di esistere dopo che l’anestesia ebbe terminato l’effetto. Fu bizzarro percepire il suo primo dubbio, così diverso da quello di chiunque altro si fosse trovato nella stessa condizione: “Sono un mostro che partorirà un mostro?”.
In quel mentre è nato il nostro rapporto, lei a temermi, io imprigionato a spendere ogni energia per tenerla in vita, lanciando impulsi potenti e silenziosi.
E tutto questo nonostante il suo disprezzo, la paura, perfino le imprecazioni contro di me. Non dovevo poi essere così schermato se riuscivo a sentire tutto di lei.
Qualche mese dopo si parlò di noi sull’Evening Standard: ma in fondo Constance sapeva che, prima o poi, sulle pagine di un giornale ci sarebbe finita.
– Constance, il dispositivo è stato progettato per durare almeno dieci anni. Non rappresenta un problema oggi: piuttosto, si concentri sul bambino. E per far questo, dovrà prendersi cura di sé. Lei sa di cosa parlo.
La meditazione, lo yoga, l’espansione della coscienza. Gli incontri settimanali con lo psicologo. Le parole rivolte a Syd, quando ancora si muoveva nel grembo. Lo ammetto, per un po’ odiai quel bimbo: lui a ricevere amore ed energie vitali, io deputato solo a donare.
Ma presto lei tornò ai suoi vizi, alla vita sregolata, le fissazioni di una mente bacata, dopata dalle sostanze che avrebbero invece dovuto espanderla.
Continuo a vivere quaggiù anche ora che lei non c’è più. Nessuno ha pensato a spegnermi: condannato a vivere oltre me stesso. Una maledizione il cui castigo è il ricordo. Su tutti, quello del cuore di lei; poi, del suo disco preferito, le cui note mi arrivavano attutite ma chiare, talvolta disturbate dai sorsi di bourbon o, peggio, dalle sostanze allucinogene. In quei toni c’è il dramma che solo ora comprendo, che mi affascina e tortura allo stesso tempo. Quando fui contagiato dall’anima, pensai perfino che quell’opera possedesse delle affinità con l’incipit di “Così parlò Zarathustra”.
Ancora mi chiedo perché. Non avrebbe dovuto compiere l’estremo gesto in quella stanza piena di chiavi inglesi, locale disadorno e odorante di benzina, nella Dyane di latta mezza scassata, con il tubo incerottato allo scappamento. Constance cantava a squarciagola per trovare il coraggio di arrivare fino in fondo:
– Come on, baby, light my fire. Come on, baby, light my fire. Try to set night on fire .
Non avrei potuto salvarla, lo compresi da subito. Fu in quel frangente che superai la mia stessa natura, decidendomi ad agire per risparmiarle una fine dolorosa: mi bastò scaldare il plutonio al massimo. Non fu solo un gesto di pietà ma molto più di amore, inquinato dalla rabbia per non aver accettato il mio dono, quello di una vita nuova.
Ora sono sepolto con ciò che resta di Constance. Suicidio, così hanno stabilito… non potrebbero mai immaginare la verità.
Solo, dimenticato, il mio cuore radioattivo brama, desidera, vive. Vorrebbe ma non può: come un Sole che, avendo smarrito i suoi pianeti, irradia inutilmente luce ed energia.
– The time is gone, the song is over, thought l’d something more to say .
E non mi consumo, non mi consumo, non mi consumo…
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Francesco, ascolta quella bellissima canzone che è “Montesole” del gruppo “Per Grazia ricevuta” il cui leader è Lindo Giovanni Ferretti (che apprezzo solamente come artista e non per le sue idee farneticanti). Poi rileggi, se hai piacere, il racconto.
Conosco l’album, ma non lo ascolto da molti anni perché il progetto PGR non mi piaceva. Andrò a riprenderlo così vedo l’accostamento 😉
Appena vista la foto mi sono fiondato sul racconto. Beh, ne è valsa la pena. Sapevo che il titolo Atom-heart mother fosse stato preso da una storia vera e il tuo omaggio è altrettanto psichedelico e piena di riferimenti. C’è Barrett, ci sono i Doors, c’è Dylan, c’è Kubrik… Il finale è l’ultimo verso di breathe, vero?
Ciao Francesco. Grazie per avermi letto. L’ultima citazione è nel brano “Time” dei Pink Floyd. Canzone non casuale, infatti l’incipit mi ricorda il battito accelerato di un cuore. Indirettamente, con due frasi, ho inteso citare e omaggiare anche Giovanni Lindo Ferretti. Buona serata.
Giusto, Time. È dopo questa frase che riprende Breathe. Su Ferretti non mi viene in mente il riferimento.
Grazie del tuo commento Sergio. È il mio primo racconto qui. Più spesso scrivo racconti più lunghi, che non mi è permesso ancora pubblicare. Ci tengo a precisare che questa versione del racconto è stata aiutata con le rivisitazioni di un collega scrittore, qui conosciuto, che ha impreziosito la mia idea. Entrambi siamo appassionati di musica. Ho gradito, assolutamente, presentare qui la Sua “lettura”. Perché merita.
Se vuoi pubblicare racconti più lunghi, puoi usare l’opzione “Serie” e spezzarlo in più episodi! 🙂
Per quanto io ami i Pink Floyd, proprio ignoravo la storia di Constance. Leggendo questo racconto mi è venuto spontaneo andare a cercarla.
Che dire, per prima cosa grazie per avermi fatto scoprire questo aneddoto. Poi complimenti per l’originalità, per l’idea e per come l’hai sviluppata, dal punto di vista del “cuore atomico”!