Polverosa
So prendere le cose di petto, quando sono passati un anno o due, a volte dieci.
Prima mi attorciglio dentro al mio stesso stomaco, nella speranza di vomitare un pensiero logico, ma non mi esce mai.
E se ne parlo con chi vive in una bolla di realtà, mi sento ridere in faccia e mi sento chiamare illogica, con un’equilibrio quasi pari a quello di quando andavo in bicicletta i primi anni della mia infanzia.
Sono al primo marzo del mio ventisettesimo anno di vita, a meno che non contiamo anche i nove mesi nella pancia di mia madre, prerogativa tipica della testa di mio nonno, fatta di un pacchetto di sigarette al giorno e coniglio alla ligure.
Ho passato ventidue anni in aule di danza, piccole, grandi, calde, incolori, rumorose, fantasiose.
La danza mi ha donato la preziosa arte dell’ essere estremamente rigida con me stessa, ricercatrice della perfezione e inseguitrice del sublime.
Una persona per me importante, una volta, ha definito il mio perfezionismo scrupolosità.
Ciò che gli altri avevano archiviato nella cartella dell’esagerazione e del mancato equilibrio, lui l’ha levigato e modellato come una qualità sovrumana, pura.
Non esistono altre persone come lui.
Mi trovo a Torino da qualche mese e per arrivarci ho attraversato banchi di nebbia fitti e grigi.
Qui mi sento a casa, ma prima sentivo un fischio leggero. Pareva quasi che la nebbia fuori richiamasse quella nella mia testa, forse nell’aver riconosciuto una parte della famiglia che non vedeva da molto.
Ho ancora da imparare e la serata di ieri è stata indubbiamente emblematica. Rivedere chi non si vede da molto forse, per chi è come me, è più come un paio di ali sciolte.
Dalle molte gole uscivano i vapori del respiro, geyser modesti, aliti felici. Dietro di essi mi nascondevo, incapace di restare ferma dov’ero e farmi trascinare fino a chissà dove potrei aver cambiato la mia vita.
Maglietta poggiata sul bancone del mercato, forse niente più di un occhiale da sole verde militare con la lente sbeccata.
Mi trovo a Torino per distrazione, per resa di spirito, perché il mondo è pesante e mi ha dominata.
Mi vedo sedermi sullo sgabello di un bar, rivolta verso uno schermo, con a fianco il fantasma che si è portato dietro il mio spirito giocoso, il fantasma che se volesse potrebbe riempire il cielo con altrettante stelle, se solo aprisse il sacco nero dove è finita la vecchia me.
Credo mi sia caduto il cuore li, mentre cambiavo il sacco della spazzatura, o forse l’acqua del pavimento.
Il cuore ha iniziato a volermi saltare fuori dal petto qualche mese fa, quando piccole impronte hanno iniziato a scalare un monte insormontabile.
Sento la colpa bisbgliarmi nell’orecchio, dirmi che non ho speranza, che ci penso a fare.
Però, cara colpa, io le brutte fini le devo raccontare. E le devo riempire di atti umani, di sfumature di colore, di gusci duri.
La mia brutta fine è iniziata qualche mese fa.
Prima di essa ero avvolta in parole setose, luce di ammirazione su per una strada dritta.
Futuro scritto, bollette pagate, il lago in lontananza.
Non mi bastava? Cosa aveva scatenato quel semino da farlo diventare quercia?
La favola dell’incertezza e del profondo malessere nel non vivere più di desideri, ma di routine, incubo per chi ha le ruote al posto dei piedi.
E poi non lo riesco più a descrivere, credimi, sto faticando.
Non si tratta più di uscire fuori e urlare la voglia di amore davanti a deboli nuvole, che si spostano con facilità.
Ora è scrivere con un bastoncino di legno qualcosa che l’onda porterà via subito dopo.
È temporaneità, è restare fermi per non spostarsi quando le dita si toccano e non ci si vuole spostare da quel momento tremendo.
Continuo.
Ho rinunciato al comfort e alla sicurezza per rincorrere me stessa più lontano.
Ho accordato la mia chitarra acustica di una tonalità in meno, perchè la facilità mi soffoca e mi trafigge le ossa.
La difficoltà, però, non è mia alleata, non apprezza i miei sforzi, non porge l’altra guancia.
Devo ritrovarmi a pregare per un tuono che sfondi la mia finestra, un fulmine che scuota i legami del cemento.
La difficoltà è reale, una mamma faina che non guarda in faccia a nessuno. Sopravvive mangiando i propri figli, urla di dolore per la sua incoerenza natale.
La brutta fine è iniziata quando non hanno resistito a puntarmi la torcia addosso, quando il sentiero puntava a me e me solo.
E quindi lui ha seguito la luce, da dentro la grotta ha alzato la testa e ha sentito in gola la stessa polvere che avevo sputato io.
Mi infilo nell’aula del teatro, più freddo rispetto allo scorso mese. La musica lontana non sovrasta il chiacchiericcio, le fresche risate di chi è in movimento continuo dai primi anni di vita, sin dai primi passi: i ballerini della Saorsia Ballet Institution, volatori professionisti, attori dei corpi, sopracciglia alzate.
Poso la borsa, solite sedie, soliti colori e solite mura stanche.
Mi preparo per osservare lo spettacolo dai quindici passi che mi separano dal palco, lì per i fantasmi del futuro.
Mi abbasso, sento già la pelle intorno alla bocca tirare e le iridi seguire la linea invisibile di dove si sedeva sempre lui.
Incredibilmente, c’è un posto rimasto vuoto, rispettosamente. Non viene occupato nenche da chi non è stato sollevato da te con le mani, ma con lo spirito, con le parole belle che sapevi usare e dosare.
Succedono anche le giornate brucianti. Quelle dove gocciola la benzina e alimenta tutto.
Il primo tempo è finito, mi lascio correre addosso il fumo dei pensieri. Mi fermo un attimo e continuo a leggere la storia del secondo atto. Non me la ricordo più. Leggo di tutto l’egoismo che mi sta intorno e di come la mia migliore amica pensa al miglior modo per ignorare i miei intenti lunghi un decennio.
Mi viene da piangere, e nella mia lista dell’odio ho incluso chi avverte gli altri prima di piangere, quasi fosse un teatrino, un concreto dimostrare la sofferenza del cuore.
Mi sento le suole sciogliersi e l’inferno salire da sotto l’asfalto, neanche facesse così caldo.
L’egoismo e la poca attenzione, insieme, un calderone verde scuro di indifferenza, lenta e silenziosa violenza, espressa in parole monosillabiche e risate contenute.
Un divano senza molle, che quando vi salta sopra un bambino produce quel suono sgradevole, doloroso agli orecchi, stridente, folle.
Non come quel “a domani” pronunciato con vigore, tremore, dolore, colore, sentore di cannella in lontananza.
Sentir pronunciare quelle parole, toste, dall’amico su cui butto tutto, a cui appartiene la mia piena e totale fiducia, apparì come un veloce lampo, un rispettoso cenno di capo che diceva “in fondo, in fondo lo sapevi”.
E se quando ti domina l’ansia la domenica sera nel letto con le coperte blu perchè pensi che, senza di lui, almeno la piccola macchiolina verde ti dovrà dare speranza, è quando comprendi di aver finito.
Inadatta al mondo, fatti curare, ti urli. Riprogrammatemi come mi volete voi: buona, disonesta, menefreghista, sensibile per gli affari propri, non stare male perchè qui non ci posso più tornare, non mi interessa se lo ami ma hai paura di soffrire, io ho un lavoro e una famiglia da comandare.
Riprogrammatemi e rendetemi robotica, programmata al piacere umano moderno, quello momentaneo, svelto, bianco, fluido.
Non fatemi essere come sono, che tanto non vi piace.
Avete messo Mi Piace1 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
“Riprogrammatemi e rendetemi robotica, programmata al piacere umano moderno, quello momentaneo, svelto, bianco, fluido.”
Un buon racconto, che descrive molti stati d’animo con parole ben dosate e moderazione. Non si sente gridare, quanto piuttosto chiedere di essere ascoltata.
Grazie davvero! Apprezzo tanto ☺️
Torino, la nebbia, il teatro e la danza diventano anatomia dell’ansia e del desiderio. Immagini dense (i “geyser” del respiro, il posto vuoto, il “a domani” alla cannella) tengono insieme fragilità e furia con un’energia magnetica.
Grazie di cuore!