
NATO DA UN FORSE
A casa nostra tutto era composto. Anzi: perfetto.
Troppo perfetto. Piatti bianchi senza macchie, cucchiai allineati come soldati, silenzi che non si potevano rompere. Tutto lucido. Inutile. Senz’anima.
Mio padre, Paolo, consulente fiscale: parlava con i numeri come fossero peccati da assolvere.
Aveva sempre la camicia stirata con pieghe invisibili e l’orologio fermo cinque minuti avanti, come se volesse vincere il tempo.
Mia madre, Laura, arredava case per mestiere, e la nostra come fosse un set fotografico allestito e mai usato.
Camminava scalza per non segnare il parquet e parlava sottovoce anche quando era sola.
Entrambi sobri, religiosi quanto basta a tenere lontano il caos. Una coppia da rivista per gente che non legge.
Io, Matteo. Sedici anni. Silenzioso, ordinato, occhi spalancati e mani che sembravano chiedere scusa.
Una mente-vetrina: registravo tutto. Anche ciò che gli altri volevano dimenticare.
Luca, mio fratello, otto anni. Parlava troppo e capiva troppo poco.
Aveva i capelli sempre spettinati e i calzini spaiati.
Bastava guardarlo dormire — la bocca semiaperta, un braccio sotto la guancia — per capire cosa fosse la pace prima della guerra.
In quella perfezione non c’era spazio per il rumore. Tranne quando arrivava lei.
Sara.
Non era la mia ragazza, ma ci si stava arrivando.
Un bacio, una carezza. Quelle cose mute che tremano dentro.
Lei mi guardava come se fossi rotto: con rispetto, con illusione. Io la lasciavo fare. Era bello, qualcuno che voleva aggiustarmi. Prima che si rendesse conto che non ero caduto: ero stato costruito così.
Quella notte in cui ho capito tutto non avevo neanche sete. Mi sono alzato solo per andare in bagno.
La casa era ferma, sembrava morta.
Poi dal sottoscala ho sentito dei suoni. Non rumori normali. Non televisione. Voci. Un gemito. Una risata trattenuta. Un colpo di vetro sul legno.
Ho seguito il cuore che batteva troppo forte. Piedi nudi, respiro corto. Scendevo come in apnea.
La porta della stanza degli ospiti era socchiusa. Luce calda. Odore di lavanda e pelle. Dentro, tre corpi.
L’immagine si è sviluppata lenta, come una Polaroid: più la guardavo, più compariva.
Mia madre. Sdraiata sul divano. Il collo scoperto. Come quando dormi ma non dormi. La bocca socchiusa.
Un uomo che non avevo mai visto la stava toccando. Mani morbide, lo sguardo di chi si è già concesso. Il tipo che scopa per dimenticare le domande. Quel profilo me lo sono tatuato nel cervello.
E mio padre, nudo dalla vita in giù, camicia sbottonata, un taccuino in mano. Scriveva. Guardava. Scriveva ancora. Non un gesto, non un’ombra di vergogna. Solo la concentrazione di chi prende appunti al lavoro. Sacerdote del porno di famiglia.
Io mi sono bloccato. Non sono scappato, non ho urlato. Solo che il corpo mi si è piegato da dentro. Come se lo stomaco si rovesciasse senza uscire niente.
Sono tornato in camera.
Lo specchio mi ha restituito un fantasma: pelle spenta, pupille dilatate.
Le mani sapevano di loro, senza averli toccati. Le ho strofinate sull’intonaco fino a farmi male. Non se ne andava. Restava addosso come una colpa cucita.
In bagno ho vomitato davvero. Solo bile. Bruciava la gola come un detergente.
Ho ripulito in silenzio. L’asciugamano si è portato via il vomito. Non la nausea.
Alle 4:17 ero ancora sveglio. Contavo i secondi tra gli scricchiolii dei muri, come se la casa avesse un respiro che non mi voleva lasciare dormire.
La mattina dopo tutto uguale. Pancakes, latte, tv accesa.
Mia madre mi ha toccato la fronte: «Stai bene?»
Ho detto di sì.
Dentro ero marcio.
Nessuno lo vedeva. Ero cambiato in una notte. Stonato dentro una partitura ancora perfetta.
Non respiravo.
O meglio: respiravo, ma era come ingoiare vetro.
In classe, ridevano tutti, parlavano di calcio, di musica. Di feste.
Ho consegnato un compito in bianco. L’insegnante mi ha guardato come se fossi distratto, ma io stavo solo cercando di non sentire.
Dentro avevo il respiro di mia madre e la penna di mio padre che graffiava il foglio.
Ho pensato: forse l’ho sognato. Forse non è successo.
Poi mi è tornato addosso l’odore. Pelle e lavanda. Erezione in faccia alla mia nausea.
No. Era vero.
Sara mi ha visto.
Aveva gli occhi lucidi di chi trattiene troppe cose, e un elastico azzurro intorno al polso.
«Hai dormito?»
«Non lo so.»
All’uscita di scuola mi ha infilato un biglietto in tasca e l’ha sussurrato: «Quando non riesci a parlare, puoi almeno scrivere.» Non l’ho aperto.
Mi sono chiesto se quella notte fosse stata un’eccezione.
O una regola.
Ho cominciato a rimettere insieme i pezzi. E ho ricordato.
Mia madre che diceva: «Dormite dai nonni, faremo tardi.»
Mio padre che si radeva due volte. Sguardi che sembravano stanchi, e invece erano complici.
Telefonate chiuse di colpo. Profumi che restavano nell’aria troppo a lungo.
Da quel giorno ho iniziato a contare. Ogni giovedì.
Ho messo la sveglia alle 2:00.
Sono scivolato fuori dal letto. Sono tornato al sottoscala. Non ho aperto.
Ma ho sentito.
I suoni. I respiri. Il rituale. Di giorno non passavo mai dal sottoscala. Cambiavo lato del corridoio, come se l’aria lì fosse rimasta malata.
Sono tornato in camera.
Ho acceso il PC. Porno qualunque. Una donna piegata a metà, con lo sguardo vuoto e le ciglia sbavate.
Gemiti doppiati. Pixel che tremavano come mani sudate.
Il cursore lampeggiava.
Silenzio.
Ho sentito la vergogna scattare, come un grilletto.
Mi è venuto duro. Così. Senza motivo.
Senza volerlo.
Il corpo bestemmiava al posto mio.
Mi sono fermato.
Ho guardato il muro, come se potesse dirmi che non stava succedendo.
Poi, d’improvviso, il viso di mia madre mi ha attraversato la testa.
Non lei nuda.
Lei che rideva.
Con quell’uomo.
Con mio padre a un metro.
Con il taccuino in mano.
Mi è mancato il fiato.
Mi sono graffiato le braccia con le unghie. Non bastava.
Ho preso una graffetta, l’ho aperta, me la sono infilata sotto la pelle del braccio.
Il sangue è uscito lento, poi più veloce.
Nemmeno quello ha tenuto.
Mi sono seduto a terra. Le mani sulla faccia.
Tremavo. Ma non ho pianto.
Il cazzo era ancora mezzo duro. Volevo strapparmelo via.
Ho tolto la T-shirt.
Me la sono legata attorno al braccio. Forte.
Mi sono morsicato l’avambraccio come un cane avvelenato, fino a sentire il metallo in bocca.
Ho urlato a denti chiusi.
Un urlo strozzato. Interno. Di quelli che ti tolgono il fiato.
Mi sono accovacciato.
Mi sono spinto due dita in bocca.
Il conato. Un grumo giallo, amaro: come se il corpo volesse squarciare via l’immagine da dentro.
Mi è colato dal naso.
Ho provato a piangere? No.
Non ci sono riuscito.
È stato peggio delle lacrime.
Sono entrato nella stanza di Luca. Si era scoperto. Gli ho rimesso la coperta addosso. Ho provato a raccontargli una favola, ma mi si è strozzata in gola a metà. Lui dormiva. Io no.
Ho pensato:
“Forse non è colpa loro. Forse è così che si ama. Così che si prega. Forse la mia famiglia non è malata. Forse sono io. Io che non capisco. Io che non mi adatto.”
“Forse tutto questo è normale. E io sono il solo che non sa come si fa a restare dentro.”
Poi mi sono fermato.
Mi sono guardato la mano.
Tutta sporca.
È sembrata quella di mio padre.
Solo che lui l’ha usata per annotare orgasmi, io per cercare di non impazzire. Per stringere un dolore che non sapevo dove mettere.
Eppure, a guardar bene, raccontavano la stessa storia: i nostri modi di sopravvivere..
Da lì in poi, ogni volta che mi sono tirato su, mi è sembrato di avere addosso il cazzo di mio padre.
L’erezione è diventata un peccato da punire.
Mi eccitavo senza piacere.
Poi quei tagli. Lamette, forbici, graffette, qualsiasi ferro. Per sgonfiarlo, per non sentirmi suo.
In parti coperte. Mi fermavo solo quando il sangue colava copioso.
Una ferita sul braccio è diventata rituale. Non l’ho lasciata guarire: strappavo le croste. Ogni volta il dolore scattava uguale: monotono, come un vinile che salta sempre sullo stesso punto del disco.
La mia pelle suonava un rumore che nessuno poteva sentire.
All’ingresso, il vassoio di metallo con i portachiavi. Un’etichetta: STUDIO.
Sul mazzo una chiavetta d’ottone dentellata.
Lo studio di mio padre sembrava un mausoleo ordinato: scrivania lucida, schedari chiusi.
Ho tirato un cassetto: scontrini, post-it, graffi di matita. Non lì.
Stavo per richiuderlo quando la luce si è spezzata sul vetro fumé della vetrinetta.
La serratura lucida rifletteva la mia faccia spezzata in un ovale.
Non sapevo cosa stessi cercando — volevo solo togliere rumore dalla testa.
La chiave ha girato: clic, un suono fuori posto in quella casa.
Il vetro ha ceduto con un respiro.
Dietro il vetro, allineati: taccuini neri.
Sul dorso, date a biro. Tutti uguali. Tutti vivi. Una fila perfetta. La stessa precisione con cui piegava le camicie.
Ne ho preso uno a caso. La grafia di mio padre, uguale, sempre:
“21 gennaio: coppia M/F. Carla passiva. Durata 17 min. Voto: 4/5. Lei esperta. ”
“14 aprile: M/M. Carla spettatrice. Nota: Preso anche me. Prima volta.”
“9 luglio: recitazione eccessiva. Carla è altrove. Esito: non idoneo/non richiamare.”
Precisi. Freddi. Sporchi.
Il sesso come elenco.
Il corpo come pratica di segreteria.
Mio padre, lo stesso uomo che, la mattina dopo, mi avrebbe chiesto: «Come va a scuola?» con voce neutra, mentre si allacciava la cravatta. Uno che ricordava sempre i risultati delle partite, che mi correggeva i compiti di matematica.
E intanto, la notte, annotava orgasmi come fossero detrazioni fiscali: notaio dell’inferno domestico.
E io che spargevo emozioni come viscere sul pavimento. Ero l’unico senza schema.
Ho preso un vecchio diario scolastico.
Ho iniziato anch’io a scrivere.
Non sapevo se fosse per ricordare.
O per riuscire a dimenticare.
“15 Marzo Ore 01:14. Frase sentita: “Non stringere troppo”. Profumo: borotalco. Odore secondario: alcool. Erezione imprevista. Voto interno: nausea 4, lucidità 2. Taglio non efficace. Ho pensato al suicidio.”
“22 Marzo Ore 01:50. Uno nuovo, più giovane, molto dotato. Voto a lui 10 – Ho resistito stringendo fortissimo. Poi sono scappato a ripulirmi. Mi faccio schifo.”
Ho scritto ogni incontro, ogni amplesso rubato, ogni immagine. Ogni mia reazione, ogni mia nuova ferita. È stato il mio modo di non esplodere. O forse di esplodere con ordine.
Un pomeriggio, mentre cercavo una penna, Sara ha visto il taglio.
Il polsino era scivolato.
«Ti sei fatto male?»
«No.»
«È una lametta?»
«È un’abitudine.»
Lei ha abbassato lo sguardo.
Aveva le mani tremanti.
«Sai che puoi dirmi tutto.»
Ho annuito. Mentivo.
Ha provato a baciarmi.
Mi sono irrigidito.
Il mio corpo è stato una prigione con allarmi ovunque.
«Non è colpa tua.»
«Allora di chi?»
Non ho risposto.
Non avevo parole. Solo suoni strozzati.
Lei mi ha lasciato.
Non di colpo.
Ma ha smesso di scrivermi.
Poi di cercarmi.
Poi, semplicemente, ha smesso di me.
Da quel momento anche lo specchio ha smesso di riconoscermi.
Il fine settimana la casa era vuota.
Genitori via, Luca dai nonni.
Silenzio compatto, troppo pulito.
Sono tornato nello studio. La scrivania lucida era una lastra fredda.
Ho riaperto la vetrinetta e ho portato i taccuini sul tavolo.
Ho cominciato da uno, poi dal successivo. Non mi sono più fermato.
Li ho letti come fossero un album di guerra: pagine fredde, cronaca senza cuore.
Ogni frase cadeva uguale, secca: gocce che bucano la pietra.
Io che tremavo. Lui che classificava.
Il sesso ridotto a contabilità.
Mi sono alzato, ho camminato nella stanza. Le assi del parquet scricchiolavano piano: sembrava la casa stessa che cercasse di respirare.
Per un attimo ho immaginato mio padre lì, la sera prima, seduto a quella scrivania, a scrivere con la stessa calma con cui la domenica mattina sfogliava la Gazzetta dello Sport.
Quando sono arrivato all’anno di nascita di Luca, le mani mi sudavano, il taccuino scivolava.
“Novembre. Carla incerta. Preservativo saltato. Dice che non importa. Dice che forse è un segno. Io ho scritto: forse è una trappola.”
Mi ha gelato il sangue.
Luca? Un imprevisto? Una trappola? Un segno?
Mi è mancato il fiato. Mi è venuto da piangere.
Non per lui. Per me.
Per quello che stava per arrivare.
Sono andato più indietro.
Il mio anno.
Sono nato a giugno. Concepito in autunno.
Ho sfogliato.
Ottobre: “Due uomini. Carla. Due notti di fila. Fine mese: Carla ha vomitato. Dice influenza. Ma guarda altrove.”
Dicembre: “Carla ha pianto. Poi ha sorriso. Dice che non ha dubbi. Io sì. Ma ho taciuto.
Ho deciso che sarà mio. Anche se non so.”
Le parole mi sono entrate sotto pelle come lame fredde.
“Ho deciso che sarà mio.”
Non: è mio.
Non: nostro figlio.
No.
Ho deciso.
Il taccuino mi è scivolato dalle mani. Mi sono piegato contro il muro. Rileggevo a voce bassa, un mantra tossico: ho deciso, ho deciso, ho deciso. Il verbo era una firma.
In cucina il frigorifero ha attaccato a ronzare. Rumore normale. Per un secondo ho pensato che fosse tutto a posto. Poi l’odore d’inchiostro e polvere dei taccuini mi è risalito al naso. No.
Nel vetro dello scaffale, mi sono guardato le mani: sono sembrate di un altro. Non di sangue. Ma di passato.
Mi sono accasciato.
Mi sono abbracciato da solo.
Ho sussurrato: «Non è colpa tua».
Poi mi sono alzato.
E allora l’ho capito.
Non ero nato da un amore.
Ero nato da un forse.
Figlio di un verbale. Di uno scarabocchio in un taccuino. Di un patto muto. Non carne: margine d’errore.
Ho preso il mio taccuino.
Origine.
Ipotesi: sono figlio di un venerdì notte.
Non ci sarà mai certezza.
Ma c’è un’intuizione.
E l’intuizione, quando brucia,
è una prova.
Odore di lavanda che non se ne va.
Ho firmato.
Ho lasciato il taccuino sulla scrivania.
Sono uscito.
Non ho pianto.
Non ho urlato.
Sono rimasto.
E rimanere
è stato già
una condanna.
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Un racconto denso e doloroso, quasi difficile da leggere per la sofferenza che mostra senza filtri, eppure impossibile da non finire.
Ti segnalo solo che all’inizio hai presentato la madre con il nome di Laura e poi la chiami Carla.
Ciao Lino. Ancora una volta un racconto che scende giù nel baratro, mostrando come l’esistenza di qualcuno possa lentamente andare in brandelli, in maniera irrimediabile. Trovo che tu l’abbia scritto benissimo con alcuni passaggi davvero magistrali. Complimenti.
Mi ha fatto sorgere alcune domande che ti condivido: perché raccontare di questa tragica discesa nel buio? Qual è lo scopo? Il significato? E perché è importante leggere di una vita che precipita fino a questo punto?
Non lo chiedo per criticare, ma per stimolare, e perché leggendolo mi sono chiesto se scrivere racconti non ci renda in qualche modo dei potenziali “significatori” della realtà. In questo caso credo sia nostra responsabilità offrire a chi legge una gentile via d’uscita da quel buio, oppure un senso, o un motivo.
Non lo so. Forse questa discesa mi ha solo scioccato e mi è dispiaciuto non intravedere un guizzo di luce. Ancora complimenti per come scrivi. Non si riesce a smettere di leggerti.
Difficile anche per me commentare questo racconto che mi ha colpito piú di qualunque altro tuo testo pubblicato finora su Open.
Le sensazioni sui contenuti sono spiacevoli dal principio alla fine. Un effetto voluto penso, nella tua ideazione ed elaborazione del testo. La seconda parte mi ha sorpreso, nonostante avessi già anticipato qualcosa nel titolo. Ho apprezzato questa parte della dolorosa scoperta sulla paternità, come un colpo da maestro che spiazza e fa breccia in qualsiasi lettore che non sia di ghiaccio.
Questo racconto, insieme ad altri che ho pubblicato qui, fa parte di una raccolta che sto costruendo e che ha come filo conduttore “i perdenti”.
Sono in tutto 14 racconti, e sto cercando il coraggio di ipotizzarne una pubblicazione.
I vostri commenti, letture e osservazioni mi hanno aiutato moltissimo: grazie a voi sono riuscito a sistemarli e a scegliere quelli che sento più adatti a far parte del progetto. Probabilmente questo è il racconto più scabroso, ma senza voler essere ripetitivo: il vostro giudizio per me resta fondamentale.
Non riesco a commentare…
La perfezione apparente di una famiglia disfunzionali dove il sesso fine a se stesso non lascia spazio alla purezza di un sentimento chiamato amore.
E davanti a tutto ciò ‘rimanere è già una condanna’.