Nel mattatoio

Serie: Il maiale


Un ragazzo racconta i soprusi commessi dal padre alcolista nei confronti di lui e tutta la sua famiglia, l'umiliazione provata da quest'ultima, e le molestie verso la figlia. Racconta poi il modo in cui lo ha brutalmente assassinato, motivo per il quale è finito in carcere.

Oggi è il 15 ottobre. Da bambino, mai avrei pensato di festeggiare il mio compleanno rinchiuso in una cella… e invece siamo già a sette. Sette di infiniti compleanni lontano dalla mia famiglia, lontano dalle comodità che ho sempre dato per scontate. Poco prima di entrare qui dentro, dopo aver massacrato mio padre, nutrivo ancora la flebile e ingenua speranza, che avrei presto rivissuto quelle stupide e banali emozioni suscitate da altrettanto stupidi e banali gesti: cogliere un fiore e assaporarne il profumo; immergere i piedi nella fredda acqua del mare, a pochi metri dalla riva; prendere la strada più lunga per tornare a casa, in modo da riservarmi il tempo per navigare nei miei pensieri… libero di farlo. Ebbene quella scintilla scomparve nel nulla di fronte al giudice, quando, nonostante la mia ammissione di colpa, mi condannò all’ergastolo per omicidio volontario premeditato. Prima di quel momento, da incensurato, mi era capitato solo in televisione di assistere ad una condanna del genere, e nonostante l’estraneità alla situazione che osservai, mi si chiuse lo stomaco al solo pensiero di cosa potesse passare per la testa di una persona che viene privata della vita. Ora lo posso dire: il nulla.

 Non appena sentii quelle parole, istantaneamente venni risucchiato verso l’interno, come se la mia anima fosse collassata su sé stessa, divorando tutto ciò che le stava intorno. In una frazione di secondo tutto quello che fino a quel momento mi aveva reso un essere umano, scomparve nel nulla: emozioni, sensazioni, pensieri, il battito del mio cuore, il suono dei miei respiri… tutto si ridusse ad un puntino microscopico ed evaporò. Piombai in un limbo talmente distante dalla realtà che non riuscii a sentire nemmeno il pianto disperato di mia madre e mia sorella, mentre venivo trascinato via dall’aula. Ogni suono divenne sordo, ogni immagine sbiadita, e tutto perse importanza, come in un sogno dal quale non ti puoi risvegliare.

 La condanna divenne subito esecutiva, così fui subito spedito in carcere. Ebbi appena il modo di osservare l’esterno del grigio e squallido edificio in cui avrei passato il resto della vita, che subito si sbarazzarono di me: prelievo delle impronte, perquisizione, consegna degli oggetti personali, e in un batter d’occhio mi ritrovai in una cella di isolamento. Si, perché come ciliegina sulla torta, oltre alla pena a vita, la condanna prevedeva anche un anno di isolamento… lontano dagli altri detenuti, e da qualsiasi interazione sociale avrebbe potuto, seppur di poco, salvarmi dalla pazzia. In neanche una settimana passai dal dormire nella mia camera sul mio comodo e caldo letto, all’insonnia in un bunker di tre metri per due, con una branda reclinabile che puzzava di urina, un gabinetto e un lavello altrettanto disgustosi. Fin qui uno potrebbe pensare che non possa esserci nulla di peggio. Ebbene c’è, perché in quell’inferno non c’era nemmeno una finestra. Non appena vidi la mia nuova “casa”, la porta dietro di me si chiuse, e l’unico suono che riuscii a sentire fu il mio pianto interrotto dai singhiozzi e dai grugniti. Piansi a lungo. Piansi così tanto che non mi resi nemmeno conto dei giorni che passarono. Piansi per la mamma, per Lucia, e per quel povero bambino che voleva un padre che tenesse alla sua famiglia. Piansi per quel povero ragazzo che non aveva trovato altra soluzione, che non fosse quel gesto estremo di cui tutti stavano parlando, e che nel giro di un mese tutti avrebbero dimenticato. Io non ero più né quel bambino, né quel ragazzo. Io ero un maiale in un recinto, inutile persino come carne da macello. Ero una bestia sodomizzata da un sistema, al quale, della mia riforma, non glie ne importava assolutamente nulla.

Inizialmente pensai, con fare estremamente infantile, che la causa di tutto ciò che mi stava capitando, fosse l’insensibilità del giudice, della legge e di chiunque altro non fosse riuscito a capire che quel brutale omicidio, era l’unico modo per rendere giustizia ad una famiglia mutilata. Era colpa del sistema se lentamente persi la cognizione del tempo, e se gradualmente cominciai a sprofondare nella follia, incapace di distinguere il giorno dalla notte. Era colpa del sistema se l’unico modo che avessi per riposare, fosse a sopraggiunto esaurimento, dopo pianti interminabili e pensieri deliranti. Però, con il passare di… non saprei, giorni, settimane, mesi, e con il venir fuori della rabbia, mi placai, e con mia sorpresa, iniziai a sentirmi in colpa: mi sentii morire per aver privato mia madre di un figlio, e mia sorella di un fratello; cominciai a rendermi conto di ciò che avevo fatto, rivedendo l’immagine di mio padre con la gola squarciata che mi osservava con lo sguardo di un cane impaurito; la consapevolezza dell’esistenza di una miriade di altri modi per cambiare le cose, mi piombò addosso come un’incudine, mentre le mie mani si tinsero di un sangue che non avrei mai potuto pulire; non che mi importasse qualcosa di quello schifo di uomo, ma agli occhi degli altri sarei per sempre rimasto un mostro rabbioso con la bava alla bocca… perché questo sono. Con un gesto di egoismo puro, feci ciò che il mio istinto mi disse di fare, senza prendere in considerazione i sentimenti di chi mi stava attorno e mi voleva bene. Proprio come quel viscido di mio padre, sfogai la mia rabbia repressa, i miei traumi, e le mie debolezze su qualcuno che non poteva difendersi. Proprio come lui, presi la strada più veloce. Io sono come lui… un rifiuto. Un ammasso di atomi indegno di essere definito “persona”.

Resomi conto di questo, piombai nella rassegnazione. Una rassegnazione talmente abissale, che, dopo giorni e giorni sdraiato sul letto senza dormire, mangiare o andare in bagno, tentai di farla finita. Non c’erano lenzuola con cui impiccarsi, né posate con cui tagliarsi, quindi feci l’unica cosa che era in mio potere: mi strappai a morsi la carne dai polsi; il dolore fu lancinante, e sebbene mi considerassi già morto, fu un dolore che mi riportò brevemente nel mondo dei vivi; non emisi un gemito, se non per il rumore che fecero i tessuti staccandosi dal braccio; in pochissimo tempo il sangue colò su tutti i vestiti, scaldandomi il corpo come in un bagno rilassante, e rendendo la cella simile al set di “Saw L’enigmista”. Persi i sensi subito dopo, cullato dal pensiero che finalmente tutto sarebbe finito.

Ironia della sorte… mi svegliai in infermeria, scortato da due guardie penitenziarie, che non appena ebbero la certezza che fossi fuori pericolo, mi accompagnarono in corridoio. Passo dopo passo, con le manette ai polsi che premevano proprio sulle ferite, percorremmo il corridoio, ed ebbi modo di osservare per la prima volta gli altri detenuti. Dio quanto li invidiavo: celle da quattro persone, letti con lenzuola, e armadietti in cui riporre le cose; la possibilità di socializzare con qualcuno; nel mio piccolo e squallido mondo, quella la chiamavo “libertà”.

Il tragitto fu veramente breve, e in men che non si dica, mi ritrovai in un’altra stanza: c’erano un tavolo e due sedie, su una delle quali era seduto un signore di mezza età che mi squadrò dalla testa ai piedi; sin dal primo sguardo ne fui intimorito… i suoi occhi dicevano «Ora ci penso Io a questo furbetto». Mi fece un colloquio di quindici minuti, durante il quale volle sapere quali fossero state le cause scatenanti di quel gesto stupido. Come un pesce, abboccai alla speranza che a quel tizio interessasse davvero come mi sentissi. Gli dissi tutto ciò che stavo passando, e quanto mi facesse stare male. Prese appunti solo nelle parti in cui allusi alla pazzia e al suicidio, mi prescrisse dei farmaci, e mi fece scortare in cella.

Mi imbottirono di torazina e xanax, che, in tutta sincerità, fui contento di prendere… non ne potevo più di quello strazio. La tranquillità, o meglio, l’oblio, aveva però un prezzo: divenni un vegetale incapace di articolare una frase lunga più di cinque o sei parole. L’anno di isolamento lo passai così… tra una catalessi e l’altra, e gli unici ricordi che ho di quei mesi infernali, riguardano i rarissimi e celestiali giorni in cui mamma e Lucia vennero a trovarmi… una boccata di casa. 

Serie: Il maiale


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Discussioni

  1. La sensazione di un impeto nero…..di nero tempo ruggente che soffoca con il suo vento il grido della disperazione…..
    La tua opera è tragedia, è coscienza, è rabbia, è disperazione, è dolore.
    Spingi all’inverosimile l’empatia…..il valore della libertà…..la violenza latente, la tensione costante che logora e annienta…..
    Ma soprattutto ci fai capire che tutta la conoscenza, tutta la letteratura, tutta l’arte non sono altro che la confessione che la vita non basta….fai parlare il silenzio del cuore nero con un canto d’amore disperato……..

  2. Descrivi bene i risvolti psicologici, il travaglio che diventa tormento mi piaciuto.
    Credo che sia troppo l’isolamento per un caso giuridico del genere, ma nel contesto la questione è marginale.
    Bene così.