Sciopero

Fine della pausa pranzo. La maggior parte degli alunni e delle alunne sono fuori a fumare una sigaretta o a prendere un po’ d’aria. La campanella che avvisa dell’inizio delle lezioni pomeridiane suona una, due, tre volte. Nessuno muove un passo. Dopo qualche minuto una bidella esce e intima di entrare. Nessuna risposta.

Girano delle voci da stamattina circa uno sciopero contro l’obbligatorietà della mensa (che si è costretti a pagare). Il menù consiste in un piatto di pasta, un pezzo di carne fredda e come contorno patate. Le stanze sono gelate, perché i caloriferi li accendono a marzo. I compagni e le compagne musulmani, molto presenti nell’istituto, devono sempre rinunciare a qualcosa, perché non viene data loro un’alternativa. O meglio, l’unica alternativa consiste in un piatto di pasta in bianco in sostituzione del primo. Se il secondo è carne di maiale o lo mangi o lo dai a qualcun altro. Quando passa il vassoio con le patate finiscono subito.

Mettersi ai primi tavoli, quelli più vicini alla cucina, e farsi amico un cameriere significa porzione doppia, tripla quando va bene. Non succede spesso, ma quando capita al pomeriggio lo stomaco non brontola. Ho perso sei chili i primi quattro mesi. Ho paura di mangiare al freddo. E quando di contorno ci sono patate (quelle cazzo di patate) ne mangio a etti. (I miei non capiscono il perché della mia voracità.) Al centro della tavola c’è un cestello con del pane. Il pane è duro, freddo, azzimo, e al minimo tentativo di spezzarlo si rompe in due parti nette. Crac.

Escono alcuni professori e cominciano a gridare: “Entrate o diamo una nota a tutti.” La risposta è chiara e netta: “Non ce ne frega un cazzo della nota.” Grida di giubilo, applausi, fischi.

Alcuni, già rientrati in aula, escono e si uniscono al gruppo che ormai riempie tutto l’esterno dell’istituto. Centinaia di teste guardano l’edificio fatiscente. Qualcuno accende un fumogeno rosso. Altri si passano un megafono e, a turno, elencano tutti i problemi dell’istituto. Domina il caos.

Per cercare di mettere in ordine le cose, un ristretto gruppo di terza sceglie un rappresentante. Il malcapitato, investito di quella responsabilità, prova a far valere le nostre richieste agli insegnanti. “Sì, lo faremo”, rispondono. Queste tre parole bastano. Mezz’ora di lezione è saltata. Si rientra con calma, consapevoli di essersi fatti valere. Illusi, ecco cosa siamo. Ogni classe subisce una predica. Il vizio del paternalismo è duro a morire.

Sappiamo che non verrà fatto nulla: a casa non ci credono, le amministrazioni locali non ci rispondono e i giornali non ci danno la possibilità di rendere pubblico questo scempio. E infatti il giorno dopo ci sono ancora gli stessi problemi. E quello dopo ancora. E ancora. E ancora. Mesi dopo, nulla. Tre anni dopo, nulla.

Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Confermo quanto detto. “Nessuno muove un passo”. “Nessuna risposta”. “Crac”. “Domina il caos”. “Quando passa il vassoio delle patate finiscono subito” (ne ho evidenziato alcune delle frasi che bloccano come un muro il periodo precedente, obbligando il lettore a fermarsi dopo una corsa -costruita dal rigo antecedente-, e a prendere in mano la storia. Portare il discorso su un banalissimo vassoio di patate rendendo l’idea del disagio, ma senza dirlo, evidenziano solo che durano poco. Deduco dalle tematiche che sei di giovane età, quindi doppio bravo. Saluti.

    1. Grazie di cuore! È proprio quello che cerco di fare con la scrittura: concentrarmi su degli eventi con un certo distacco, evidenziando delle banalità che tali non sono. Di questo devo ringraziare autori e autrici come James Joyce e Annie Ernaux, per citare chi più mi ha formato nello stile.
      Comunque ho 26 anni da poco compiuti.
      Grazie ancora!