Sogni
La sala da pranzo è la stessa, quella delle cene di ogni domenica, o quasi. Il tavolo è allineato alla vetrina addossata alla parete. Su quel lato si ha appena un corridoietto di spazio per strisciare con la sedia avanti o indietro. Il piano del tavolo ha la forma di un arabesco e le sue insenature sembra non si incastrino con i commensali. Dall’estremità sinistra, mio padre, mio nonno, mio zio, mia zia, tutti intorbidati da una sottile foschia. All’orecchio non intendo il loro scambio di parole di cui colgo tuttavia i gesti di accompagnamento. Sull’altro lato del tavolo, quello che mi è più vicino, ci sono due sedie vuote. Ecco, la porta finestra: è sulla destra come dovrebbe, ma la sua ossatura in legno non corrisponde a quella effettiva. Le ante vetrate si incurvano verso l’esterno, disegnando l’arco di un bovindo. Una sagoma attraversa la scacchiera lattiginosa dei vetri, precipitando.
– Le anatre, devono essere le anatre. La coppia pronta per essere uccisa.
L’informazione arriva dalla stanza e di certo gli animali non possono avere contezza di questa loro disposizione alla morte. In genere, una bestiola d’allevamento si dice preparata al boia quando la sua carne cede abbastanza teneramente ai denti dei carnefici.
Mia madre e mia sorella sono già sulle tracce delle vittime. È quindi tanto più inaspettato il fatto che queste piombino in autonomia in soggiorno. Sono due germani; la testa iridata del maschio ammicca di riflessi alla volta del lampadario.
Sollevo lateralmente una gamba nella sua direzione, mantenendo testa e busto distanti perché non si spaventi incrociando il mio sguardo. Fuori da ogni logica, quel trespolo lo attrae: si aggrappa con le zampe palmate al polpaccio nudo e si appende a testa ingiù come un pipistrello. Facendo perno sul piede poggiato a terra, muovo la gamba come fosse la lancetta di un orologio e la tendo verso mio padre. Gli porgo l’animale: lui gli schiaccia la testa senza pathos. È solo a questo punto che l’anatra femmina interviene nella scena: atterra sul tavolo e al salto che compie fisicamente ne accompagna uno interspecie, mutando in insetto.
Stacco.
Mi trovo in un locale; ad una prima impressione, direi abbia un carattere polivalente. Subito dopo l’ingresso, un’ampia scala in legno termina di fronte ad un bancone da bar sistemato sulla sinistra. Alla parete le consuete mensole cariche di bottiglie allineate.
Dall’altra parte dell’ambiente, alcuni scaffali di libri alzano pareti divisorie tra tavolini. Ne occupo uno insieme a P., F. e due compagni che mi rendono perplessa. Dovrebbero essere entrambi delle conoscenze, ma, l’aspetto di uno non mi è di alcuna familiarità, quello dell’altro è quasi dimenticato. Un vecchio compagno di università, mai frequentato altrove.
Fuori le strade che contornano l’edificio sono sventrate da lavori alla rete idrica. La richiesta con cui mi si chiede si spostare la macchina deve avere a che fare con questo.
Non so chi sia a rivolgermela: una figura spunta dalla porta d’entrata, aperta quel tanto da lasciarle passare testa e spalle. Penso che dall’altra parte se ne stia con una gamba alzata, quasi a volersi allungare e assottigliarsi. La voce viene da quel punto, ma potrebbe pure essere un anonimo richiamo fuori campo.
La assecondo, avviandomi verso l’esterno. Ad ogni passo, la suola si incolla su una pappetta di acqua e polvere, drenata appena dalla ghiaia. Accanto all’auto trovo mio padre a proporsi per la manovra. La spiegazione con cui dovrebbe giustificare il suo intervento non mi è chiara, i dialoghi sono minati da interferenze. Me ne sto così ad assistere, mentre lo lascio cimentarsi in una sequenza di avanzamenti e retromarce di dubbio senso. Per giunta, finisce col lasciare la macchina proprio nel modo che mi pare avesse sconsigliato. Non faccio osservazioni, accondiscendo.
Lì accanto c’è un’area verde abbandonata all’incuria e priva di raccordo con lo spazio della strada. È come se un rettangolo di terra fosse stato incastrato a viva forza in un mosaico già pieno.
Passeggio distrattamente, strisciando le scarpe sul terreno fino a quando noto qualcosa tra i fili di gramigna. È una matita con mine intercambiabili, piuttosto spessa. La raccatto con una certa soddisfazione: non è un lapis comune, chi l’ha perso deve avere padronanza del disegno. Io non ce l’ho, ma ho la matita, un possesso che riconosco tanto inutile, quanto ingiustificatamente felice.
Stacco.
Mi trovo ora in un piazzale, questa volta in compagnia di L. Un gruppetto di genitori e pargoli si è assiepato a breve distanza da noi. Qualche adulto si accuccia, portandosi all’altezza del figlio per parlargli con affetto. Intuisco che abbiamo appena terminato di leggere storie per quel pubblico, così come abbiamo sempre fatto in biblioteca.
Il solo elemento che crei continuità con la scena precedente è la matita: la estraggo dalla tasca e la mostro ad L. sul palmo aperto.
– Guarda che ho trovato.
Ne faccio sfoggio come di un tesoro, come quei ragazzini dalle ginocchia sbucciate che nelle loro esplorazioni incappino in qualche resto animale. Il guscio di un uovo, il frammento di un osso, indizi di vita, di morte. In maniera inattesa, L. riconosce l’oggetto come una sua proprietà: dice di averlo perso durante un’uscita per realizzare schizzi preparatori per degli acquerelli. Tre immagini, per l’esattezza, tutte lacustri, ma ognuna con un diverso stormo di uccelli.
Ma dall’angolo di terra dove avevo trovato la matita si vedeva poi un lago?
Mi sento cogliere da quella contrarietà che nasce quando l’amicizia obbliga a restituire qualcosa che si sarebbe tanto desiderato per se stessi.
Stacco.
Apro gli occhi, riconosco alla nuca la morbidezza del guanciale.
Chi ne abbia la voglia e la capacità, interpreti.
Avete messo Mi Piace4 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Hai reso benissimo l’atmosfera del sogno, e mi è piaciuto il finale, dove apri la storia a infinite interpretazioni.
Il tuo racconto riesce benissimo a trasmettere quella sensazione di “realtà che si intreccia” e si deforma. L’ho percepito come un testo in cui il simbolismo inconscio ha la meglio sulla logica narrativa, rendendo l’esperienza del lettore molto vicina a quella di chi si sveglia con in testa immagini vivide ma incomprensibili.
Io ci ho letto un messaggio velato, ma magari vedo simboli dove non ci sono.
Ciao Ambra e ben tornata su Open.
Il tuo testo mi arriva come un sogno che sfuma e ricompare, pieno di immagini strane ma allo stesso tempo familiari. Mi colpisce soprattutto quel continuo oscillare tra realtà e invenzione, tra la casa di sempre e dettagli che non possono esistere. C’è una malinconia sottile, come se ogni scena portasse con sé qualcosa di non detto: la famiglia osservata da lontano, gli animali che entrano in casa pronti a morire, i luoghi che sembrano riconoscibili ma cambiano forma.
La matita ritrovata mi sembra il simbolo più forte: un piccolo oggetto inutile e prezioso allo stesso tempo, qualcosa che avrebbe potuto dare un senso, o almeno un appiglio, dentro tutto quel movimento confuso. E invece anche quella deve essere restituita, come succede a volte nella vita: ciò che ci fa felici è nostro solo per un attimo.
Alla fine resta la stessa sensazione che si prova al risveglio dopo un sogno intenso: uno spazio pieno di significati possibili, che chiede a chi legge di trovare il proprio.
Anche io, come Roberto, avrei immaginato un finale senza ultima riga, ma è solo una sensazione mia. Per il resto, direi, un bellissimo racconto.
Non male, solo sogni? Apprezzato il tuo modo di scrivere mi aspetto di più, molto di più.
Ho amato molto il modo in cui hai raccontato il sogno. Se avessi potuto esprimere un desiderio al termine della lettura, avrei chiesto che fosse depennata l’ultima riga, che si incunea a mio avviso inutilmente nella parabola del racconto.