Quarantena
C’era una volta un virus.
Si crede un pipistrello abbia azzeccato la Cina e che un uomo, molti uomini viaggiando abbiano contaminato il mondo. E così un pipistrello e molti uomini, involontariamente, hanno ammazzato vecchi e padri, nonne e bimbi; e così il mondo, perché il virus non danneggi ulteriormente, resta forzatamente in casa a legger libri, guardare la tv.
E ripenso alle birre con gli amici sui tetti delle case, quando è estate e nel cielo le scie chimiche si fanno rosa; ripenso a com’era bello stringere le mani a chi non conoscevo; ai gelati di pistacchio, alle colazioni sui prati e alle sigarette in compagnia; ripenso a quanto amavo il pollo di mia zia e a quanto mi piacesse passare le domeniche a calciare la palla contro un muro tra i viali di ciliegi e le talee. E mentre penso guardo una nuvola in cielo e mi sforzo un po’ di credere che la vedano anche quelli che mi amano. Quella nuvola diventa un aquilone e dall’alto ammira quello che non posso ammirare io: i fornelli a casa mia, i nidi segreti dietro le grondaie, i cedri grassi, il mare e le increspature al largo tanto scure quanto i vini.
Quando mi sveglio leggo di complotti e lotte ai vaccini: leggo di reconditi laboratori, di conflitti di potere, di guerre Cina-USA. E mi viene in mente Trump e le guance carota che gli fanno da cornice al viso; lo sconforto mi assale se penso a quel ragazzo ammazzato, senza assicurazione sanitaria e mi chiedo se a 17 anni sia giusto morire per burocrazia, allora anelo Kafka.
C’è chi sui web sostiene che Bill Gates ambisca alla depopolazione; gente che si ammassa e rinnega la scienza, le penicilline e tutto questo succede mentre le medicine curano e gli infermieri sacrificano vite a servizio dei malati. È allora che la rabbia prende il sopravvento e una carica ormonale mi si spara nel cervello: alla finestra c’è una nuvola e sembra un cuore un po’ smussato. Prego, da atea, perché distribuisca umanità.
Mia nonna si è rotta un braccio e il suo braccio lo guardo in fotografia, come su pellicola mi fiondo nei suoi occhi chiari e vorrei con le dita correrle sopra le vene vetrose dei polsi: non posso. Non posso aiutarla a stirare le mutande, né a piantare i pomodori nel cortile. Non sente bene quando chiamo, perché la vecchiaia porta a quasi tutti un po’ di sordità: allora parlo e lei ascolta le mie storie e capisce poco ma la mia voce le basta per sapere che la amo. Qualche volta piange e mi si stringe il cuore. Lo stomaco diventa un groviglio di bolo e vettovaglie e urlo: “C’era una volta.”
Le dico di guardare le nuvole, ogni volta che mi pensa e che le guarderò anch’io, ogni volta che mi pensa. Così dal balcone vedo una nuvola appallottolata a mo’ di gomitolo per tessere. Mando a mia nonna mille gomitoli, cosicché quanto tornerò, indosserò solo le sue maglie e i suoi calzini e mi cullerò come mai prima tra i suoi abiti.
Per mangiare devo fare coda perché i supermercati sono intasati e le donne escono con i carrelli zeppi e il cibo basta per un reggimento di bambini; i vecchi stanno in fila con i bastoni e il catarro che gronda loro dagli occhi e aspettano il turno per passare: dei ragazzi cedono il posto; ci sono gli operai con le tute da lavoro che non possono svuotare gli scaffali, perché se non lavori, è difficile mangiare; ci sono quelli che dormono per strada che ancora dormono per strada ma al posto del gelo c’è un virus più mortale del gelo. E guardo il cielo: è limpido e turchino ma delle gocce mi si posano sul naso. Immagino siano polpette di carne e chicchi di riso, conditi con la soia e spero che il mondo sia bombardato da una pioggia di hamburger e cetrioli sott’aceto.
Mi distraggono i pessimisti e penso che chi si ammala non si nutra che di speranza. Mi arrabbio con chi crede di essere paladino del giusto: “sarà lungo: la quarantena ci costringerà alla clausura.”, ma nessuno sa quanto saremo costretti ai muri e nessuno che non abbia problemi lavorativi, familiari, economici dovrebbe cedere alla sfiducia che davvero ammazza. Chi tra quelli che si abbronzano al sole coi calici sventola gabbie in plexiglass, al posto dell’aria calda sui visi, dovrebbe essere costretto alla plastica e al petrolio. Guardo una nuvola: è colorata e sopra la panna si posa uno spettro violetto e cobalto. Spero la vedano anche gli scettici che hanno il privilegio di una casa, di torte alle mele, di salute e denaro: e penso ai colori e a quanto, anche nella costrizione, si vedano. E anche tra le non libertà, al posto del nero, ci sono arcobaleni grandiosi.
Penso a chi esce per visitare amanti o fare balli proibiti, in ammasso. E penso ai nonni dei bimbi che insegnano cos’è l’amore e che con le mani si abbracciano da sopra i dondoli; penso a chi tradisce, a chi odia, a chi è costretto a relazioni infelici; penso alle fedi che portano gli innamorati e a quanto le bacino; penso alle luci della discoteca, all’ebrezza, alla gioventù che mi appartiene. Vorrei ballare ma non posso, perché spezzerei tanti amori, quelli veri. L’aria muove una nuvola che decolla a mo’ di aeroplano e sta portando le lettere a chi non si tocca, carezze a chi non le ha.
Guardo il mio cane e mi implora di portarlo a spasso: lo porto in cortile e si fionda tra la lavanda. Odora di fiore e mangime, il suo pelo. Salta e sembra felice e la libertà non pare godersela come un diritto ma un pregio concesso. E fisso il cielo: il cielo è infinito e così si vede dai balconi, oltre le tapparelle, da tutte le case. Esiste la libertà nelle case e così le nuvole restituiranno i giardini, il campeggio, gli oceani: ma poi, gli umani, dovranno badare al privilegio di vivere potendo saltare.
Il mio cane mi porta una corda: la lancio. C’era una volta, un virus.
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