TURNO NOTTURNO

Il pastificio occupava tutto il capannone, lungo quasi cento metri; intorno girava un alto muro di cinta, qua e là sbrecciato e scolorito; un ampio cancello di metallo chiudeva l’ingresso durante il fine settimana. A fianco del capannone sorgeva la piccola abitazione del custode, dove viveva con la famiglia.

Ci lavorai per circa tre mesi, prima della partenza per il servizio militare, che negli anni settanta era obbligatorio; concordai di fare sempre il turno di notte, così avrei avuto il pomeriggio libero.

La produzione era continua: le macchine si fermavano solo al sabato pomeriggio, e ripartivano lunedì mattina. Si producevano diversi formati di pasta, ma soprattutto tagliatelle all’uovo. Si stivavano per qualche giorno in magazzino, e poi venivano consegnate ai rivenditori.

La prima notte conobbi Robertino, che lavorava lì da quindici anni. Mi spiegò in quattro parole cosa dovevo fare, poi mi presentò gli altri tre del turno, tra cui Vincenzo, che aveva sposato, chissà come e perché, sua sorella. La mattina, un po’ prima delle sei, arrivarono le quattro ragazze del turno successivo, assieme al magazziniere che faceva anche manutenzione. Le due impiegate della contabilità arrivavano alle otto, mentre verso le nove, mi dissero, il padrone parcheggiava la Montreal rossa nel piazzale e faceva il giro del capannone.

La prima settimana filò liscia; il lavoro era ripetitivo e abbastanza pesante: il nastro continuava a sputare pasta confezionata, che andava messa negli scatoloni; quando l’imballo era completo si doveva chiudere con nastro adesivo e caricare sul bancale.

Verso la fine del primo mese Robertino cambiò d’umore: era sempre nervoso e litigava con tutti; finché una sera, in spogliatoio, gli chiesi cosa fosse successo.

Mi guardò, togliendo il camice dall’armadietto, senza sorridere.

“È andata buca anche stavolta: sono mesi che chiedo al padrone un aumento di stipendio, e ogni volta mi dice che non può… che ha troppo spese…” Si cambiò le scarpe e continuò: “io capisco che la sua Alfa Romeo consuma più della mia 126… ma un po’ di gratitudine, Cristo… è da un anno che gli faccio il capoturno… mi aveva promesso una categoria”.

Non sapevo cosa dire; mi uscì: “ci vuole pazienza, Robertino”.

“Pazienza finita” mi rispose, “da oggi mi prendo una piccola rivincita.”

Alle due in punto fermò tutto l’impianto, preparò la tavola nella stanza a fianco dei gabinetti, fece bollire l’acqua e buttò tre confezioni di tagliatelle.

“Questa notte sugo ai funghi, domani pomodorini e basilico. Hai portato il formaggio grana, Vincenzo?”

“Lo portai, Robertino.”

Lo guardò digrignando i denti “ma sono vent’anni che vivi al nord e parli ancora da terrone!”

“Perché del sud rimango, nel cuore!”

Verso le due e mezza l’impianto fu rimesso in moto, e la pastasciutta in fretta digerita.

La pausa a metà turno si ripeté per alcune settimane, fino alla notte dell’incidente.

Robertino aveva appena spento l’impianto e stava andando a preparare i piatti, quando Vincenzo, da poco uscito per fumare una sigaretta, rientrò di corsa in capannone gridando: “il padrone! il padrone!”

Il proprietario del pastificio stava infatti parcheggiando davanti all’ingresso, deciso finalmente a capire perché la produzione notturna fosse, da settimane, sempre più bassa di quella degli altri turni.

Robertino corse al quadro comandi ma, agitato a sudato, non riusciva a mettere in moto il macchinario. Lo vidi infilarsi sotto al nastro di fine corsa con una torcia elettrica.

Quando il titolare apparve in reparto si sentì un urlo tremendo di Robertino: una mano gli era rimasta incastrata fra l’ingranaggio di un grosso motore e la catena principale del nastro trasportatore. Una chiazza di sangue si allargò sul pavimento ricoperto di farina. Restammo tutti fermi e ammutoliti, mentre Vincenzo correva in ufficio a telefonare.

L’ambulanza arrivò in pochi minuti: non c’era traffico a quell’ora. Poi vennero anche i carabinieri e la produzione ripartì soltanto con il turno della mattina.

Dopo qualche giorno chiesi a Vincenzo di andare a trovare Robertino in ospedale, ma mi disse che non voleva vedere nessuno.

Lo incrociai poi un paio di volte in quartiere, prima di partire per il Friuli: mi fece il saluto militare con la mano sinistra, ma senza sorridere.

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Discussioni

  1. Leggo sempre volentieri le tue storie di vita vissuta e di vite ai margini. Mi piacciono perché non c’è giudizio nel tuo tono asciutto e diretto. Mi piacciono anche perché appartengono al quotidiano di tutti, come quei racconti che ti vengono narrati ogni tanto, quando la gente comincia con” hai sentito cosa è capitato a quel tipo o a quell’altro?” Ecco, cose così.
    Anche in questo caso, mi pare che i personaggi siano ben riusciti, bene identificati in poche parole, gestualità e caratteristiche. Buoni anche i dialoghi.
    L’unica cosa, mi viene da dire, sono quelle storie che avrebbero bisogno di un numero maggiore di parole per essere raccontate.

    1. Io leggo sempre volentieri i tuoi commenti, e ti ringrazio per l’attenzione che dimostri verso i miei scritti, che poi sono soltanto ricordi messi giù, appena romanzati un poco.