Rosso Natale

Suona la sveglia.

Indugio seduto sul mio letto ad una piazza a mezzo, per alcuni secondi, ad occhi chiusi.

È freddo, quel freddo pungente accompagnato dal calore di luci ed addobbi natalizi sparsi nella città.

Penso alla fiumana di persone accalcate nel centri commerciali e nei supermercati per accaparrarsi inutili cianfrusaglie da distribuire come regalo il giorno di Natale ed ai carrelli colmi di generi alimentari con cui ingolfare le tavole in quella massima summa di ipocrisia che sono le cene ed i pranzi tra il ventiquattro ed il ventisei.

Osservo con gratitudine il mio bilocale con unico letto, capiente per uno ma insufficiente per due, accuratamente privo di divano per rendere strutturalmente impossibile l’accoglimento di un eventuale ospite.

Osservo con gratitudine il mio televisore a settantadue pollici e la mia poltrona ergonomica, le mie finestre asettiche prive di addobbi natalizi ed i ripiani dei miei mobili non usurpati da quell’abominevole delirio di massa a base di muschio e statuette che trovi in ogni casa in questo periodo dell’anno.

Mi vesto. 

Mi accingo ad uscire quando, improvvisamente, sento  uno scomposto vociare di bambini sul pianerottolo. 

È la nidiata dei coniugi Russone.

Inizio a ridere in modo stridulo, immaginando uno di quei piccoli vandali rumorosi attaccati ad un campanello collegato ai cavi dell’alta tensione, con la faccia sporca di fuliggine deformata dalla scossa elettrica, i capelli issati tipo aculei mentre urla con voce traballante: “Stronzoli!”.

I Russone appartengono a quella frangia di disutili che parte dal presupposto che il loro essere genitori con figli al seguito garantisca loro, in automatico, privilegi come il diritto di avere precedenze in fila o di poter pretendere che tutti capiscano i loro tempi e le loro necessità.

Apro la porta quando le voci dei piccoli demoni sono lontane.

Il pianerottolo è deserto.

Sento rumori di serrature che si aprono.

Mi lancio per le scale ad occhi semichiusi, zoccolando come uno gnu durante la transumanza, pronto a travolgere con il peso del corpo in picchiata chiunque tenti di indugiare sulle scale per provare ad avviare una conversazione.

Arrivo nell’atrio di ingresso.

Il plotoncino dei Russone sta defluendo in modo caotico, ostruendo il passaggio.

Approfitto della calca di quei selvaggi in miniatura per mollare un fulmineo e spregioso calcio nel deretano dell’ultimo vandalo della fila, intento ad accapigliarsi con gli altri per conquistarsi la precedenza nel varcare il portone di ingresso, per poi bissare con una proditoria patta nel collo al suo competitore più limitrofo.

Riesco infine ad uscire dal palazzo e raggiungere il mio ufficio.

Lavoro presso gli archivi di stato.

Dopo alcuni anni di gavetta sono riuscito a farmi collocare nell’ufficio più infrattato.

Mi limito alla protocollazione delle richieste smistandola agli uffici competenti.

Non sono raggiungibile telefonicamente dall’esterno e la mia area è off-limits per gli utenti.

Non è stato faticoso ottenere quel posto perché, in realtà, nessuno, tranne me, lo voleva, in quanto significa dovere stare otto ore al giorno da solo in uno scantinato.

Per me, al contrario, è una sorta di oasi proprio perché non devo condividere il mio tempo ed il mio spazio con altri soggetti.

Il mio ufficio ha inoltre un incredibile vantaggio, potere eseguire ore di lavoro straordinario nei giorni di Natale e Santo Stefano, concedendomi, in tal modo, un pretesto legittimo per disertate le relative riunioni familiari.

I miei familiari, peraltro, si limitano a chiedermi conferma della mia presenza per protocollo, ben lieti di incassare il consueto diniego in risposta.

D’altronde le responsabili di questa diaspora sono mia madre e mia sorella, le quali mi hanno obbligato a questa reazione difensiva dopo che, all’ultimo pranzo natalizio a cui ho partecipato, hanno invitato, a mia insaputa, tale Vanessa, per combinare una sorta di incontro, salvo poi rimproverarmi di non essere stato all’altezza delle loro aspettative.

Arrivano le diciotto.

Inizia il momento divertente della giornata.

Ho trovato questa discussa palestra per strongman. I suoi iscritti sono riservati e discreti. Ognuno pensa solo ad allenarsi senza guardare il prossimo. Mi serve per scrostare e scaricare le emozioni più putride, ma soprattutto per giustificare le successive zuppiere di pastasciutta o ke frittate da ventiquattro uova per reintegrare.

Ogni volta che sollevo un peso immane penso all’ambizione di mia madre per un fisico aggraziato ed elegante e godo del disgusto che prova per l’informe conglomerato di adipe e muscoli ipertrofici in cui mi sto trasformando.

Adesso che mia sorella si è fidanzata con quel mollusco borghese che ai miei piace tanto, la gestione della mia assenza al prossimo pranzo natalizio, intimamente gradita in quanto non rientrante nei loro parametri, è ancora più nevrotica in quanto motivo di onta nei confronti dei tradizionalisti consuoceri.

La mia massa e la mia forza, risultato di una tenacia ostinata nell’allenamento, non è passata inosservata ai gestori della palestra, al punto da rendermi, unitamente al mio evidente disturbo antisociale della personalità, il candidato ideale per allenamenti aggiuntivi finalizzati a combattimenti clandestini.

Per questo, quando il mio manager, ovvero l’avanzo di galera che dirige la palestra, mi propone un incontro in una discarica abbandonata, nel corso di un rave, contro un ex galeotto, la sera dell’antivigilia di Natale, decido di accettare sia l’incontro sia l’invito di mia madre al pranzo natalizio, attratto, più che dal compenso per il combattimento, dalla maschera di bellezza che il suddetto ex galeotto saprà scolpire sul mio volto.

Già mi immagino nella elegante apparecchiatura di mia madre, accanto al facoltoso e puritano suocero di mia sorella, con i punti di sutura improvvisati e la carne ancora livida e maciulenta, mentre sorrido, con il boccone in esposizione e le gengive ancora sanguinanti, alla moglie di costui.

Dopo tanti anni anche io avrò il mio regalo natalizio. 

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Discussioni

  1. Ciao Gabriele. Ci hai abituati a testi che trasmettono una voce personale forte, ironica e piena di amarezza. La voce di chi osserva il mondo con distacco e sarcasmo.
    In questo racconto, ho sentito una grande stanchezza verso le convenzioni sociali e familiari, ma anche una determinazione ostinata a difendere il proprio spazio e la propria identità (sarà perchè il natale si avvicina davvero?)
    Lo definirei uno sfogo lucido, crudo, a tratti comico, che mostra quanto possa essere liberatorio dire finalmente ciò che si pensa senza filtri.

    1. Grazie Cristiana per l’attenzione e la disamina estremamente lucida.
      Scrivere è sicuramente catartico ma mai, presumo, quanto agire (ovviamente non ho né voglio riprova, in quanto non ambisco alla detenzione in carcere)

  2. Questa volta la consueta scrittura provocatoria prende una curvatura ancora più molesta e irridente.
    La terza persona si riduce per fare spazio a un alter-ego psico e sociopatico, degno del Patrick Bateman di American Psycho. Bret Easton Ellis incontra Charles Dickens, anche per le bordate anti natalizie, tanto spassose quanto dolenti, già a partire dal titolo inequivocabile. Se non lo hai ancora letto ti suggerisco Le nozze dei piccoli borghesi di Bertolt Brecht, ti piacerà.

  3. Ho letto un po’ inorridita al principio e poi col sorriso sulle labbra, sempre più divertita. Un racconto ironico e un po’ grottesco che rispecchia situazioni reali abbastanza comuni di famiglie morbosamente legate alle tradizioni, ma anche esempio classico di una societá dell’ immagine e del consumismo. Una trappola da cui qualcuno sceglie di uscire rifugiandosi nella sua tana, vittima e carnefice, a fasi alterne.