Quell’anno prima 

Serie: Uomini


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Stanotte c’era una donna nel mio letto. È giovane e bella. Non ricordo come il suo nome. Forse me l’ha detto. Forse ho finto di ascoltare.

Abbiamo fatto l’amore senza toccarci davvero. Quel tipo di sesso in cui i corpi si muovono, ma l’anima resta chiusa nel portafoglio, insieme alla patente e ai biglietti del tram.

«Se potessi tornare indietro, a che anno torneresti?» mi ha chiesto alzandosi.

«A quello prima che tu nascessi.»

Ha pensato fosse una battuta. Ha riso. Si è rivestita. È uscita senza dire altro.

Non sono riuscito ad addormentarmi. Ho acceso la luce, ho acceso una sigaretta, ho acceso tutto. Ho guardato la bottiglia mezza vuota sul comodino e ho pensato che certe notti è meglio farsi un buco nel petto che continuare a far finta di vivere.

Alle sei ero già al bar all’angolo. Quello dove il caffè sa di detersivo e le paste hanno il sapore delle mani del barista.

Il barista si chiama Ivo. Una faccia da carcerato e la gentilezza di un uomo che sa di essere fallito con largo anticipo.

«Notte lunga?» mi chiede.

«Lunga e inutile.»

Annuisce, appoggia la tazzina del caffè sul banco. Aggiunge la sambuca senza che io la chieda. È la nostra liturgia.

Torno a casa col sapore d’anice in gola e la stanchezza di chi ha scopato per finta.

Sulla segreteria c’è un messaggio. La voce è quella di Loredana.

«Mi manchi, stronzo.»

Riattacca.

La riascolto tre volte. Poi cancello tutto.

Verso le dieci mi chiama Eugenia.

«Hai finito quel racconto?»

«Quasi.»

«Mandamelo stasera.»

«Ti va di vederci?»

Pausa.

«Lo sai che non è una buona idea.»

«Le idee buone sono quelle che non ci cambiano la vita.»

«Appunto.»

Mi rimetto al lavoro. Scrivo una pagina. Poi la cancello. Scrivo un’altra frase. Sembra rubata da un manuale di scrittura creativa per idioti.

Mi infilo le scarpe e vado a cercare qualcosa. Non so cosa.

Milano, in certi pomeriggi d’autunno, ha la faccia delle donne che si pentono di essere andate a letto con te. Grigia, stanca, senza rossetto.

Entro in un cinema porno in via Padova. Dentro, odore di piscio e sconfitta. Nessuno guarda davvero lo schermo. Siamo lì per ricordarci che esiste ancora un modo di toccarsi.

Pago, entro, sto dieci minuti. Esco.

La strada puzza di fritto. Una donna con un passeggino mi guarda come se sapesse tutto.

Torno a casa. Sul letto c’è ancora il segno del suo corpo.

Mi siedo, accendo un’altra sigaretta. Guardo il fumo salire.

Penso al 1987. Avevo diciassette anni, ascoltavo Tom Waits e leggevo Salinger.

C’era una ragazza che mi guardava durante l’intervallo. Si chiamava Anna o Elisa o qualcosa del genere. Aveva i capelli ricci e gli occhi da regina.

Una volta le dissi:

«Vorrei baciarti qui, davanti a tutti.»

Lei rispose:

«E io vorrei che tu non lo dicessi soltanto.»

Non la baciai mai. Mi sono masturbato per mesi pensando a quel giorno. Al modo in cui avrebbe potuto inclinare la testa. Al sapore che avrebbero avuto le sue labbra, se solo avessi avuto il coraggio.

Qualche anno dopo l’ho rivista. Era incinta, al supermercato. Mi ha guardato. Non mi ha riconosciuto. E io non ho detto nulla.

È stato meglio così.

Il telefono squilla di nuovo. È Silvia.

«Cosa fai stasera?»

«Mi sparo.»

Ride.

«Ti va una pizza?»

«No.»

«Allora vieni a letto con me.»

«Passo alle otto.»

Alle otto e venti sono lì. Lei ha le calze a rete e la biancheria giusta. Io ho solo voglia di scomparire.

Scopiamo. Bene. Senza dirci niente.

Dopo mi dice:

«Hai gli occhi pieni di pioggia.»

«Ho solo sonno.»

«Dormi qui?»

«No.»

«Allora vattene.»

Mi rivesto. Non la bacio.

Cammino per due chilometri. Fa freddo.

In testa ho una frase che non riesco a scrollarmi di dosso: “A che anno torneresti?”

E penso che nella mia vita l’anno giusto non sia mai esistito. Che vorrei solo tornare ad un minuto preciso: quell’istante prima di perdere qualcuno. Prima che dicano addio, prima che chiudano la porta, prima che si trasformino in nostalgia.

Ma non si può tornare indietro. E certe notti, a pensarci bene, non si può nemmeno andare avanti.

Rientro. Sul letto c’è ancora l’impronta del suo corpo. Mi ci sdraio dentro. Chiudo gli occhi. E fingo di dormire accanto a lei.

Continua...

Serie: Uomini


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Discussioni

  1. 🤣 l’impronta ancora nel letto?! Io non capisco, sarò strano, ma non mi arrivi. È tutto così matematicamente studiato, percepisco substrati emotivi dello scrittore fuoriuscire in maniera pressante. Come se volesse rendergli una sorta di giustizia sottoforma di racconti che difficilmente sopravvivrebbero nella realtà.

  2. Un racconto di situazioni e approcci che trasmettono un senso di vuoto affettivo, di solitudine, o di squallore, per incomunicabilitâ, o chissâ cos’altro. Un racconto che lascia intendere l’importanza delle connessioni umane piú vere e piú profonde.