Per Sempre? Pt. 1

Serie: Per Sempre?


Un fotografo dal futuro incerto non riesce ad accettare la sua mortalità e vive la sua vita tra i squallidi palazzi della periferia di Roma tormentato dal pensiero di essere dimenticato, ma la sua esistenza cambierà di fronte alla follia di un vecchio amico...

    STAGIONE 1

  • Episodio 1: Per Sempre? Pt. 1

Gli autobus tremolanti sferragliano sull’asfalto della città eterna eternamente decadente; spediti mangiano chilometri senza troppe preoccupazioni scandendo le rotazione complete dei pneumatici con i battiti ritmici dei goffi pistoni dei motori, variando il ritmo solo quando una ruota interrompe il suo cammino per scambiarsi uno sfacciato bacio a stampo con una delle tante buche che popolano le strade della periferia ormai da tempo, indisturbate. Nella costanza ottusa che mettono ogni giorno per compiere il loro lavoro, tanto indispensabile quanto inviso agli abitanti della periferia, sembrano bizzarri elefanti evoluti a modo loro, seguendo più i principi del menefreghismo che della selezione naturale. Sicuramente non ci si poteva lamentare per la loro perseveranza, encomiabile a dir poco, ma invero era difficile capire come quelle goffe bestie dalla pelle d’acciaio sporco e dalle zampe di gomma sfrigolante potessero ancora tenersi in piedi, chilometro dopo chilometro, semaforo bruciato dopo semaforo bruciato, passeggero assonnato dopo passeggero assonnato. “Eppur si muove”, e allora i bus navigano tra l’oceano di bitume della città raccattando qua è la qualche naufrago, sul cui aspetto è bene spendere qualche riga: con l’espressione confusa per la sonnolenza gli avventori giornalieri scendono quotidianamente le scale di marmo sbeccato e ingiallito dal continuo tram tram delle suole frenetiche, scivolando quasi da gradino a gradino in una lotta impari tra le sinapsi in fase di avvio non ancora irraggiate dal giusto quantitativo di elettro-stimoli ma sicure di una sola cosa: bisogna muoversi, alla svelta! Contro le palpebre saldate una all’altra, e giù di altri elettro-stimoli per evitare l’intreccio fatale tra le ciglia, e l’altrettanta fatale collisione tra le ossa dello sfortunato e i gradini se le tendine decidessero di chiudere lo spettacolo troppo in fretta, e contro anche la squallida lampadina, presente in ogni palazzina grigia della periferia, che decideva di spegnersi accendersi in un insopportabile zip zip zip ziiiiiiiiiip zip zip zip e così via; e non ci sono elettro stimoli che tengono qua, i neuroni già troppo impegnati del pendolare non possono fare niente per impedirlo: se la lampadina decide di cinguettare, cinguetta quanto vuole. Ma non è così male, dopotutto anche la giungla di cemento vuole le sue civette di tungsteno pronte a fischiettare l’arrivo del giorno, ogni mattina. Ora, ben innestate i flussi di elettroni tra i giusti ripiegamenti di tessuto connettivo, i piedi ben coordinati si sfiorano l’un l’altro avanti indietro indietro avanti come pendoli, e ad ogni stretta di mano tra i piedi e il pavimento si sente risuonare per il corridoio un pacato applauso clap clap clap dell’androne stupito dalla performance mattutina , così tanto da volersi congratulare, a quanto pare. Il bus si avvicina con i faretti frontali grondanti luce senza ritegno, illuminando i volti dei pendolari: l’espressione era quella tipica di chi si è svegliato controvoglia per andare a fare qualcosa (rigorosamente sempre controvoglia); se è inverno i pendolari tremanti si sfregano le mani e tentano di farsi stretti stretti nei loro giubbotti cercando rifugio dalla pelle d’oca, buffo risposta del nostro organismo alle carezze del freddo, se è estate sono afflitti dai capelli appiccicati l’uno all’altro per il sudore che scorre dai pori, come fossero stati aperti di rubinetti sulla fronte dello sfortunato dalla mano bollente del caldo. E la ferraglia andava così galleggiando a stento, dilatando le costole sgangherate ad ogni banchina scorza di limone, lasciando entrare i passeggeri per poi continuare la grottesca Odissea giornaliera, ondeggiando a destra e a sinistra ogni volta che gli ammortizzatori bisticciavano con le curve e seguendo ligio ligio la via maestra segnata da marciapiedi, righe bianche alternate agli spazi neri bitorzoluti dell’asfalto, le insegne stradali pallide il giorno e i neon filiformi la notte, auto arenate ai bordi e auto trasportate dalla marea incessante del grande movimento urbano; sembravano andare tutte nello stesso luogo, ma quale? Impossibile a dirsi, anche per il più appassionato dei conducenti, se mai ci fosse qualcuno che potesse essere veramente appassionato di quel lavoro. Tutto lì intorno sembrava una ripetizione continua degli stessi elementi: insegne neon righe semaforo rosso-verde-giallo, forse lo supera in tempo! Nulla, di nuovo rosso, pedoni, auto, pedoni in auto. Erano sempre quelle, ma ogni volta in ordine differente; l’effetto sembrava quello di un pittore convinto che sarebbe stata una grande idea prendere quattro colori e schizzarli sulla tela così, a ripetizione, facendosi guidare dall’ispirazione, che evidentemente doveva averne ben poca. La tela su cui galleggiavano violentemente tutti questi elementi era in realtà lo stradone principale, che si divide poi in una quantità isterica di canali e canaletti, che non sono altro se non le viuzze della periferia della capitale.

Il sole estivo copriva in un abbraccio caldo di affetto beffardo l’intera massa caotica degli abitanti, e non era affatto un amore corrisposto data l’assenza di condizionatori in quasi tutte le case e sicuramente in tutti i bus; era forse contraccambiato da qualche anziano perennemente infreddolito lasciato a consumare, solo, i suoi ultimi giorni tra le squallide quattro mura di casa sua in uno dei quattro squallidi angoli della periferia. Le finestre sgangherate e ingrigite gettavano i loro sguardi sulla strada prestandosi allo squallore imperante del quartiere, ma non poteva esserci bruttura tale da evitare che quelle labbra vitree perfettamente rettangolari intrappolate fra i mattoni e lo stucco rimanessero serrate, troppo era il languore per anche solo un filo di area fresca che potesse dissipare la coltre di calore soporifero che si annida nei bugigattoli arredati alla bell’e e meglio delle palazzine della periferia, che gli abitanti si ostinano a chiamare “appartamenti”, scossi forse da un crepuscolare rantolio di amor proprio che non poteva permettere alle orecchie di sentire ciò che gli occhi potevano vedere.

In quelle giornate di estate si poteva star certi di vedere i proprietari di casa affrettarsi a spalancare le finestre appena tornati dal lavoro nella speranza di un po’ di refrigerio, accettando che qualora fossero stati accarezzati da un po’ di vento fresco, sarebbero stati poi ubriacati subito dopo da un cocktail di gas miscelati dai motori fuligginosi un po’ delle automobili, un po’ dei bus, un pò chissà di cos’altro. D’altronde non è poi così male lasciarsi cullare dallo stordimento, quando la linea che lo separa dalla felicità diviene fin troppo labile e finisce per mescolarsi con le polveri dei tubi di scappamento.

A fare breccia in quella calotta di mediocrità era una sola finestra, molto più vivace e spavalde delle altre: le due ante non erano state lasciate macerare al sole e alla pioggia per anni, fin tanto che fossero state in grado di adempiere al loro ruolo di guardiani contro il freddo e contro gli sguardi carichi di giudizio dei vicini, tanto da essersi consumate in un colore acido e in una forma spugnosa e rigonfia, ma anzi, queste ante in particolare invece erano di un color nocciola lucente e il legno era longilineo e bombato, quasi volesse ostentare la bellezza vibrante dei suoi colori autunnali gonfiandosi il più possibili verso l’esterno, in una melodia di linee dolci e sinuose come le dune sabbiose di un lungomare selvaggio.

Il legname faceva solo da cornice alle limpidi vetrate privi di qualsiasi impurità, vergini da qualsiasi graffio, incrinatura o impronta, lamine cristalline da cui si sarebbe potuto vedere perfettamente attraverso fino al cuore della casa di cui erano splendida propaggine, se non fosse stato per l’ondeggiare, calmo, di due tende blu, blu come il cielo al tramonto quando il sole incomincia ormai a scomparire e la luna si appresta a recitare la sua parte. Del legno, del vetro, due ritagli di cielo fatti drappeggio: bastava così poco per emergere dall’inedia uniformità di un quartiere squallido.

Il vento scattò all’improvviso, forse anch’esso annoiato da tanto immobilismo, e riuscì a squarciare in uno schiocco di dita i due veli di Maia, permettendo di rivelare cosa vi si celasse: Una stanzetta neanche troppo piccola, abbastanza spaziosa da poter essere definita confortevole, con delle pareti pitturate di una tiepida tinta caffellatte, fatta eccezione per due delle quattro, tanto pullulanti di oggettini e ammennicoli da rendere impossibile capire con precisione se e per quanto la pittura si addentrasse fin lì; una delle due pareti incriminate, quella sinistra rispetto alla finestra, era per metà occupata da una imponente libreria di un serioso color quercia, stracolma di libri e libercoli, e più la si guardava più ci si rendeva conto che eterogenea pozzanghera di sapere fosse li stesa, sonnecchiante, sulle rive di quei scuri scaffali intorno cui le dita di polvere facevano da sponde: manuali di filosofia, di storia, testi di letteratura provenienti da tutto il mondo, dal meridiano di Greenwich al 38esimo parallelo, perfettamente ordinati in un silenzio riverenziale a fare da ambasciatori delle loro culture, lasciando che fosse l’inchiostro a parlare per loro, e poi voluminosi dizionari dalle sfarzose fantasie sulle copertine e minuti libretti di storia dell’arte dall’aspetto losco, quasi volessero nascondersi da occhi indiscreti, continuando con manuali dai contenuti più variegati come botanica, esoterismo, cinema, fotografia, religione, lingue straniere e innumerevoli altri. 

Serie: Per Sempre?


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