SAMARCANDA – 1996

In fondo al lungo viale, dove termina il quartiere di Samarcanda in cui soggiorno da quasi un mese, c’è un capolinea di pullman e un posteggio di taxi.

Nelle strade polverose ci sono piccole botteghe, vecchie donne sedute per terra che vendono frutta secca, bambini con sbilenchi carretti pieni di pane.

Nei vicoli, senza luce e senza asfalto, ci sono finestre dietro le quali si intravedono minuscole lampadine. Vagano vacche e pecore che, silenziosamente, brucano le immondizie ai bordi della strada.

Sono qui assieme a Taras, un ragazzo di vent’anni nato in questa città, che parla un inglese scolastico, senza pronuncia: scandisce le frasi come vanno scritte. Ho occupato l’appartamento, dove vive con sua madre e sua sorella, per queste settimane; tra qualche giorno torno in Italia, il mio lavoro è quasi terminato. Loro nel frattempo si sono trasferiti al piano sopra, dove vive la vecchia nonna di Taras.

La casa è piena di scarafaggi, che si fanno vedere soltanto di sera; ma in breve tempo ci si può abituare, alla loro presenza.

Dopo qualche giorno dal mio arrivo mi ha mostrato un grosso quaderno sgualcito, con le pagine piene di parole: vocaboli e verbi, tradotti dal russo all’inglese.

Taras ha iniziato a studiare da solo, finita la scuola obbligatoria, sperando di costruirsi un buon futuro; ma tutti i suoi progetti sono fermi, in attesa di una svolta.

Dopo circa una settimana eravamo diventati amici: io gli insegnavo a parlare meglio l’inglese, lui mi avrebbe fatto da guida nella sua città.

Un giorno mi chiama dalla sua cameretta, dove di solito non entravo mai; mi mostra una vecchia fotografia in bianco e nero, la cornice di legno è sbiadita e screpolata, il vetro rotto a metà e tenuto assieme da una striscia di nastro adesivo.

“Questo è mio padre” mi dice “moy otets.”

Si vede un uomo giovane, biondo, con un po’ di barba; tiene in braccio un bambino, non guarda verso l’obiettivo.

“Avevo meno di due anni, in questa foto; credo sia l’unica dove io sono assieme a Dimitri Vinogradov. Dopo qualche mese è partito, e non è più ritornato. Non mi ricordo niente di lui, ero troppo piccolo.”

Giro la cornice, dietro si distingue appena una piccola scritta in cirillico, ma non gli chiedo di tradurla.

La restituisco a Taras e lui la rimette sopra l’armadio, dove era prima, infilata tra due polverose valige.

Mi guarda negli occhi e mi dice: “lui è a Mosca, o almeno c’è stato. Ho visto l’indirizzo su un paio di lettere che sono arrivate qualche anno fa. Mia madre le ha nascoste, non so dove, forse le ha buttate subito via, non me ne ha mai parlato.”

Mi guarda sorridendo.

“E io non le ho mai chiesto niente.”

Taras mi guarda ancora, ma non sorride più.

Così stasera mi sono mescolato tra la gente di Samarcanda, insieme al mio giovane amico.

Guardo queste persone, le saluto, le annuso. Gli uomini sono vestiti male, hanno facce disegnate da troppe invasioni, più logore persino dei loro cappotti. Le donne camminano in fretta, quasi furtive, portano pesanti borse piene di patate.

Uno scolorito viavai di tristi figure, dall’incerto futuro.

In uno spiazzo semibuio ci abbassiamo sulle caviglie, come usano fare qui; parliamo di questa città, di questo paese malandato. Io sputo per terra, come fanno qui.

Ma Taras non vuole. “Non assomigliare a loro” mi dice e poi mi ripete che lui vuole andare via, non accetta di diventare vecchio in questa città, in questa desolazione.

“Voglio imparare bene l’inglese” continua con tono serio “e andare a vivere all’estero, magari negli Stati Uniti, forse a Los Angeles!”

Lo guardo con tristezza, e anche tenerezza. A volte sembra un bambino, ancora pieno di sogni, lontano dalla realtà.

Ma prima di andare in America, mi confida, deve fare una cosa che non può rivelare a nessuno.

“Nemmeno a te, Italiansky.”

“Va bene, Taras, tieniti il tuo segreto.”

Mi guarda con il suo solito sorriso.

“Però prima o poi lo verrai a sapere.”

La mia trasferta è terminata. Da due giorni Taras è come sparito, senza neanche salutarmi. E mi dispiace. Sua mamma mi fa capire che a volte succede: si ferma a casa di qualche amico, insieme si ubriacano e fanno baldoria; si fa rivedere quando ha smaltito gli effetti della vodka.

“Ma non avvisa nemmeno, non telefona?” le chiedo.

“Non lo fa, si sente già adulto, e poi i suoi amici lo prenderebbero in giro.”

“Va bene, Ludmilla, lo saluti da parte mia, forse si è dimenticato che dovevo partire.”

All’aeroporto mi aprono la valigia per un controllo. Dentro al sacchetto della biancheria, che non avevo fatto in tempo a lavare, vedo una busta che non mi appartiene. Vicino c’è anche un piccolo scarafaggio, che velocemente si nasconde sotto gli indumenti.

Tiro fuori la busta: dentro c’è una lettera scritta a mano. La metto nella tasca del giaccone.

I funzionari richiudono tutto in fretta. L’aereo parte tra mezzora.

Appena salito a bordo apro la lettera, è un grande foglio a quadretti, piegato in quattro.

Comincio a leggere, il testo è in un traballante inglese, e dice più o meno così:

– Caro amico Italiansky, sono stato bene con te questo mese. Ho imparato tante cose e tante parole. Mi dispiace essere andato via senza salutarti, ma era necessario. Ho venduto l’appartamento di mamma, senza che lei lo sappia, e ho preso un biglietto aereo per Mosca.

Devo rintracciare mio padre. Ho bisogno di sapere il motivo per cui mi ha abbandonato. Voglio guardarlo negli occhi quando troverà il coraggio di rispondere. Deve dirmi perché non mi ha voluto bene, perché non mi ha aiutato a crescere.

Ludmilla starà con sua madre, oppure si ricomprerà la casa.

Ora ti saluto. Buona fortuna a te e a me. Taras. –

L’aereo sussulta più volte, poi decolla. Il cielo sta perdendo il colore rossastro del tramonto. Sopra le nuvole cambia tinta ancora. Poi dall’oblò non si vede più nulla.

Il ronzio dei motori mi riempie la testa. Cerco di dormire, sprofondato nella poltrona, mentre sorrido.

Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Amo questo genere di narrazione dove il viaggio trascende e diventa esperienza umana. La grande città che fa da scatola all’interno della quale le persone si muovono, soffrono e amano, semplicemente vivono. Impeccabile dal punto di vista della narrazione, asciutto e senza fronzoli. Ben delineati i personaggi e vivi i dialoghi. Ti ho letto come sempre molto volentieri.

  2. “Uno scolorito viavai di tristi figure, dall’incerto futuro.”
    Bellissima. Una cartolina sotto il filtro color seppia che rappresenta adeguatamente un paese, una storia, un personaggio.