
‘O mar
‘O mar aveva viaggiato a lungo, per terra e per mare, sul ghiaccio, sulla neve, sul fango e sotto il sole cocente. Aveva attraversato boschi e sottoboschi intricati, pieni di spine che penetravano nelle scarpe rotte e nella carne; strappavano brandelli di tessuto da vecchi indumenti già lacerati. Aveva viaggiato aggrappandosi al fondo di un camion, su strade polverose, col fumo di scarico che gli veniva in faccia. Aveva attraversato paesi, città e luoghi disabitati, sopra il vagone di un treno, col vento forte e con la pioggia battente.
Era passato attraverso le mire dei terroristi e dei cecchini in guerra, militari e civili. Era stato in prigione, aveva subito torture che avevano lasciato segni indelebili sul suo corpo e nell’anima. Con lo spirito fiaccato e il corpo consumato, era fuggito, dopo una rivolta dei prigionieri, e aveva respirato di nuovo l’immensità del cielo. Era stato profugo, rischiando di annegare e di morire di fame; stremato dalla sete e dal sole torrido a picco sulla testa, in mezzo al mare.
Uno dei tanti compagni di sventura non aveva retto. Era morto tenendogli la mano e lasciandogli l’unico bene che gli fosse rimasto: un pezzo d’ambra portafortuna.
Quando era sbarcato gli avevano offerto acqua, cibo e medicine per curarsi dalle ustioni. Sulla panchina di una piazza una bella signora con i capelli bianchi, semplice ma elegante, con il suo abbigliamento modesto da volontaria, gli aveva curato le ferite dei piedi. La donna era una psichiatra che aveva smesso di esercitare la professione nel prestigioso studio privato, dove si occupava di facoltosi pazienti, soprattutto borderline o bipolari o depressi, che potevano sottrarsi alle lunghe attese del servizio sanitario pubblico.
In un primo momento, dopo aver cessato la sua attività, la signora aveva pensato di concedersi una lunga crociera insieme al suo consorte, poi aveva visto un servizio del telegiornale, sull’ennesimo naufragio dei profughi. Per giorni e giorni, quel servizio l’aveva assillata: le immagini di quell’immenso mare zeppo di cadaveri dei tanti esuli che non erano riusciti ad approdare da nessuna parte, agitavano la sua coscienza. Aveva cominciato così il suo volontariato come infermiera, sfruttando le nozioni di pronto soccorso acquisite molti anni addietro. Le sue mani curavano le ferite dei piedi, i suoi occhi lenivano le sofferenze dell’anima. Lei e ‘O mar non parlavano la stessa lingua: i loro messaggi passavano dal canale visivo o tattile o anche attraverso il sesto senso.
Un giorno lei gli aveva regalato un cellulare per poter chiamare qualcuno dei suoi famigliari, per far sapere che era vivo e che aveva trovato rifugio in una città che non lo aveva respinto. Lui l’aveva ringraziata con lo sguardo e con un cenno del capo che era quasi un inchino. I suoi genitori erano morti; i suoi fratelli non sapeva dove fossero, se fossero vivi o morti.
‘O mar aveva trovato accoglienza in un istituto per profughi; aveva iniziato a impegnarsi come volontario per aiutare altri come lui. Aveva cominciato ad andare a scuola, per imparare l’italiano. Una delle prime parole che aveva ripetuto era “‘o mar”, per dire il mare. Quell’espressione, che aveva sentito da uno degli operatori del centro di origine napoletana, gli era rimasta appiccicata: tutti lo chiamavano affettuosamente ‘O mar, perché il suo vero nome era molto difficile da pronunciare.
Gli avevano insegnato a leggere l’italiano e per lui era stata la conquista di un nuovo mondo. Immergendosi nei libri poteva attraversare mari e monti, interi continenti, senza nessuna fatica, senza correre alcun rischio, senza consumarsi le scarpe o flagellarsi i piedi.
Aveva ripreso a viaggiare attraverso le parole scritte sulle pagine di Il giro del mondo in ottanta giorni. Dopo qualche mese gli avevano indicato un “luogo” dove poteva leggere a volontà, senza dover arrivare fino alla biblioteca, molto distante dal centro di accoglienza, e senza dover pagare alcuna tessera. Aveva scoperto “un’isola felice”, un mare dove era dolce naufragare, come aveva scritto un grande poeta del passato, ancora presente nei cuori di tanta gente. Era un luogo dove era facile lasciarsi trasportare dalle parole degli autori, più o meno bravi e sconosciuti.
Aveva iniziato a svegliarsi presto, con il desiderio di accendere il cellulare, per leggere altre storie. A un tratto aveva sentito il desiderio di provare a scriverne qualcuna anche lui.
Di cose da dire ne aveva tante; di esperienze fatte, più orribili che piacevoli, una lunga serie. Avrebbe potuto scrivere una sfilza di episodi sul genere horror; tante e tali erano le sue disavventure. I mostri che lo avevano derubato, picchiato e seviziato, certe notti ricomparivano nei suoi incubi più angosciosi, come cani rabbiosi, un po’ umani nell’aspetto e un po’ belve, che lo facevano drizzare nel letto, urlando e svegliando anche quelli che dormivano accanto a lui. Non era ancora pronto per far riaffiorare quel vissuto doloroso che avrebbe preferito dimenticare.
Gli sarebbe piaciuto raccontare una bella favola, come quella che aveva letto sul sito, di un certo Sandro Ricciuto.
Ci provò più volte, iniziando così: “C’era una volta un re… “; “C’era una volta un regno… “; ” C’era una volta un reietto… “.
Infine gli era venuta un’idea. “C’era una volta un villaggio, nel bel mezzo di una foresta. Tra gli alberi sempreverdi scorreva un fiume. L’acqua era limpida, fresca e buona da bere. Anche l’aria era buona, ricca di ossigeno, mai troppo fredda, mai troppo calda. Le piante erano floride, davano legna, ombra e buoni frutti; attiravano le piogge che mitigavano l’aria e facevano crescere i tuberi.
La gente del villaggio era contenta: nessuno si arrabbiava, nessuno si lamentava, nessuno rubava, nessuno si ammalava.
Le rare volte che qualcuno stava poco bene si rivolgeva alla sciamana del villaggio. La vecchia non faceva nulla di speciale. aveva smesso di praticare riti Vudù o pratiche magiche di altro genere. Era diventata una sciamana molto strana, che aveva viaggiato, aveva studiato e conosceva molte lingue. Quando qualcuno si rivolgeva a lei, in genere era dovuto a uno dei soliti malesseri stagionali: il cielo troppo grigio, le piogge prolungate o un temporale improvviso che aveva rovinato qualche capanna. Di solito gli abitanti del villaggio erano molto attivi: gli uomini coltivavano, le donne andavano a pesca sul fiume; oppure macinavano tuberi per produrre farina. L’intera famiglia, bambini compresi, si dedicava a intrecciare cappelli, cesti o tappeti di paglia. Quando c’era da riparare o ampliare una capanna, la partecipazione era collettiva. Stare impalati come i pesci che le donne appendevano ad essiccare sui pali, li annoiava, li faceva sentire male e, preoccupati, si rivolgevano alla sciamana.
La vecchia allora li faceva accomodare nella misteriosa capanna del quadrato nero e della polvere bianca, come diceva qualcuno che aveva cercato di sbirciare. Per ricevere le istruzioni la sciamana li lasciava nelle mani di Maria, la sua assistente, conosciuta in uno dei tanti viaggi, in un’isola lontana. La giovane donna aveva preferito abbandonare la sua terra perché in quei luoghi la gente, per stare bene, doveva narcotizzarsi in mille modi diversi.
Le consulenze all’interno della capanna duravano qualche ora e proseguivano per giorni e giorni. Anche se riprendevano a stare bene quasi subito, dovevano continuare, comunque, a ricevere istruzioni per poter utilizzare il rimedio anche a scopo preventivo.
Un po’ per volta, tutti gli abitanti del villaggio, per bisogno o per curiosità, si erano rivolti alla vecchia saggia per capire e per provare quello strano “coso”, che veniva dato per lenire tutti i mali, abbastanza lievi, che affliggevano, di tanto, in tanto, i loro gli animi. Uno di loro, che aveva ricevuto per primo lo strano rimedio, aveva deciso di utilizzarlo con l’arrivo degli acquazzoni di fine estate. Sin dai primi goccioloni che gli erano caduti sulla testa pelata, si era precipitato all’interno della sua capanna, aveva aperto l’involucro e aveva posato i tre oggetti sulla superficie piatta del tamburo che serviva per tutti i rituali a suon di musica e danze. Era rimasto a lungo a osservare lo scroscio della pioggia, poi aveva intinto il pennino nel nero di seppia e aveva iniziato a tracciare i simboli sul quaderno contenuto nel pacchetto. Maria era stata una brava insegnante e lui un ottimo scolaro. In poco tempo, utilizzando i gessetti, che si sbriciolavano lasciando polvere bianca dappertutto, aveva imparato a scrivere sul grande quadrato nero.
La scrittura – come diceva la vecchia saggia – quando si impara bene a usarla, può diventare una magia meravigliosa.”
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Scrivere ti aiuta ad alleviare le ferite, e a farle magicamente sparire. Sono contenta che O’mar sia riuscito a scrivere la sua favola, sarebbe bello se tutte le storie dei migranti finissero in questo modo. Bel racconto, pieno di speranza M.Luisa! Congratsssss
Grazie Maria Anna, so che la realta` e` spesso piu` amara. Mi piace credere che esprimere pensieri con parole positive possa diffondere buone vibrazioni che in qualche misura possano contribuire a stemperare il clima di intolleranza sempre piu` diffuso, nei confronti dei migranti. So di non essere l’ unica in questo mio modesto tentativo. E sono sicura che non sia l’ unica goccia calda in un mare gelido.
La scrittura è una terapia meravigliosa. A volte il disagio è tale da aver bisogno di un aiuto professionale, come quello della dolce signora dai capelli bianchi, ma scrivere e leggere può dare un grande sollievo a tutti. Hai citato i due pilastri che nella mia vita hanno avuto un ruolo fondamentale. Mi ha commosso l’accenno a questo luogo meraviglioso dove tanti di noi mettono i loro pensieri, le loro fantasie ed incubi: oramai è una seconda famiglia.
Grazie Micol, le gradite parole di questo tuo commento mi hanno dato la conferma di quante cose abbiamo in comune. Persino nel piccolo racconto nel racconto di questo librick, che avevo quasi dimenticato, ho ritrovato vari elementi presenti anche negli episodi della tua ultima serie, che leggo sempre con molto interesse.
Splendida favola moderna, mi piace il parallelismo tra il nome Omar e O’mar, un poetico e sentito inno alla scrittura, con cui si riesce anche a toccare dinamiche sociali che spesso ci fanno vergognare
Grazie Alessandro, le tue parle mi lusingano. La dottoressa con i capelli bianchi che cura le ferite nei piedi dei profughi, in una panchina di una piazza, a Trieste, esiste davvero. L’ ha intervistata Domenico Iannacone nel suo programma su RAI 3 ” Che ci faccio qui”. E´ una bella persona, mi ha colpito e ci tenevo a inserirla in uno dei miei racconti.
Intensevo dire parole, non parle.
Sono vivo e vegeto. Sto scrivendo la mia prima serie in 10 episodi e sono a metà dell’opera. Non la pubblico finché non è completa.
Bene per la tua serie e bene perche´ stai bene.👌
“Immergendosi nei libri poteva attraversare mari e monti, interi continenti, senza nessuna fatica, senza correre alcun rischio, senza consumarsi le scarpe o flagellarsi i piedi”. Condivido il pensiero e lo implemento. Io non vorrei imparare la geografia attraverso le tante guerre contemporanee, combattute ai giorni nostri e parallelamente. Città e regioni sconosciute improvvisamente sono diventati luoghi familiari. Avrei voluto scoprirli, ma non così. Dai tuoi racconti, anche da quelli più tristi e drammatici, emerge sempre uno spiraglio di speranza e fiducia nel prossimo.
Fabius P. dunque non ci hai abbandonato. Non sapevo come interpretare il tuo prolungato silenzio. Senza i soliti rimedi “omeapatici”, rischio di perdere l’ ispirazione. Grazie per le tue parole e aspetto presto una buona “dose di pillole del sorriso”.
“La scrittura – come diceva la vecchia saggia – quando si impara bene a usarla, può diventare una magia meravigliosa.”
Hai perfettamente ragione. Molto bello il racconto tuo e di O mar, come sempre ormai. Aspetto altri tuoi racconti con piacere 👏 😃
Grazie Carlo, cerchiamo di fare del nostro meglio per fare i “maghetti”della scrittura.😉