
NEMICO DI ME STESSO
«Hai fatto tardi. Ti sei visto con gli amici?»
La sua voce mi raggiunge appena entro in cucina. Gentile, garbata. Una gentilezza curata, come certi mobili buoni coperti con la plastica. Una gentilezza che mi graffia.
Mi siedo. Non la guardo. In piedi tremerei troppo. La sedia cigola sotto il mio peso come se protestasse. O capisse.
Lei sorride. Il solito sorriso da cartolina mai spedita. Lo stesso che tirava fuori quando tornavo con le note sul diario. O quando da piccolo mi vergognavo troppo anche solo a salire sul palco. Un sorriso conservato per ogni mio imbarazzo. Uguale. Sempre quello. Come se bastasse per congelare tutto. Anche la vergogna.
«Hai fame? Ti ho fatto il pesce spada. Come piace a te.»
Quel “come piace a te” mi si incolla addosso come carta moschicida. Mi viene da dirle che non ha capito un cazzo. Che sono anni che non so cosa mi piace. Che a volte non mi piaccio nemmeno io. Ma resto zitto. Inerme. In apnea.
Lei si avvicina. Mani curate. Unghie laccate come ceramica scheggiata. L’anello — un simbolo sbiadito. Le vene sottili, come crepe nel cristallo. Apparecchia con precisione chirurgica.
Sul tavolo, una tovaglia stirata.
E una macchia.
Non di vino. No.
Un coniglio.
Non so se è disegnato nel tessuto, o solo nella mia testa. Sanguinolento, ghignante. Occhi sbarrati, orecchie dritte. Mi guarda. Sorride. E respira. Ne sono certo.
Deglutisco. A vuoto.
Lei si siede di fronte. Mani giunte. Postura da preghiera o da giudice.
«Sei strano, stasera» dice. E lo dice piano. Come chi ha paura di rompere qualcosa che è già crepato.
Vorrei dirle che dentro ho un alveare in fiamme. Che graffiarmi è l’unico modo che ho per sentirmi ancora vivo. Che il mio corpo è un ospite ostile. Che le pasticche non fanno più effetto. Che il cervello è una stanza buia con gli specchi rotti.
Ma non ci riesco. Le parole si impastano in gola. Restano lì, inchiodate.
Allora mastico.
Il pesce sa di carta vetrata. O forse sono io che mi scortico via la lingua, la memoria, l’identità.
Il coniglio si sporge dal bordo della tovaglia. Avanza. Lentamente.
«Dille la verità» sibila.
Che ti svegli col vomito in gola.
Che ti spari lo Xanax prima del caffè.
Che sniffi la muffa dai muri quando non c’è altro.
Che vendi il culo in chat, a uomini con facce false e nomi da cartone animato.
Per sopravvivere. Per comprarti la dose.
E sì, a volte ti piace. Perché quel dolore ti basta. Perché almeno è presenza.
Meglio del gelo dell’astinenza. Meglio di quella fame d’amore che non ti ha mai voluto.
Perché almeno, lì, ci sei. E qualcuno ti passa dentro.
Diglielo, pulcino.
Che se potessi, cancelleresti tutto. Anche te stesso.»
«Stai zitto» mormoro. Forse solo con le labbra.
Lei solleva lo sguardo.
«A chi parli?»
«A nessuno.»
Mentire mi viene facile. È l’unica cosa che so fare bene. L’ho imparato presto.
Mi gratto ancora. Mi stringo. Una risata sporca mi scappa di bocca. Una risata da cane malato.
Lei si alza. Mi accarezza i capelli.
«Amore…»
La guardo. C’è tutto l’odio che riesco a raccogliere nei miei occhi. Lo spingo verso di lei. Forte. Lei indietreggia. Finalmente. Ha capito. Forse.
Flash.
Un ricordo.
Io, sotto il tavolo, a otto anni. Lei piange. Parla da sola.
«Non è colpa mia. Non è colpa mia.»
Lo ripete. A voce bassa. Tante volte. Come una filastrocca sbagliata.
Mi stringo le ginocchia al petto. E aspetto che il buio mi divori.
Il coniglio adesso cammina sul tavolo. Ha le zampe sporche. Di sangue o di sugo. Non fa differenza. Mi si avvicina. Respira forte.
«Dille che è colpa sua. Che ti ha fatto così. Che se ti avesse abortito, sarebbe stato meglio per tutti.»
Non rispondo.
Vomito.
Sul piatto. Sul coniglio.
Lui ride. Ride forte.
Lei sobbalza. Si alza. Mi chiama. Una, due volte. Poi piange. Non come le altre volte. È un pianto senza speranza. Senza suono. Come un corpo vuoto che perde acqua.
Io resto fermo. Ma dentro si muove qualcosa.
Un rumore.
Come cristallo che si incrina.
Come una parete che crolla.
Come una diga che cede.
Mi alzo.
Guardo il coniglio.
Lui mi guarda. Sorride.
Gli faccio un cenno con il mento.
«Hai vinto» sussurro.
Il coniglio si lecca i baffi. Si arrampica sul bordo. Scivola giù dalla tovaglia. Si siede al mio posto. Impugna la forchetta. Mastica lentamente. Come se fosse sempre stato lì.
Io faccio un passo indietro.
Poi un altro.
Mi vedo da fuori. Il mio corpo. La mia faccia. Mia madre. Il tavolo. Il coniglio.
Lentamente, mi volto verso il corridoio. C’è buio. Ma è un buio calmo.
Mi fermo. Accanto alla credenza. C’è ancora lì il grembiule. Quello rosa, con le margherite. Il suo. Appeso da anni. Odora di sapone e ammoniaca.
Lo sfioro con due dita.
Poi mi volto ancora, per l’ultima volta.
Il coniglio ha infilato una tovaglietta nel colletto. Ride. Mia madre lo fissa. Le lacrime le hanno rigato il trucco.
Io chiudo gli occhi.
E scompaio.
Dentro, qualcosa si è spento. Ma non fa più paura.
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Questa creazione del coniglio è favolosa, il modo in cui si contrappongono la purezza e l’innocenza che normalmente dovrebbe suscitare e il marciume e lo strazio che invece trasmette. Complimenti come sempre.
Ciao Lino, sei bravo a creare queste ambientazioni. I personaggi sono vibranti e credo che le emozioni fluiscano intense, vadano dritte a colpire chi legge, cosa che ho riscontrato anche in altri tuoi scritti di questo tenore. Se posso esprimere un parere, ciò che credo manchi e che darebbe una spinta ulteriore alle immagini che proponi, è un “dietro le quinte”: se è vero che la parte emozionale arriva forte quello che resta è la domanda perché? Cosa sta dietro a questa situazione. Ora, mi rendo conto che possa essere complicato, ma forse capire che cosa ha portato lì, quel personaggio, aiuterebbe chi legge a entarre di più nei suoi panni, a renderlo più partecipe. Spero vorrai perdonare la mia nota che non vuole togliere nulla al valore della tua penna. Grazie per la lettura
Ciao, grazie davvero per le tue parole ,intense, sentite, e soprattutto così rispettose. Mi fa davvero piacere sapere che le emozioni arrivano forti, perché in fondo è lì che cerco di colpire: in profondità, anche a costo di lasciare ferite aperte. Il “non detto” è una scelta precisa: mi interessa che il lettore si faccia delle domande, che senta qualcosa anche senza avere tutti gli strumenti per spiegarlo. A volte basta un frammento, un’immagine, un silenzio e tutto il resto lo completa chi legge, secondo la propria sensibilità.
Detto questo, capisco benissimo il tuo punto di vista. E forse hai ragione: certe storie, certi personaggi, meritano più respiro. Chissà, magari proverò a spingermi oltre il formato breve, a lasciare che i retroscena vengano fuori con più calma.
Intanto, grazie ancora per la lettura attenta. È bello avere scambi così.
Hai il coraggio di osare, quando scrivi, nell’esprimere emozioni, sentinenti, fragilitâ umane che permettono al lettore o lettrice di specchiarsi, di identificarsi, per un motivo o per un altro, o di entrare in empatia col personaggio. Una straordinaria capacità di rendere vere le tue storie che graffiano le cicatrici sulla pelle o le ferite ancora aperte.
@cedrina Lo ammetto: sei un po’ la mia cavia emotiva… nel senso migliore del termine. Da lettrice attenta, riesci sempre a restituirmi con lucidità il senso di dove sto andando a parare. È come se, attraverso il tuo sguardo, riuscissi anch’io a vedere più chiaramente cosa sto davvero scrivendo. E se la rotta è quella giusta.
In questo periodo sto lavorando a una raccolta di racconti brevi. Il filo conduttore sono i perdenti, gli invisibili, quelli che sembrano non contare, ma che dentro hanno un mondo che urla.
Vorrei avere il coraggio di osare davvero… e magari, per una volta, crederci fino in fondo.
Una serie di racconti brevi é un’ ottima idea. Esattamente ció che ho pensato quando riflettevo sulla tua domanda dovuta all’ intenzione di scrivere una lunga serie di episodi per raccontare una storia. Io continueró a seguirti molto volentieri, con grande interesse, che siano racconti brevi o tante lunghe stagioni. Uniró l’ utile (apprendere), al dilettevole (il piacere della lettura). E ti sono grata per la ricchezza dei contenuti che condividi con noi.