Quando Piove
Capitolo 1
Il mio mondo
Agata piange mentre trema di piacere. Le ero appena venuto dentro e mi scostai dal suo corpo bollente con velocità. Aveva iniziato a piovere. Menomale, pensai. Non ero proprio dell’umore giusto per sentirla piangere. Guardavo le pietre blu cadere dal cielo copiose dandole le spalle.
Il mio mondo è blu. Blu come la sabbia del deserto che circonda il nostro rifugio; blu come le pietre che piovono dal cielo; blu come gli occhi di Agata.
Il mio mondo è freddo. Freddo come i rami che ci proteggono dalla pioggia; freddo come il contatto automatico tra i nostri corpi; freddo come gli occhi di Agata.
Non è stato sempre così: un tempo il mio mondo era caldo e rimanevamo ore a guardare il nostro universo cobalto, tormentato dalla pioggia, estendersi infinito oltre l’orizzonte. Un tempo rimanevo ore a guardare il mio piccolo mondo dentro gli occhi di Agata.
Adesso è tutto diverso. L’astio tra me e Agata è blu elettrico e scorre fulmineo tra i nostri occhi, colpendoci con reciproci sguardi pieni d’odio.
Credo sia passato un anno da quando il mio amore per Agata tramutò in disgusto. Non ne avevo la certezza ma ero sicuro che lei provasse lo stesso. La becco ancora sorridermi con occhi appannati, non penso guardi me, almeno non il me presente, sembra piuttosto proiettare su di me l’immagine di come ero in passato, quando ancora mi amava. Non so in realtà. I ricordi sono cenere, ne senti l’odore putrido, quasi decomposto e, a volte, quando rimangono incastrati negli occhi, fanno lacrimare, ma se provi ad afferrarli non riesci, almeno non del tutto.
Non ricordo perché la situazione tra me e Agata fosse mutata e ad essere sincero non aveva alcuna importanza, non di meno era mutata e la cenere nella mia testa era composta da minuscole pietre blu, microscopiche particelle che roteano sospese dal capriccioso vento del cambiamento.
Nel mio mondo piovono pietre. Al tramonto il cielo azzurro e il deserto cobalto si fondono e sembrano due gemelle, intente ad accarezzare e plagiare con fredde moine un sole stanco e assonnato, capita però che il sole si conceda alle due amanti e dal loro amplesso scaturisca un orgasmico arcobaleno di colori.
Quando piove io e Agata rimaniamo abbracciati a guardare le pietre cadere. Quando smette ci arrampichiamo fino in cima, tra i rami e le foglie dell’albero di quarzo e raccogliamo le piccole pietre blu.
Quelle Agate sono il nostro tesoro e saranno la nostra rovina.
A volte poggio delle agate sugli occhi a mo’ di occhiali e osservo il mio mondo, come se, così facendo, ne potessi scorgere il futuro o scoprire i segreti che nasconde. E guardo tutto: il nostro rifugio, il deserto, Agata. Quando vedo il mio mondo con occhi di agata mi sembra che sia racchiuso in un enorme pietra blu e mi chiedo spesso che cosa penserebbe qualcuno se prendesse quella pietra e guardasse all’interno.
Capitolo 2
Il parassita
La cosa che faccio più volentieri è raccogliere le pietre. Mi piace arrampicarmi sul grande albero di quarzo, specialmente ora che Agata lo detesta. Lì posso rimanere solo, è l’unico momento in cui sono davvero solo. La solitudine è una pudica amante dalla quale non riesco ad allontanarmi, mi rifugge ma io la rincorro perennemente.
Nella solitudine dei miei pensieri, in quei giorni in cui il cielo è sereno, rimiro e custodisco le pietre intrappolate nella verde trama dei rami dell’albero di quarzo. Ultimamente ho notato qualcosa di strano nelle agate che raccolgo: alcune di esse hanno dei piccoli animaletti morti al loro interno, dalla fisionomia assimilabile a quella di microscopici bruchi, altre hanno due fori sulla superficie, traccia indelebile del passaggio di queste anomale, quanto specializzate, bestioline. In entrambi i casi sembra che al transito di questi animaletti la pietra subisca una definitiva mutazione cromatica, un deterioramento. Notai, infatti, che dal fiero blu cobalto, le agate “infette”, diventavano blu notte e alcune persino, totalmente nere. Proprio per questo motivo ho deciso di denominare questi temibili esserini i parassiti.
Un giorno come tanti, appena smise di piovere, mi arrampicai sul grande albero di quarzo per gustare la pace e la tranquillità che esso offriva. Mentre guardavo il deserto fondersi con il cielo, il mio flusso di pensieri, torbidi e pressanti come un fiume in piena, venne arginato da una piccola pietra. Era la prima volta che mi capitava di vedere un parassita all’opera e ne rimasi fatalmente affascinato. Erano una coppia e speculai dunque che il maschio era colui che forava le pietre fino all’epicentro e poi la femmina vi entrava a partorire. Insieme covano la propria progenie traendo nutrimento dalla pietra stessa e quando il piccolo raggiunge la maturità sta al padre scavare una fuoriuscita esclusivamente per lui. Traendo nutrimento dalla pietra i parassiti la infettavano, insozzandola. Guardare l’agata essere penetrata e perdere la propria purezza era come essere testimoni di uno stupro e non riuscire a distogliere lo sguardo. Credo che sia passato quasi un anno dalla comparsa dei parassiti e dunque era circa un anno che passavo la maggior parte dei miei pomeriggi a studiarli. Non capivo perché li trovassi così affascinanti, forse per la loro improvvisa comparsa, per la novità che rappresentavano o per come erano riusciti a spezzare la quotidianità, aiutandomi a combattere la noia. Un giorno decisi di raccogliere le agate con due buchi all’estremità: volevo regalare una collana ad Agata. Una volta che le ebbi riposte correttamente su elegante filo di quarzo scesi dal ramo, nascosi la collana e guardai Agata negli occhi.
Di colpo capii. Succhio dall’interno la vita e la purezza di Agata. Io che la amo più di ogni altra cosa, io che non ho altro da amare. Siamo costretti l’uno all’altro, in un vortice di lussuria e disperazione. Il sesso è il gesto più parassitario che esista. Ti aggrappi come un organismo simbionte a qualcosa di vivo e perfettamente funzionante e dall’interno lo rovini. I liquidi che secerniamo sono veleni, acidi pronti per essere rilasciati nel massimo momento di intimità, per corrodere l’altro dall’interno, dove fa più male, per pervertirlo.
A tutto questo pensavo mentre sorridevo ad Agata prima di girarla di schiena e farle indossare la mia collana. La rigirai di scatto poi e, guardandola negli occhi, le sussurrai che l’amavo.
Capitolo 3
La fuga
Erano ore che stavo fermo a guardare la pioggia. Agata ormai aveva smesso di piangere, si era addormentata con la mia collana al collo. Non riesco più a ricordare come nacque il mio odio per Agata. I ricordi sono soggetti alla forza di gravità del tempo, un buco nero che uccide luci e ombre dell’universo della nostra memoria.
Un parassita non prova certo alcun rispetto per l’organismo che si concede come ospite. Sentivo che a questo punto mancava solo l’atto finale, il sacrificio, e quella collana poteva fare al caso mio. Dando le spalle alla pioggia che cadevi fitta mi diressi con il mio omicida intento verso Agata. All’improvviso una pietra cadde vicino al suo volto, dalla fitta trama dei rami dell’albero di quarzo, e Agata, muovendosi appena, ancora dormiente, scoprì il suo enorme pancione.
Credo siano passati nove mesi da quando i miei sentimenti cambiarono definitivamente, erano nove mesi che i parassiti infestavano le nostre pietre, erano nove mesi che la odiavo.
Non potevo ucciderla però, non avrei risolto nulla e non ne sarei mai stato. davvero capace. Guardai il tondo pancione di Agata e il pensiero del mio erede che, al sicuro dentro di lei, mi scherniva e si prendeva gioco di me e della mia assurda condizione, mi fece sorridere.
Aveva smesso di piovere nel frattempo. Scesi dall’albero e posai i piedi sulla sabbia. Quella sabbia blu era sempre fredda. Camminai per ore nel deserto lasciando infinite impronte nella sabbia cobalto. Non sapevo dove stessi andando, né se effettivamente ci fosse un luogo da raggiungere, ma non mi importava, era piacevole camminare e la sabbia massaggiava dolcemente i miei piedi stanchi. Di colpo mi arrestai. Qualcosa mi aveva colpito in testa. Stava iniziando a piovere. Un terrore cieco mi spinse a correre all’impazzata verso il nulla. Poi la ragione prese il posto della paura, mi fermai e con calma mi voltai, guardando tutto: il mio rifugio, la mia casa, la mia Agata. La pioggia cadeva leggera intorno a me e io, testimone di quel magnifico e terribile spettacolo, mi sentii piccolo e infinito allo stesso tempo. È così che sarebbe finita, pensai. Sarei morto circondato e soffocato dalle cose che disprezzavo. Fottuto blu. Fottute agate.
Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Mi ha evocato un climax surreale, distorto e soffocante, tipico di alcuni scritti di Pahlaniuk.
Bello non è il termine giusto, “inchiodante” sì. Credo valga più che di “bello” in questo caso. Leggerò.