PIAZZOLA DI SOSTA
Il gradevole tepore del primo sole primaverile stava inondano la sala interna del bar antistante il Tribunale nel quale mi ero fermato per sorseggiare un caffè e leggere le notizie della cronaca locale.
Mentre sfogliavo distrattamente le pagine del quotidiano cittadino, la mia attenzione venne catalizzata da un articolo; parlava di una professoressa di sociologia, originaria della città, la quale aveva inaugurato, tra i monti, una sorta di comunità terapeutica per il recupero ed i reinserimento sociale di malati psichiatrici, e soggetti affetti da dipendenza, che si sarebbe autofinanziata con i proventi dei prodotti dei propri utenti.
Sorrisi.
Finalmente c’era riuscita.
La mia mente volò ad una mattina di molti anni prima, quando, con il mio abbigliamento classico da rampollo di famiglia benestante e gli occhiale da sole griffati a coprire gli occhi appesantiti dai bagordi della sera precedente (marchio di fabbrica dell’ epoca), mentre mi stavo dirigendo alla facoltà di giurisprudenza per discutere del mio progetto di tesi, la vidi. La conoscevo di fama; si chiamava Laura ed era nota per il suo carattere ribelle e la sua veduta anticonformista della vita, ovvero l’esatto opposto di me, proveniente da una aristocratica famiglia di connotazione conservatrice e vocazione massonica, ramificata trasversalmente nei gangli della comunità cittadina.
In quel momento, in piedi su una sorta di palco costituito dallo scheletro di un’ impalcatura di un cantiere edile mai terminato, avvolta in un kefiah a scacchi bianco e rossi, stava incitando con un megafono una folla di studenti di target intellettualoide dell’epoca, il cui vestiario prototipico era caratterizzato da immancabili pantaloni di velluto, improbabili camice a scacchi, maglioncini a V e giacca a vento in tessuto sintetico, scandendo slogan per i diritti di qualche minoranza oppressa.
Con l’ agilità che ancora possedevo ai tempi, tentai di dribblare la folla, ma Laura mi notò.
“Ecco il borghesuccio del futuro che si reca scodinzolante dal suo padrone!” urlò al megafono.
Inizialmente non capì che si stava riferendo a me. Poi, voltando lo sguardo, e notando gli sguardi ed i sorrisi di scherno dei manifestanti convergenti verso la mia persona, compresi. Il più aggressivo di tutti era una sorta di goffo barattolo umano, alto quanto una lattina di birra e largo quanto una lavatrice, in evidente ricerca di autogratificazione nell’associazionismo di branco. Urlai guardandolo dritto negli occhi: “Pensi che così agendo ti considereranno più di quello che ti considerano, ovvero una sorta di fenomeno da baraccone?”
Calò il silenzio.
Laura, inferocita, scese dal palco e mi venne incontro, coprendo la distanza tra noi intercorrente ad ampie falcate.
“Come ti permetti?” inveì furiosa.
“Hai iniziato tu tesoro.”
“Tesoro vallo a dire alle squinzie discotecare che frequenti!”
“Che ne sai tu di che locali frequento?”
“Non è difficile capirlo!”
“Da cosa scusa? Scandisci slogan di libertà ed emancipazione ma parli secondo preconcetti. Scusa se te lo faccio notare, ma non sei poi così differente da coloro che contesti.”
Laura mi osservò incuriosita. Aveva occhi color miele, pelle scura e tratti somatici indiani. La sera stessa uscimmo a bere una birra. Giorno dopo giorno Laura mi trascinò nel suo mondo di utopia, a base di uguaglianza, economia di sussistenza, sesso e droga liberi, case comuni ed autoregolamentazioni. Tutto filava meravigliosamente tra noi fino a quando non veniva posta la domanda “Ma dopo la laurea cosa farai?”, a seguito della quale precipitava in un oscuro ed irrimediabile mutismo. In quel periodo ero abbastanza libero da impegni di studio in quanto stavo attendendo la comunicazione della data di discussione della tesi. Ogni giorno Laura mi conduceva in boschi colline e radure che solo lei, ambientalista convinta, conosceva, fino a quando, un giorno, in una pozza d’ acqua generata da un ruscello sorgivo, ubicata in una radura circondata dai boschi, facemmo l’amore.
Ma, non appena uscimmo da quella polla, il mio cellulare squillò.
Risposi.
Era la segreteria del mio professore; doveva comunicarmi la data della tesi.
Laura mi osservò.
In un attimo capì.
In fondo entrambi lo sapevamo.
Il viaggio di ritorno in auto si svolse in un clima di surreale silenzio. Al momento di salutarci, ci guardammo a lungo senza parlare, limitandoci ad abbozzare un sorriso imbarazzato ed annuendo; sapevamo entrambi che quello era un addio. La sosta era terminata ed ognuno, adesso, doveva ripartire per il proprio viaggio.
La sera della discussione della tesi mio padre organizzò una cena in un ristorante del centro, invitando una famiglia di amici la cui figlia si era appena laureata in medicina. Capì subito che l’invito non era stato causale. Tuttavia lo stupore maggiore fu realizzare che l’ingresso del ristorante era ubicato proprio dove Laura stava surriscaldando la folla dei manifestanti il giorno del nostro primo incontro.
In quel momento il cellulare squillò; era mia moglie che mi chiedeva il favore di passare a prendere un regalo per mia madre in vista della cena per il suo compleanno di quella sera, in quanto avrebbe terminato tardi il turno in ospedale.
Quando arrivammo al ristorante, un nuovo locale aperto di recente, venimmo accolti dal proprietario. Lo riconobbi immediatamente, anche se, come me, invecchiato; era il barattolo umano di quella mattina di molti anni prima, solo molto meno goffo e molto più elegante. Dal guizzo del suo sguardo capì che anche lui mi aveva riconosciuto ma anche lui, come me, evitò di palesare sorpresa; forse quel giorno non ero l’ unico ad avere indugiato nella piazzola di sosta prima di riprendere il proprio viaggio.
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Il tuo testo ha anima, tensione narrativa e un bel gioco di contrasti. Con una revisione stilistica attenta e qualche alleggerimento lessicale può diventare un racconto di grande forza evocativa, adatto a una raccolta letteraria o a un racconto lungo da rivista.
Grazie per il tuo feedback Giuseppe!
Credo che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, abbia incontrato una Laura, ovvero una Lei che lo ha obbligato a scegliere tra mente e cuore
Ma ti dispiace se io un po’ di amarezza la provo? La nostalgia del passato è bella e brutta a seconda del momento, ora mi ha intristito, però il tuo racconto è molto bello e va a toccare cosucce che abbiamo passato in molti. Ok, non sdolciniamoci troppo. Il plurale di camicia è camicie, altrimenti parliamo di ciò che indossano dottori ed infermieri. Le doppie i in “capii” metticele quando ci vanno. Con affetto, Beppe!
“La mia mente volò ad una mattina di molti anni prima, quando, con il mio abbigliamento classico da rampollo di famiglia benestante e gli occhiale da sole griffati a coprire gli occhi appesantiti dai bagordi della sera precedente”
Ad esempio. In questo paragrafo e in quello che segue, avresti magari potuto ‘mostrarci’ i due personaggi attraverso gesti compiuti, oppure dialoghi. Un dialogo fra lui che accidentalmente si imbatte nel comizio e chiede a un passante…Oppure la voce di lei udita attraverso il megafono che lancia slogan…Cose così. In ogni caso, come ti suggerivo, ciascuno è giusto che trovi un proprio stile che lo contraddistingue nella scrittura. Il lettore, poi, è libero di pensare ciò che vuole, pur gustandosi un buon racconto come il tuo. Il riferimento che hai fatto a Fantozzi è assolutamente calzante e mi ha fatta sorridere 🙂
Ciao Gabriele. Il tuo racconto si lascia leggere bene, è originale e accattivante. Mi piacciono i salti temporali che obbligano il lettore a porre la massima attenzione. Tuttavia, se posso darti un consiglio da lettrice, dovresti limare un po’ l’aggettivazione e forse i giudizi espresso da te come scrittore. Lascia che sia il lettore ad avere una idea propria, mostra anziché raccontare. Funziona sempre ☺️
Buongiorno Cristiana, ti ringrazio sinceramente per il prezioso feedback.
Posso chiederti, per aiutarmi a capire, quali sono esempi di aggettivazione e giudizi ai quali ti riferisci?
In merito ai giudizi,
non ti nego di essere irrimediabilmente affascinato dallo stile di Villaggio nelle sue trancianti e tragicomiche connotazioni sociali dei personaggi o dagli impietosi giudizi a denudare limiti e fragilità del middleman alla Groening nei Simpson
Il racconto ha anima, profondità psicologica e un bel gioco di specchi tra passato e presente. Il linguaggio è colto, a tratti raffinato, e l’introspezione è ben condotta. Serve una revisione formale, una maggiore cura nei dialoghi e un alleggerimento di certe descrizioni troppo enfatiche. A mio parere ovviamente.
Buongiorno Rocco,
ti ringrazio per il prezioso feedback.
In merito alle descrizioni, riconosco di essere attratto dalle serrate caratterizzazioni, ai limiti della logorrea, di situazioni e personaggi, stile Tarantino (ovviamente con le dovute proporzioni e come parametro di riferimento).
In merito alla cura dei dialoghi, posso chiederti una specificazione?
Grazie ancora e buona giornata
Alcuni scambi potrebbero essere resi più vivaci e meno argomentativi. Per esempio, la battuta:
«Scandisci slogan di libertà ed emancipazione ma parli secondo preconcetti…»
risulta molto lucida, forse troppo riflessiva per una discussione a caldo. È efficace a livello contenutistico, ma poco realistica come risposta istintiva nel mezzo di una contestazione.
Convengo.
Purtroppo il mio DNA professionale di avvocato si appalesa inesorabile alla minima fessura disponibile; in ogni caso, ho annotato