
SIM-097
I piedi dolevano dal tanto pedalare. Spingevo così forte i pedali da correre il rischio di smontare la bicicletta; una fine preannunciata da un cigolio sinistro che mi accompagnava fin dalla partenza.
Ma non potevo fermarmi. I miei compagni mi seguivano, forse felici di avere un leader in questa rivolta contro il Proprietario del Treno, un’insurrezione privata che sarebbe rimasta nell’ombra, lontano dai media. E forse era meglio così.
Nonostante la sensazione di fallimento gravasse su di noi come un macigno, nulla rallentava la nostra corsa, neanche il frastuono metallico che continuava a risuonarci nelle orecchie.
Dopo quelle che parvero ore, finalmente avvistammo la coda del Treno, un gigantesco serpente rosso che correva per le colline infinite della Città.
Mentre mi perdevo a contemplare lo scintillio del sole sulla corazza metallica i miei compagni erano già saltati su, abbandonando le biciclette arrugginite sulla ghiaia dietro di loro e mi facevano segno di salire.
Con un balzo lento e pesante mi ritrovai a bordo, nell’ultima carrozza che era, fortunatamente, deserta.
Mentre percorrevamo i corridoi il cigolio dondolante del Treno aveva sostituito quello delle biciclette, causandomi un mal di testa non indifferente, come se avessi dei bulloni piantati nel cranio.
Ma la missione doveva andare avanti, quindi procedemmo lentamente di carrozza in carrozza, aprendoci la strada verso la testa del treno.
La maggior parte del convoglio era deserto, con solo qualche scatolone coperto di scotch e scritte con pennarello indelebile; più ci avvicinavamo alle carrozze iniziali, più un ronzio indistinto andava a colpirci le orecchie. Sembrava una televisione non ben sintonizzata, di quelle vecchie in bianco e nero che ora si trovano solo nei musei.
Spalancando la porta della carrozza, scoprimmo finalmente la causa di quel sibilo incessante: trenta o quaranta cyborg, ammassati sui sedili. Il rumore era dato dai dispositivi di ricarica che pendevano dalle loro teste, rendendoli, per il momento, inoffensivi.
Evidentemente la fortuna girava dalla nostra parte, perché non avevamo assolutamente messo in conto di dover affrontare un esercito di robot a mani nude.
Silenziosamente passammo oltre, fiduciosi di trovare una situazione simile alla precedente.
Il vagone successivo ospitava una dozzina di cyborg, sfortunatamente operativi che si voltarono a guardarci come un sol uomo.
Scattai subito sulla difensiva, pronto a combattere per la libertà o morendo nel tentativo, ma dopo averci squadrati tornarono alle loro occupazioni, non degnandoci più di un solo sguardo.
I miei compagni non sembravano stupiti da come procedevano le cose e io non mi arrischiai a emettere nessun suono per evitare che i robot intorno a noi cambiassero idea e decidessero di fare uno spuntino con le nostre carni.
Scenari simili si ripresentarono per tutte le carrozze che visitammo nella nostra processione verso la testa del Treno, ma avevo imparato a stare fermo, immobile, finché i cyborg non avessero abbassato lo sguardo, procedendo come un automa per omologarmi al resto di passeggeri.
Uno stratagemma un po’ idiota che mi faceva dubitare dell’intelligenza di questi esseri metallici, ma aveva il solo scopo di tenermi in vita e, per il momento, stava funzionando.
Di fronte all’ultima carrozza, però, i miei compagni si fermarono, in attesa.
Ricordandomi di essere il leader di quella rivoluzione feci un passo avanti per abbassare la maniglia, ma qualcuno dall’altra parte mi precedette, aprendo la porta.
Dalla mia posizione non riuscivo a vedere chi ci fosse dall’altro lato, ma i miei compagni si scambiarono un cenno e sparirono dietro la porta chiusa.
Non ebbi neanche il tempo di chiedermene il motivo, perché la porta si riaprì immediatamente e un braccio di freddo metallo mi tirò dentro.
La carrozza non aveva più nulla che la qualificasse come tale: le pareti di legno erano coperte da fitti cavi multicolori legati da fascette da elettricista; il pavimento era stato sostituito da una grata, anch’essa coperta da fili elettrici.
In fondo, decisamente fuori luogo in quell’universo di rame e plastica, una scrivania con relativa sedia in pelle, vuota.
Al centro della stanza, semi sommersa dai cavi, quello che rimaneva di una normale sedia da picnic.
Il cyborg che mi aveva preso mi ci spinse sopra senza troppe cerimonie, facendola quasi collassare sotto il mio peso.
La missione era fallita, mi ripetevo, maledicendomi per non aver pensato a un piano B.
Ma c’era mai stato un piano A?
Non riuscivo a pensare ad altro, mentre mi mettevano un elmetto sulla testa ed armeggiavano con i comandi.
Che parte avevo avuto in quella missione? Ero il leader, giusto?
L’occhio mi cadde sui miei compagni, sull’attenti ai lati della porta. Erano enormi. Enormi esseri fatti di ferro e acciaio, con un orribile bagliore rossastro all’altezza degli occhi.
Alzai un braccio, tremante. Cavi scoperti facevano capolino dal mio avambraccio mentre muovevo lentamente le dita.
Il cyborg continuava ad armeggiare sopra la mia testa, forandola in più punti ed inserendo oggetti, ma non sentivo alcun dolore.
“Cyborg riprogrammato tra 3… 2…1…”
Nella mia testa si sentì il suono di un interruttore.
Clic.
*
Le luci si spensero per un attimo nella carrozza quando, in un’esplosione di scintille, l’energia del Treno confluì nel cyborg seduto al centro della stanza.
Mentre le lampade al neon tornavano in vita sfarfallando, il suo secondo restituiva le pistole al robot SIM-097.
“Non ancora”, disse il Proprietario, poggiando le mani sulla scrivania.
“Deve ancora provarmi la sua fedeltà”.
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