
SOLITUDINE
Walter amava la solitudine.
Gli piaceva starsene a casa a leggere libri, ascoltare musica, guardare dalla finestra lo scorrere della vita.
Usciva molto raramente, soltanto in casi di inderogabile necessità. Si era organizzato in modo da gestire le sue esigenze senza dover lasciare l’appartamento.
Abitava al sesto piano di un vasto complesso condominiale; non aveva rapporti con altre famiglie, solo con il vicino del medesimo piano scambiava qualche parola, lo stesso che ogni due giorni gli portava giù il sacchetto delle immondizie. Walter gli aveva detto di avere difficoltà con le scale per un problema al ginocchio, e di provare a volte claustrofobia in ascensore.
Per il resto viveva quasi come un eremita.
Era così ormai da due anni, da quando sua madre era morta, dopo una breve ma violenta malattia.
Suo padre aveva abbandonato la famiglia circa tre anni prima del triste evento, era come sparito nel nulla, e non si era più fatto vedere né sentire. Era accaduto nei pochi giorni che la mamma di Walter fu ricoverata in ospedale per un piccolo intervento chirurgico. Al suo rientro aveva trovato, sotto al cuscino, una lettera del marito dove annunciava, senza tanti dettagli, la sua intenzione di andarsene; sosteneva che il rapporto era diventato troppo pesante, che non lo cercassero, e così sia.
Il breve testo era scritto con il normografo, uno strumento che, all’inizio degli anni novanta, nessuno ormai usava più. Ma lui ne aveva un paio sulla sua scrivania, assieme a righelli, goniometri, un compasso, matite di tutti i tipi: un ricordo, certamente, della scuola tecnica che aveva frequentato da ragazzo.
In fondo al foglio una firma traballante, con il solo nome.
Un’altra lettera, scritta con lo stesso sistema, era arrivata al responsabile dell’ufficio dove lavorava da diverso tempo: si dimetteva con effetto immediato, senza alcuna spiegazione; chiedeva che la sua liquidazione fosse accreditata sul conto corrente della moglie, a titolo di risarcimento.
Un’ultima missiva arrivò, qualche giorno dopo, al fratello che abitava in un’altra città. Poche righe per motivare la sua decisione, con la promessa di passare a trovarlo di persona quanto prima. Il fratello cestinò la lettera in tutta fretta: da tempo erano in pessimi rapporti.
La moglie aveva aspettato qualche giorno, e poi era andata dalla Polizia a spiegare l’accaduto, chiedendo di essere aiutata. Le dissero, però, che sicuramente si trattava di un allontanamento volontario e che, non essendoci minori in famiglia, potevano fare ben poco. Le promisero di contattare gli aeroporti della regione. Dopo qualche giorno tre agenti passarono per una rapida ispezione dell’appartamento: mancavano i documenti dello ‘scomparso’, alcuni effetti personali, del vestiario e un paio di valige da viaggio. L’automobile, invece, era rimasta in garage, con le chiavi nel cruscotto.
Alla fine dissero alla signora di avvisarli subito, se il marito fosse ritornato a casa.
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Il padre di Walter era un uomo violento.
Quando capiva che una discussione con la moglie stava degenerando, mandava il figlio in cameretta a studiare. Ma lui sentiva tutto ugualmente. Dopo le bestemmie e le percosse la mamma si chiudeva in cucina a piangere; il padre, invece, andava in salotto a fumare: possedeva una pregiata pipa in radica nera, di cui era molto geloso, e che teneva sempre con sé, in tasca della giacca, avvolta in un morbido panno di seta. L’odore acre e dolciastro del tabacco invadeva tutta la casa, per poi dissolversi lentamente, fino al prossimo litigio.
Dopo la misteriosa partenza cominciò, per madre e figlio, un periodo di tranquillità. Superati i primi ostacoli di tipo pratico e burocratico, la vita in famiglia prese un’altra piega. La donna riceveva una pensione di invalidità e con i soldi messi da parte, problemi economici non ce n’erano. Vendettero anche l’automobile, con l’aiuto di un funzionario di Polizia.
Furono, in definitiva, tre anni di serenità.
Per questo l’improvvisa malattia, e poi la morte della mamma, misero Walter in grande difficoltà.
Nel giro di pochi giorni si trovò completamente solo, e la vita lo spaventava. Avrebbe voluto andare in letargo, e magari non svegliarsi più. Per un breve periodo si recò ogni giorno in cimitero, sulla tomba della defunta. Poi decise di chiudersi in casa.
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All’inizio cercò di distrarsi con la televisione, ma presto telegiornali, show, telefilm lo annoiarono e infastidirono. Passò in rassegna la collezione di videocassette con i capolavori di Hitchcock, ma si stancò anche di questo. Si dedicò allora alla lettura e alla musica: Dostoevskij e Beethoven gli riempivano intere giornate, distraendolo dai pensieri e dalla tristezza.
Passava poi lunghe ore alla finestra. Quella del salotto dava sul davanti del caseggiato, dove transitava una strada interna che si collegava alla via principale. Oltre la strada sorgeva un vasto parco per bambini, completamente recintato.
Dal sesto piano aveva un’ampia visuale: così poteva seguire giochi e bisticci dei marmocchi, controllati dalle mamme sedute sulle panchine; guardava giovani innamorati scambiarsi interminabili baci in macchina, prima di decidersi a smontare; ogni tanto si fermava anche un’ambulanza, per caricare qualche vecchietto.
Dalla finestra del bagno, invece, posta sul retro del palazzo, vedeva un altro caseggiato, distante qualche decina di metri.
Per settimane aveva osservato, senza essere visto, la vita di una giovane coppia da poco arrivata. Non avevano tende alle finestre. Vide più volte i due innamorati in intimità, sul salotto in sala da pranzo. Anche in camera da letto a volte dimenticavano di abbassare le tapparelle. Finché un giorno si accorse che la ragazza era incinta. Il marito, o compagno che fosse, la riempiva di attenzioni; le portava a casa mazzetti di fiori e scatole con nastrini colorati. Poi nacque il bambino, e spesso la giovane mamma lo allattava proprio davanti alla finestra, guardando fuori.
Quando il bimbo ebbe più o meno un anno, la coppia traslocò, dopo aver riempito per una settimana sacchi e scatoloni. Walter ebbe l’impressione che lei fosse nuovamente in gravidanza, e si sentì molto rattristato dopo la loro partenza, perché ormai gli sembrava di essere quasi uno di famiglia.
Ma la vita doveva continuare, nel malinconico bunker al sesto piano.
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Una volta al mese Walter scendeva nel seminterrato, sotto allo stabile. Lo faceva sempre di domenica, alle prime luci dell’alba, quando i vicini, probabilmente, erano ancora a letto.
La sua cantina era in fondo ad un lunghissimo corridoio, malamente illuminato; l’aria era stantia e polverosa, non essendoci finestre. La porta metallica era chiusa con un grosso lucchetto. Appena dentro accendeva una debole lampadina che penzolava dal soffitto, poi spostava un leggero scaffale, ingombro di vecchi libri e giornali. Dietro, sul muro mezzo ammuffito, mancava una mattonella. Dalla nicchia, allora, tirava fuori una scatola di latta, sul cui coperchio erano raffigurati dei biscotti al limone. Dentro c’erano una pipa in radica nera e uno screpolato normografo di plastica verde.
Walter andava sotto la luce per guardarli meglio; per alcuni secondi tratteneva il respiro, infine rimetteva tutto a posto.
In un angolo, sotto una pesante coperta piena di polvere, giacevano due grosse valige di cuoio; ma quelle non le apriva mai.
Ripercorreva tutto il corridoio, con un mezzo sorriso sulle labbra, e ritornava al suo solitario appartamento.
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
ci si imbatte in questo sito in racconti brevi scritti in maniera egregia: il tuo è uno di questi.
Un personaggio con una storia come tante, ma l’importante è il modo in cui tu la presenti: come dietro a un velo di nebbia.
E la dissolvenza nel finale è davvero ammirevole.
grazie del commento.. è sempre piacevole ricevere complimenti sinceri
Hai descritto per fila e per segno una sensazione che sto provando io in questo momento. mi sono dimesso, faccio meditazione, scrivo e leggo un’ora al giorno, mi riempio di un karma teorico che spero vada nel pratico. Scherzi a parte, il tuo racconto di saggezza per come l’ho visto io, ci insegna che la Pace è più importante della Felicità: è un elemento più solido, statico, corro a vedere Sadghuru
grazie per la lettura.. io non so quanto faccia bene la solitudine, all’uomo..
Il racconto mi ha lasciato un dubbio: è stato Walter a uccidere il padre o lo hanno fatto insieme lui e la madre?
Da solo, mentre la mamma era in ospedale.. purtroppo, per fermare certi uomini violenti non esistono altre soluzioni..
E grazie per la lettura
Anche io ti faccio i complimenti per questo racconto, completo, commovente e scritto molto bene. Giusto il finale, non risolutivo della sofferenza, ma comunque degno dell’appoggio e supporto da parte del lettore. Ho apprezzato le descrizioni che, durante la lettura, mi facevano sentire ‘dentro’. Se posso, io avrei mosso un po’ la situazione. Magari con qualche ‘pensiero’, ‘non dialogo’. Però questa è solo un’idea mia. Per il resto, molto bravo come al solito.
Grazie, Cristiana.. sei sempre gentile.. però mi viene un piccolo dubbio: che il finale sia stato capito.. o meglio, che io sia stato chiaro nella ‘spiegazione’..
Leggendo ho provato solidarietà verso questo personaggio, Walter. Una parte di lui assomiglia tantissimo a ciò che giace in tutti noi, quando ci ritroviamo delusi dalla vita e dalla società. La voglia di allontanarsi, di dissociarsi dal mondo intero, fare rappresaglia con il silenzio. Molto realistico, forse troppo. I miei complimenti.
Grazie per il commento.. la vita non è stata benevola con lui.. doveva reagire, ma si è pure condannato per sempre.