Occhi verdi

Serie: Occhi


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Sguardi e parole fanno male, l'indifferenza uccide

Silvia si guardò allo specchio. Era bella, la tipica bellezza mediterranea, perfetto esempio di secoli di interazioni tra i popoli. Non amava il trucco vistoso, e non ne aveva bisogno. L’abbronzatura, ancora viva a metà settembre, copriva la spruzzata di lentiggini che facevano sembrare il suo naso il cielo di una notte d’estate. Prese il mascara ma poi lo rimise subito a posto. Meglio di no. Si stropicciò gli occhi con uno sbadiglio. Aveva dormito poco quella notte, troppi pensieri, troppe nozioni. Equazioni e diagrammi continuavano a danzarle nella testa. Gli occhi verde acqua erano arrossati e secchi, niente lenti quel giorno, sarebbe andata con gli occhiali da vista. Odiava mettere gli occhiali. Non per vanità, ma per l’effetto che le davano. Chi aveva deciso che una donna con gli occhiali dovesse essere un’insegnante sexy o una studentessa sexy? Qualsiasi indumento si mettesse una donna risultava sempre sexy agli occhi degli uomini. Scosse la testa stanca e disgustata. Oggi aveva altri pensieri. Oggi doveva dare il suo ultimo esame all’università. E doveva essere perfetto. Anni di sacrifici, di studio intenso e nottate insonni finalmente sarebbero finiti. Diede un ultimo sguardo allo specchio mentre si pettinava i lunghi capelli castani. Era inutile. Dopo giorni di maestrale che l’avevano illusa fosse finalmente arrivato l’autunno, era tornato il caldo e l’umido portati dallo scirocco. I capelli ondulati erano selvaggi e indomabili. Poggiò il pettine e prese un elastico dal cassetto, oggi coda di cavallo. Guardò l’orologio, era ancora presto. Sua madre la stava aspettando ancora in pigiama all’ingresso. La guardò con aria orgogliosa.

«In bocca al lupo Silvia.»

«Crepi.»

Prese le chiavi di casa e aprì la porta.

«Non ti metti niente? Fa freddo la mattina» disse la madre.

«Mamma ci saranno già 25°C.»

«Eh su…è così che ci si ammala, forza» e le diede in mano un giacchino leggero.

Silvia roteò gli occhi e incastrò il giacchino sopra la borsa monospalla che le pendeva a sinistra. La mamma la baciò sulla guancia e finalmente la lasciò andare.

Silvia corse giù per le scale. Uscita dal vialetto del palazzo condominiale le vennero dei dubbi e tirò fuori dalla borsa il quaderno con gli appunti dell’esame. Il giacchino le cadde a terra e si piegò subito a raccoglierlo.

Un fischio dietro di lei.

Si girò subito.

Tre ragazzi, ancora adolescenti, con lo zaino dietro la schiena la guardavano sghignazzando. Un brivido le corse per la schiena. Non era certo la prima volta che le succedeva, avrebbe dovuto esserci abituata? Perché? Ad alcune ragazze piaceva quell’attenzione, aveva sentito in televisione alcune vecchie attrici dire addirittura che le molestie sul set erano un complimento. Non riusciva ad immaginare come una palpata sul sedere fosse un complimento. Pure suo padre lo faceva a sua madre qualche volta, ma a lei sembrava piacere, quantomeno non dava segni di contrarietà. Forse era lei sbagliata? Forse era davvero tutto normale e solo lei esagerava?

Si rimise in cammino, ma un senso di insicurezza, leggero, come di vergogna, come se fosse spiata, si insinuò dentro di lei. Aprì il quaderno ma dopo pochi secondi lo richiuse, non riusciva a concentrarsi. Rimise il quaderno dentro la borsa e quella sensazione di essere fissata aumentò. Si guardò attorno. C’era il solito caos della mattina. Genitori che portavano i figli a scuola, ragazzini che correvano a prendere l’autobus in ritardo, anziani ben vestiti che passeggiavano o si dirigevano al mercato. Un signore sulla quarantina con gli auricolari e una borsa a tracolla la urtò distrattamente. L’uomo la guardò con la coda dell’occhio, alzando appena una mano in segno di scusa. Un attimo dopo l’uomo si girò meglio per squadrarla per bene, un leggero sorriso comparve sulla sua bocca, mentre mormorava le sue scuse, ma Silvia notò il desiderio nei suoi occhi. Sentì quegli occhi addosso sul suo corpo, li sentì pungenti e appiccicosi. Automaticamente sorrise e ringraziò l’uomo che riprese il suo cammino, girandosi nuovamente a scrutarla dopo qualche passo. Istintivamente prese la giacchetta. Faceva caldo ma se la mise addosso lo stesso. Si sentiva nuda. Si fermò alla fermata dell’autobus, tirò fuori il cellulare e controllò sull’app quanto avrebbe dovuto aspettare. L’app segnava cinque minuti ma lei vide già infondo alla strada il suo bus farsi strada tra auto parcheggiate in doppia fila e motorini che zigzagavano da ogni parte. Quando finalmente arrivò il bus vide che era pieno. Di nuovo quel senso di insicurezza la avvolse. Ora era più forte, come di pericolo. Lasciò andare il bus e si diresse a piedi verso l’università. Guardò l’orologio. Aveva ancora tempo, mezz’ora e sarebbe arrivata se avesse camminato veloce. Marciò per le strade della città sotto il sole che era già caldo nonostante la mattina presto. Silvia aveva il volto rosso e la schiena bagnata dal sudore. Guardava nervosamente l’orologio ogni cinque minuti. Ad un certo punto non riuscì più a sopportare quel caldo e si tolse il giubbino, continuando a camminare velocemente. L’aria le sembrò fresca solo per pochi secondi. La schiena era completamente bagnata e si sentì la camicetta a quadri attaccata alla pelle. Si sbottonò due bottoni per prendere un po’ d’aria ma si accorse che la scollatura delle sue generose forme era parecchio evidente. Riabbottonò un bottone immediatamente pressata dal suo senso di insicurezza. Arrivò all’ingresso della facoltà di Ingegneria e Architettura cinque minuti dopo le nove. Corse verso l’aula dove si teneva l’esame. Molti ragazzi guardarono il suo seno ondeggiare ad ogni passo, ma Silvia decise di ignorarli. Salì le scale a due a due tenendosi il seno con un braccio, almeno per smorzare un po’ il movimento del suo petto. All’ultimo gradino le cadde di nuovo il giubbino dalla borsa. Si fermò e imprecò mentalmente. Si girò per prenderlo ma un ragazzo dietro di lei molto galantemente glielo raccolse.

«Ecco tieni» le disse con un largo sorriso.

Silvia allungò la mano e aprì bocca per ringraziarlo.

Una frazione di secondo, il ragazzo abbassò per una frazione di secondo lo sguardò sul suo petto che batteva incessantemente per lo sforzo. Il ragazzo si sforzava di guardarla dritta negli occhi, ma era evidente che scrutava il suo seno con la vista periferica. Silvia prese il giacchino velocemente, ringraziò freddamente e andò via.

«Che stronza di ghiaccio» sentì il ragazzo commentare con i suoi amici.

Scosse la testa nervosa e cercò l’aula. Doveva concentrarsi ora. Basta distrazioni.

Trovò l’aula Q già chiusa. Imprecò sottovoce. Il professore era già arrivato. Bussò ed entrò. Tutta la classe, quasi interamente composta da uomini, la squadrò. Arrossì violentemente, imbarazzata e confusa e si diresse a sedere vicino ad alcuni amici.

«Sempre in ritardo tu eh» le disse Andrea con tono di rimprovero.

«È una donna…che t’aspettavi?» continuò Alberto.

Silvia si girò arrabbiata.

«Facile con la moto arrivare presto» disse squadrando Andrea. «O abitando di fronte all’università» e si girò verso Alberto.

«Silenzio! Signorina…è arrivata in ritardo e disturba pure» la rimproverò il professore visibilmente seccato.

Silvia balbettò le sue scuse imbarazzata e restò ferma e immobile.

«Complimenti…» sussurrò Alberto ironicamente.

A Silvia montò la rabbia e la frustrazione, sentì la voglia di piangere e di andare via. Era ferita da quel rimprovero, come una scolaretta che aveva preso un brutto voto. Ma era ancor più arrabbiata con quei due stronzi, come se lei fosse sempre in ritardo. Era arrivata una sola volta in ritardo ad una lezione, perché il bus aveva fatto un incidente e aveva dovuto prendere quello successivo, una sola volta e da allora per quei due lei era sempre “la ritardataria”. E avevano pure il coraggio di biasimarla perché donna. Bussarono alla porta ed entrarono altri due ragazzi.

«’giorno» dissero all’unisono.

Il professore li guardò distrattamente e proseguì con l’appello.

I due ragazzi si sistemarono nei posti davanti e rumorosamente tirarono fuori i quaderni.

«Uè zio!» disse un ragazzo seduto a qualche posto di distanza rivolto ad uno dei due nuovi arrivati.

«Bella fra» rispose l’altro e si allungò per dargli il cinque.

Il professore alzò appena gli occhi ma proseguì imperterrito.

L’esame iniziò. Silvia assistette a tutti gli orali. Alcuni ragazzi erano penosi ma riuscirono a strappare un diciotto o anche un venti, altri erano bravi e preparati ma si perdevano in piccole cose e arrivavano a ventotto. Il professore era decisamente pignolo e severo. Un ragazzo era stato perfetto. Voce chiara e limpida, risposte puntuali e precise e schemi impeccabili. Ventinove. Mormorii di dissenso echeggiarono per l’aula. Il ragazzo sorrise educatamente, consegnò il libretto per la verbalizzazione e si rimise al suo posto. Toccava a Silvia ora. La ragazza si alzò in piedi e si diresse verso la lavagna. 

Serie: Occhi


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Ciao Carlo ho deciso di iniziare dall’inizio a seguire i tuoi lavori. Non è facile calarsi nei pensieri femminili, per un autore maschio. Comprendere come possano sentirsi le ragazze per gesti e comportamenti considerati “normali” è sempre difficile. Hai fatto una scelta coraggiosa e apprazzabile. Complimenti

  2. Non un lavoro facile, calarsi nei panni della protagonista. Ho letto il racconto, ed ho letto anche i commenti delle lettrici/scrittrici openiane. Pur, da maschio, non essendomi mai trovato nelle situazioni della protagonista, devo dire che a mio avviso il messaggio passa bene. Perchè se è evidente il disagio di Silvia di fronte alle “attenzioni non richieste” (per usare un eufemismo), quello che ci leggo io è anche l’incapacità dei soggetti maschili di riconoscere come sbagliato un comportamento che per loro è naturale.

  3. Dopo aver letto questo racconto, mi chiedo se ancora oggi essere “donna” sia così faticoso. La risposta è sì: in determinati ambienti, contesti, lo è. La protagonista esprime tutto il suo disagio rendendolo tangibile al lettore. Logico che ognuno di noi interagisce con il mondo esterno a modo suo, ma non trovo molto distante la realtà e i pensieri di Silvia. Quanto alla risposta al commento di Berenice, è bello il tuo desiderio di entrare in empatia con chi ti circonda. Scrivere è anche questo, interpretare il mondo ed entrare nella pelle e negli occhi di chi ci circonda per avere una visione più ampia.

  4. Leggendo mi sono chiesta più volte il perché delle reazioni di Silvia (molto lontane dalla mia esperienza) e credo che leggere serva proprio a questo: conoscere nuovi punti di vista per porsi nuove domande 🙂