
Ninnillo
Napoli, dicembre 1852
Nunziatina chiuse forte la porta della cucina. Troppo forte. Ridevano di nuovo, come sempre. La portinaia e donna Placida, appoggiate all’uscio, si scambiavano consigli sugli acquisti per Natale, come se niente fosse mai successo. Come se quella sera non fosse mai esistita.
Le sentiva le loro voci rimbombare nel corridoio mentre prendeva il secchio e andava nello studio in fondo alla casa. Lì almeno nessuno entrava. Appoggiò il secchio su una sedia, aprì la finestra. L’aria era fredda, il cielo color cenere. Eppure via Ventaglieri sembrava un mercato, piena di grida, di panni stesi, di gente che parlava da un balcone all’altro. La vita, come se niente.
Respirò a bocca aperta, con gli occhi semichiusi. Le venne da piangere, ma le lacrime non uscivano più. Da quella sera del 10 dicembre aveva pianto solo quando era sola, in silenzio.
Guardò in strada e si ricordò di quando, un anno prima, aveva incrociato lo sguardo di Attilio. Lui passeggiava sul marciapiede di fronte, aveva alzato la testa, e lei per la vergogna si era rintanata subito in casa. Si era innamorata subito. E glielo aveva dimostrato nel sottoscala del palazzo, una mattina in cui nessuno era in giro. Poi lui era partito per Palermo, e di lui non le era rimasto nulla. Nulla, tranne quel bimbo.
Quel pensiero le distrasse il cuore, e per un attimo dimenticò la tristezza. Le venne anche da sorridere. Ma bastarono le grida di un bambino da un balcone vicino a riportarla alla realtà. Alla sua.
Nunziatina si toccò il ventre. Non sentiva più niente. Nessun calcio, nessun battito. Tutto sparito, insieme al suo Ninnillo.
Una lacrima le rigò il viso.
È vivo, si disse. Ma non è più mio. È vivo, ma io non sono più sua madre. Cercava di convincersene. Ma non ci credeva nemmeno più. Se avesse avuto un briciolo di coraggio, si sarebbe buttata dalla finestra. Ma era codarda. Come lo era stata quando aveva lasciato che le portassero via Ninnillo.
Non c’era giorno in cui non pensasse a lui.
Com’era bello. Biondo, chiaro chiaro. Piangeva forte. La portinaia aveva storto il naso: «Questo non arriva a domani, è malato», aveva detto Donna Placida, senza nemmeno guardarlo per più di due secondi. Nunziatina l’avrebbe voluta sputare in faccia. Prenderla per i capelli. La portinaia annuiva. «Zoccola», avrebbe voluto gridarle. «Pensa alle corna che ti fa tuo marito, va’.»
Poi era arrivato Matteo. Aveva preso Ninnillo, avvolto in uno scialle sdrucito, e se l’era portato via. «Copritelo, don Matteo, che fuori fa freddo», aveva detto Nunziatina, quasi senza voce, già seduta sul letto.
Donna Placida e la portinaia si erano scambiate uno sguardo maligno. Matteo, forse mosso da pietà, si era avvicinato per farle vedere il bambino un’ultima volta.
A Nunziatina era sembrato che le stesse sorridendo. Lo aveva guardato meglio. Somigliava ad Attilio. Era sicura. E anche un po’ a suo padre. Gli aveva accarezzato la mano, e Ninnillo le aveva stretto forte un dito.
Stava per dire qualcosa. Ma la portinaia la interruppe:
«Vuè, vuè, che vogliamo fare, matina?»
Afferrò Matteo per la spalla e lo spinse verso l’uscita.
«Muoviti, che le suore dell’Annunziata se ne vanno a cuccà. Iamma’ bell.»
Nunziatina restò lì. Le bastava respirare. Seduta, le mani in grembo. La finestra era ancora aperta, e il freddo le entrava nelle ossa. Si sentiva come un’ombra: presente, ma fuori dal mondo.
Cominciò a pregare la Madonna di Montesanto. Ma le parole, stavolta, non la consolavano. Si rannicchiò, lo sguardo perso nel vuoto. E nel vuoto si assopì, senza rendersene conto.
Fu un bussare discreto, ma deciso, a svegliarla.
Nunziatina sobbalzò. Era ancora avvolta in quel torpore che il dolore non riesce a scacciare. Per un istante, sentì un fremito di attesa, come se quella bussata potesse portarle qualcosa di buono. Una visita, una voce gentile, perfino una carezza.
Ma bastò un solo respiro per ricordare che non c’era più nulla da aspettare. Le avevano già preso tutto.
La porta si aprì lentamente.
Era Matteo. Il volto stanco, serio. Nelle mani, un fagottino di stoffa chiara. Un bavaglino.
«Ce l’aveva ancora addosso. Forse voleva che restasse a te.»
Nunziatina lo prese con mani tremanti. Non parlò. Lo portò al viso. Sapeva ancora di latte e freddo. Lo tenne stretto. Matteo si sedette vicino a lei.
«Lo chiameranno in un altro modo. Gli daranno un cognome finto. E una madre nuova.»
Nunziatina lo guardò. «Io l’ho già chiamato. E io sono già sua madre.»
Matteo non rispose. Tirò fuori dalla tasca un tornese e glielo lasciò sul tavolo. Poi uscì.
Nunziatina rimase sola. Il bavaglino tra le dita. La finestra ancora aperta. Il vento entrava piano, come un respiro che non voleva farsi sentire. Pregò di nuovo. Ma non chiese un miracolo.
Chiese solo che, da qualche parte nel tempo, qualcuno potesse volergli bene per davvero.
Quel bimbo lasciato alla ruota, con addosso l’odore di latte e freddo, avrebbe avuto un nome nuovo. Ma nel cuore di Nunziatina restò sempre Ninnillo.
Questo racconto immagina ciò che forse accadde in quelle ore: il dolore di una madre, la sua lotta interiore, l’ultimo gesto d’amore prima dell’abbandono.
Quel bambino è realmente esistito. Nacque in quel mese e in quel luogo, e fu registrato senza padre né madre. Gli fu dato un cognome d’invenzione, come si usava allora: Domenico Tintore. Con il tempo, con la fortuna, con la vita, divenne il capostipite di una famiglia che sarebbe arrivata fino a me. Questa storia è un omaggio alla sua origine e alla donna che, pur spezzata, gli diede la possibilità di esistere.
Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Ciao Lino, confesso che questo racconto mi ha fatto scendere una lacrima. La perdita di un figlio deve essere devastante. Ricordo quando, a nove anni, andai con mia madre a far visita a una mia zia che aveva partorito. Il bambino era nato morto e lei mi guardò e disse: “Stai cercando il ninnillo?” Poi scoppiò a piangere. Non ho mai visto una persona distrutta quanto lei per nessun dolore al mondo. Bravo, Lino👏👏👏
Ciao, grazie di cuore per le tue parole. Il ricordo che hai condiviso è davvero toccante, capisco bene quanto possa segnare un’esperienza simile. La perdita di un figlio resta un dolore che non si può descrivere fino in fondo, e sapere che il racconto ti ha emozionato al punto di riportarti a quel momento significa tanto per me. Ti abbraccio.
Grazie a te.
Mi è piaciuto moltissimo questo racconto, è intenso e dolce. Se posso lasciarti un’opinione non richiesta, mi sarebbe piaciuto leggere prima il racconto, poi quella che è stata la premessa, addirittura senza il primo capoverso di questa, che leva un po’ di magia. Mi sarebbe piaciuto leggere solo un accenno di “dedica” al fatto che il bimbo è realmente esistito. Ma è solo un’opinione. Molto bello, bravo Lino.
Caro Roberto,
ogni tuo desiderio per me è un ordine — e stavolta credo tu abbia pienamente ragione. Probabilmente, nel mio caso, ha prevalso l’aspetto affettivo su quello autoriale.
L’emozione che ho provato quel giorno, quando sono andato all’archivio dell’Annunziata, mi ha guidato in una direzione più “intima”, forse meno efficace dal punto di vista narrativo.
La tua osservazione è preziosa, e non solo la condivido: la terrò stretta per le prossime volte.
Grazie davvero, di cuore.
Riesci a stupirmi ogni volta per l’intensità di ció che scrivi. Sin dall’ incipit ho sentito piú volte la pelle d’oca. La dolcezza e l’amore che trasuda il racconto, senza alcuna traccia di risentimento per una storia triste e dolorosa, mi portano ad apprezzare ogni parola e ogni virgola di questa tua nuova, meravigliosa narrazione.
Le tue parole sono una vera spinta, il giusto carburante , perché arrivano dritte, senza sforzo, come solo le cose sincere sanno fare.
Sapere che hai sentito dolcezza e amore mi dà la sensazione che forse, scrivere, serva ancora a qualcosa.
E poi… avermi citato in un tuo racconto è stato un regalo inaspettato. Per me è come aver fatto un terno al lotto senza nemmeno aver giocato.
Grazie, di cuore. Per la lettura, per l’ascolto, e per quella gentilezza che non fa rumore ma resta.
Un abbraccio.
Un abbraccio a te. Le tue qualità, come autore e come persona, che si manifestano attraverso la scrittura, unite alla tua modestia, mi conquistano.
«Muoviti, che le suore dell’Annunziata se ne vanno a cuccà. Iamma’ bell.»
Quanto é bello il napoletano. Musicale anche nella prosa.
👏 👏 👏