Occhi pietrificati
Mi sono sempre domandata quale fosse il modo corretto per raccontare un pezzo di sé, delle immagini che rimangono impresse e stampate sugli occhi, del brivido e la paura che ti fanno paralizzare mentalmente. Io ho tanti pezzi di me, frantumati e traumatici. Sono la causa della mia rabbia, di ogni sospiro che mi toglie il fiato, di ogni battito accelerato, di tutti gli sguardi spenti e pietrificati.
Descrivere un piccolo pezzo di me comporterà solamente la tempesta nei miei occhi. Una tempesta che invece di avvertire i marinai a restare sulla terra ferma, li affoga negli abissi. E il marinaio intrappolato in me, vuole evadere con il seguente ricordo. Ero seduta nel bagno blu di casa mia, percepivo le mattonelle fredde mentre stringevo le ginocchia al petto. Mi si annebbiò la vista e i ricordi presero il sopravvento, erano tutti così cupi, violenti e dolorosi. Volevo controllarli, cercavo di controllare la mia mente ingannandola, ma furono solo tentativi inutili. Tremavo e respiravo a fatica. Respiravo profondamente cercando di calmarmi, ma sembravano limitati. Mi impedivano di espandere i polmoni, di catturare l’aria e tenerla dentro. Avevo perso il controllo. Mi alzai e con fretta cercai qualcosa di tagliente. Andai in cucina e prendere un coltello, ma non bastava. Il ricordo arrivo in un lampo, come se non aspettasse altro. Cercai il mio amico fedele, colui che torturandomi riesce a salvarmi: il temperino. Svitai la vite con furia e presi la lametta che custodiva. Gli occhi mi imploravano davanti ad un ricordo già vissuto, non volevano guardare di nuovo lo stesso orrore. E non lo fecero infatti. Videro di peggio.
Mi tolsi i pantaloni e senti un brivido guardando le stesse cicatrici di anni prima e di un paio di mesi precedenti.
Presi la lametta, che tagliava meglio di un coltello, e con violenza, con tutta la rabbia che avevo dentro feci pressione sulla mia pelle, incidendo nuovi punti di dolore. Continuai, ma non sembravano mai abbastanza. Il dolore non era superiore al dolore che avevo dentro. Era come un dejavu, chiusa nella stessa prigione mentale, nello stesso orrore. Ero sola, come ai vecchi tempi e mi imploravo pietà. Le ferite non smettevano di sanguinare. Erano troppe, il sangue avevo ricoperto l’intera coscia. Scoppiai in lacrime nuovamente e credevo che passandoci una mano sopra tutto sarebbe sparito. Guardavo le ferite pietrificata e mi resi conto di aver esagerato, non smettevano di sanguinare per la loro profondità. Respiravo male nuovamente. Poi ti ho sentito, ho sentito la porta aprirsi e chiudersi sbattendo. Sentivo i tuoi passi che mi cercavano. Il cuore ha cominciato ad accelerare, non volevo che mi vedessi così. Smisi di piangere d’un fiato e strinsi le ginocchia al petto. Eri lì e mi guardavi spaventato e preoccupato. Ma la tua presenza mi calmò.
Stavi lì al mio fianco a tranquillizzarmi, ad abbracciarmi e a pulire il sangue ormai seccato sulla pelle. Non riuscivo a guardati, non ne avevo il coraggio. Non volevo mostrarti questa parte orribile di me. Non volevo farti conoscere il mostro che mi possiede.
Non riesco a togliermi quest’immagine dalla testa. Non sopporto l’idea che tu abbia dovuto subire ciò, di trovarti nella condizione di guardare qualcuno distruggersi davanti ai tuoi occhi e rimanere in silenzio.
Ci penso ancora, ogni giorno, e mi guardo con rancore e terrore. Solo un mostro è capace di farsi del male e trascinare con se le persone più care. Non riesco a perdonare me stessa per aver affogato il marinaio e per avergli permesso di battersi nella tempesta.
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Cara Gabriela, leggo sempre i suoi scritti anche se arrivare alla fine non è per me mai facile. C’è tanto dolore in essi e ci sono le lacrime. Il dolore che è nel cuore di colei che ci parla, un “mostro” a suo dire. Accanto però, la speranza: un uomo capace di amare e vedere oltre quel “mostro”. Qualcuno che ci guarda con gli occhi lungimiranti della misericordia.