
Se la chiami libertà
Serie: Diversamente sole
- Episodio 1: Tawergha
- Episodio 2: Di stelle e di caramelle
- Episodio 3: Se la chiami libertà
STAGIONE 1
Fu così che mi accorsi di non avere capito nulla di ciò che stava accadendo in Libia.
Era il 20 ottobre del 2012, primo anniversario dell’uccisione di Gheddafi, e mi trovavo in Libia da quattro mesi, convinta di vivere nel migliore dei mondi possibili: il popolo libico, superando le divisioni tribali e con l’appoggio del mondo, si era liberato dalla tirannia e si preparava ad affrontare un futuro radioso.
L’Italia, che tanta parte della sua storia aveva legato all’Africa del nord, era impegnata in prima persona ad assistere gli amici libici nel percorso che avevano intrapreso, esempio di quella cooperazione scevra da vecchi interessi che il vento delle “primavere arabe” aveva spazzato via come foglie secche.
Di questo ero convinta, giuro, a nulla essendo evidentemente serviti una maturità classica e una laurea in storia e filosofia.
Fermamente decisa a dare il mio contributo, avevo chiesto di essere assegnata a Tripoli con la prospettiva di diffondere la conoscenza della nostra lingua e della nostra cultura.
Giorni entusiasmanti: si passeggiava per la città liberata fotografando graffiti e murales resi misteriosi dall’utilizzo del berbero, lingua che ovviamente nessuno di noi conosceva; deprecando la trionfalistica architettura italiana del ventennio, mentre da tutto il mondo arrivavano fotografi a frotte per immortalarla e scambiando sorrisi con ragazzini armati fino ai denti da fare invidia a Rambo.
La notte era piena di spari e delle voci salmodianti dei muezzin che il laico – questa veniva pronunciata come una parolaccia – Gheddafi aveva messo a tacere.
«Che simpatici: non hanno fuochi artificiali e si arrangiano a festeggiare così la nuova libertà!»

Ci dicevamo, ascoltando sereni e gioiosi le prime avvisaglie della guerra per bande che allora stava cominciando e oggi non è ancora finita. Un altro esempio?
Chi non si occupa di cultura ma di realtà cerca di mettere in guardia.
«Attenzione, non avete visto ancora niente. La Libia è un’altra cosa!»
Mi guardo intorno mentre ascolto queste parole. Un’altra cosa? Certo! Sono circondata da donne libiche che parlano italiano oltre a qualche altra lingua: indossano con disinvoltura veli e foulard di copertura islamica e sono architette, cardiologhe, giornaliste.
«Ci sarebbe poi il progetto di catalogazione di tutto il patrimonio librario in Italiano, quello sopravvissuto alle distruzioni di Gheddafi».
«Non è ancora stato avviato?» «C’è un problema che non sappiamo come risolvere: considerata la quantità di materiale, ci servono almeno quattro catalogatrici per terminare il lavoro in tempi ragionevoli e tra quelle in servizio alla Biblioteca Nazionale, nessuna conosce l’Italiano al livello necessario».
«Nessun problema!»
Sbotto io, battendo le mani e sentendomi Belushi, ve lo ricordate?
«Io sono stata insegnante di Italiano e in più ho il diploma di biblioteconomia. Che ne dite?»
Le mie nuove amiche libiche si scambiano sguardi.
«Ma…Costi molto?»
«Scherzate? La diffusione della nostra lingua è uno dei nostri compiti istituzionali! Senza contare che per questo progetto lavorerei anche se me lo vietassero. Quando cominciamo?»
«Quando vuoi: la sede sarà quella stessa della biblioteca, molto comoda per le lezioni pratiche, e le ragazze non vedono l’ora di cominciare. Abbiamo pensato a otto, se non ti dispiace, tutte già dipendenti del Ministero della Cultura».
«Facciamo così: lasciamo passare sabato e domenica perché vorrei andare a nuotare a Leptis, è da quando sono arrivata che desidero farlo!»
Altri sguardi, questa volta anche sopracciglia che si sollevano, ma non ci bado.
«Facciamo lunedi mattina, alle 9, in biblioteca? So dov’è».
Grazie al cielo, la Biblioteca Italiana non è ospitata in uno dei soliti edifici razionalisti che affollano le nostre ex-colonie: eleganti, niente da dire, ma decisamente troppi.
Entro in una delle poche palazzine turche sopravvissute alle devastazioni italiane e gheddafiane: curve, colonnine, rientranze e porticati. L’aula, ahimè, non è stata ridipinta e ha mantenuto un colore verde squallido, appena mitigato da gigantografie delle biblioteche monumentali di Roma, un vero tocco di buon gusto.
Le ragazze sono già al loro posto. Nomi, età, provenienza: tre sono di Tripoli, due vengono da Bengasi, una da Misurata e le ultime due, in primo banco, sono nate a Tawergha la città-oasi a sud di Misurata che, prima della morte di Gheddafi, ospitava prevalentemente africani sud-sahariani. Oggi è un deserto, mi hanno detto, la popolazione è stata cacciata e la città, che in berbero significa Isola Verde, è considerata un luogo maledetto.
Devo essermi incantata perché una delle ragazze di Tripoli – si chiama…Rosa, sì, Rosa – si era alzata e mi sta battendo su una spalla per attirare la mia attenzione.
«Si, Rosa, scusa! Dimmi, di cosa hai bisogno?»
«Non vogliamo che quelle due negre siedano in prima fila!»
Quelle due, cosa? Non riesco nemmeno a parlare, come se per lo stupore mi si fosse bloccata la gola. Faccio segno di ripetere.
«Quelle due! Non le vo-glia-mo! Sono negre! Puzzano.»
Tripoli di Libia, ex colonia italiana.
Serie: Diversamente sole
- Episodio 1: Tawergha
- Episodio 2: Di stelle e di caramelle
- Episodio 3: Se la chiami libertà
Nuovo episodio altro tema molto delicato e importante.
Questa serie è bella anche da questo punto di vista, poiché affronti temi diversi ma intrecciati, lasciando trapelare la tua opinione in maniera quasi velata..
“Se sei stato colpito, colpisci a tua volta, non proteggi”
Al termine del racconto ho voluto, questa volta più di altre, leggere commenti e risposte tue perchè quando si tratta di storia, nulla va lasciato al caso, dalla prima all’ultima parola. Quindi, al di là di ottime considerazioni oggettive che sono state fatte e che meritano attenzione e magari una riflessione, mi colpisce questa tua frase che di oggettivo in realtà non ha nulla. Una frase calzante con la tua narrazione e che fa veramente riflettere. Un complimento desidero fartelo, ancora una volta, per la tua capacità di metterti in gioco, senza riserve.
È bene non dimenticare che l’Italia partecipò alle operazioni di bombardamento durante quell’intervento, insieme a molti paesi europei e alla NATO nel suo complesso. Qui non si tratta di avere o meno simpatia per Gheddafi, ma di tener presente che chi semina vento raccoglie tempesta. O meglio, come in questo caso, la fa raccogliere ad altri. Se le contraddizioni non vegono governate esplodono, e una di queste può essere il razzismo, variamente motivato ma certo con radici storiche sicuramente profonde.
Un brusco impatto con una realtà che non ti aspetti. Razzismo, segregazione da parte di chi è stato soggetto agli stessi orrori appena fuori casa. E forse anche in casa.
Già, triste ma verissimo. E qualcuno si chiede perché certi partiti del nord hanno avuto successo anche a sud. Se sei stato colpito, colpisci a tua volta, non proteggi.
Sì, come se bastasse a liberarsi di quel peso, scaricarlo su altri.
Esatto. D’altra parte è la strada più comoda.
Bellissima questa serie. Storia e amore si mescolano, e in questo ultimo racconto mi è piaciuto tantissimo sentir narrate anche di te. Ho molto apprezzato il finale, la capacità che hai di mostrare certi meccanismi umani, senza giudicare e senza “dire” apertamente.
Grazie Dea, sarebbe proprio il mio desiderio, quello di non dire, spero solo di non diventare troppo ermetica😍