Orchestra – cap. 2, parte II

Serie: Sara & Nami


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: ...

Avevo bisogno di una doccia fredda e così ne feci una; devo dire che la cosa mi giovò, momentaneamente. Cenammo, telefonammo ai nostri genitori, guardammo un film e andammo a dormire a mezzanotte passata. Il buio della stanza invase lo spazio intorno a noi, aumentando a dismisura i confini della camera: Nami era a una distanza di due comodini da me, ma avrebbe potuto essere dall’altra parte dell’oceano. Un paio d’ore passarono come niente, ma il sonno non voleva arrivare. La mia mente era affaticata dalle continue immagini di mia sorella appena uscita dalla doccia, dalle sue gambe nude distese sulla sedia accanto a me, dal profumo della sua pelle. Cercai di captare un qualche segnale che potesse convincermi che Nami stesse dormendo: il silenzio più assoluto e l’immobilità dell’aria attorno a noi mi spinse a concedermi il lusso di credere che il mondo del raziocinio, per lei, aveva lasciato spazio a quello dei sogni.

Presi la decisione di fare ciò che da tempo rimandavo e che non avevo più il coraggio né la forza di posticipare. Non mi curai minimamente di coprirmi con il lenzuolo (troppo caldo per farlo) dal momento che il buio più totale già m’offriva la sua protezione. Cercando di muovermi il più silenziosamente possibile, mi liberai del reggiseno e degli slip (gli unici compagni che vegliavano sul mio corpo durante la notte) e, novella mirmidone, salpai alla conquista del mio personale Vello d’oro.

Tastai il mio corpo, le mani conoscevano ogni posto segreto capace di scatenare il piacere fisico che stavo cercando. Dita vogliose sfiorarono i fianchi seguendone la curva del bacino, della gamba ripiegata perpendicolarmente all’altra, della caviglia. Era conscia di ciò che serviva per accendermi, ma volevo godermi appieno il momento, arrivarci pian piano come chi corre la corsa campestre. Mi accarezzai la curva dolce della mandibola, le clavicole, lo sterno; sparsi un po’ di sudore lungo tutto il mio ventre, lì dove la valle tra le colline inizia a digradare dolcemente verso la caverna, giusto poco prima di arrivare a quel piccolo pozzetto centrale tanto capace di generare passione.

La mia orchestra iniziò così a suonare.


(Forti il contrabbasso e l’organo, nelle profondità del mio ventre, vibrarono sommessamente scuotendomi dalle fondamenta)

Decisi di indugiare un po’ su quelle piccole ciliegie che campeggiavano sulle due colline a est e ovest del mio corpo, desiderosa di farle svegliare totalmente e renderle mature e dolci e succose per un’ipotetica bocca vogliosa di assaporarle. Stuzzicai le due estremità che in breve s’intumidirono


(e i primi flauti, clarinetti e fagotti m’inondarono di una musica piacevole come una carezza, suggestiva e magnetica allo stesso tempo)

e sentii una voce dal profondo della caverna attirarmi a sé, richiamarmi con insistenza al punto di spingermi a stuzzicare piano con le dita: Sara, Sara, Sara, Sara. Percepii un movimento dal letto accanto. Non avevo abbastanza forza di volontà per obbligarmi a fermarmi. Nell’oscurità più completa avvertii gli occhi di mia sorella inchiodarsi su di me, in una visione che nelle illusioni più ottimistiche corrispondeva a realtà ma che ero sicura fosse solo immaginazione. Un movimento, un secondo e di nuovo il silenzio. Ripresi ad assecondare i bisogni del mio corpo, gocce salate di sudore crollavano dai capelli sul cuscino. Fremevo d’eccitazione


(e dopo arrivò il pianoforte, picchiando sui suoi tasti mi accompagnò sulla strada che avevo deciso di percorrere, suadente, deciso e al contempo dolce e soave; e io risuonai con lui)

e di passione. La mia intera anima era in subbuglio, alla mercè del mio corpo, sua schiava. Accarezzai con dita frementi i bordi esterni delle labbra meridionali, arrischiando un timido saluto all’interno della caverna. Assaggiai quell’esploratore coraggioso, desiderosa di tastarne il sapore e ciò mi convinse ch’era alfine arrivato

(e poi violini che si fusero con il resto degli archi per creare un canto sofisticato che mi desse un paio d’ali, giacché non ero più in grado di restare con i piedi per terra e volevo librarmi verso l’estasi)

il tempo di osare. I miei personali strumenti di piacere non incontrarono nessuna resistenza, due di loro scivolarono tranquillamente all’interno della caverna e furono benvenuti. Iniziarono a spingere ancora e ancora e ancora, insaziabili, causando una continua melodia, un ritmato sciacquettio impossibile da ignorare anche per una persona addormentata. Ci fu un altro movimento accanto a me, lo colsi appena ai margini della coscienza e non solo decisi d’ignorarlo, ma ciò mi spinse ad accelerare, a osare ancora di più. La frenesia s’impossessò di me


(e vennero le percussioni; oh, quant’erano forti le percussioni, com’erano possenti e vivaci e mistiche; potenti come il tuono s’inseguivano, una dietro l’altra, lasciandomi senza fiato)

e incurante del rumore che stessi provocando, dedicai a me stessa tutti gli sforzi di cui avevo bisogno. Strinsi le dita dei piedi, i muscoli si tesero fino allo spasmo, iniziarono i primi tremiti proprio nel momento in cui l’orgasmo si spargeva nel mio corpo e mi costringeva


(e il suo momento sopravvenne in prossimità dell’estasi: il soprano, la cui voce acutissima si levò alta e acuta nel luogo dove fisica e metafisica arrivano a sfiorarsi)

a un urlo ancestrale, violento e dal rumore silenzioso, quasi come se la mia voce fosse stata risucchiata via dal corpo con ciò che avevo appena liberato. Continuai a tremare per qualche altro secondo, incapace di credere a quanto abbondantemente avessi inzuppato il lenzuolo, quando sentii la sua voce provenire da un’isola remota, a me lontana; la percepii appena. Era Nami che mi stava chiedendo, con una nota di desiderio nella voce (ne ero sicura), se fossi venuta. Mugugnai il mio assenso con condiscendenza, quasi sorridendo inconsciamente e poi “caddi come l’uom che ‘l sonno piglia”.

— continua

Serie: Sara & Nami


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