
SOLO ROVINE
La piazza sembra un piatto lasciato al sole: bordi unti, mosche, fritto vecchio mescolato ai gelsomini del vicolo. Paradiso e cesso sullo stesso marciapiede.
Siamo lì da ore: Toni, Nunzio, Peppe e io. Spalmati su una panchina che sfarina, palmi umidi, occhi stretti contro il tremolio del lampione. Sotto le suole la plastica canta, vetri di birra come ghiaccio rotto; la notte ci sta addosso come una camicia bagnata.
Toni gratta il mento con un accendino scarico, come se una fiamma potesse uscire pure dalla pelle. Nunzio fissa le stringhe, nere diventate grigie: l’infanzia annodata lì. Peppe passa il pollice sulla cicatrice dell’avambraccio; sembra addormentata, ma appena la sfiori si irrigidisce. Io ho la bocca secca: bestemmie finite, saliva finita.
Il bar ha chiuso lasciando il cucchiaino nella tazzina come un dito accusatore. L’alimentari ronza: frigo stanco che non vuole morire. Dalla serranda del barbiere cade una goccia — olio o pioggia vecchia — che ticchetta come un’insegna.
«Ma che cazzo di paese è questo?» sbotta Toni. Sputa. Il fiotto cade tra due mozziconi. Dalla nicchia la Madonna del Carmine lo guarda senza battere ciglio: occhi di vetro, nessun miracolo.
La piazza ingoia la domanda. La risposta sta nell’aria: qui esisti meglio se ti anestetizzi. La scuola è un deposito. Il lavoro, un favore. Tua madre ti attraversa lo sguardo senza sbattere contro niente. Tuo padre a tavola: «Potevi nascere morto, almeno risparmiavamo», poi la TV accesa finché la stanza impara a resistere alla luce.
Sul muro di fronte c’è ancora il murale del ragazzo ammazzato ai chioschetti. Il suo sorriso lo ha mangiato il sole: colano righe chiare come sudore. Sopra, scarabocchi di cazzi a pennarello, risate rimaste lì. Ogni volta penso che potevo starci io. E che — peggio — per me non avrebbero preso nemmeno la vernice. Mi brucia un’idea: mi avvicino al murale. Col polsino sfrego via un pezzo di cazzo disegnato sullo zigomo. Viene via un’ombra grigia. Mi resta addosso l’odore di pennarello e muro bagnato. Non è salvezza. È un niente mio.
Peppe ci passa una bottiglia bassa, profumo di benzina col tappo svitato. Ci brucia la gola prima ancora di bere. Beviamo lo stesso, senza fare versi: il liquido scende e lima gli spigoli dentro.
«Io a mio padre lo odio» dice Nunzio, voce piana, come un verbale. «E pure a mio nonno. Morti tutti e due. Hanno lasciato solo fotografie scattate col pugno.»
Le sue parole affondano nell’asfalto.
Io penso a mia sorella. Tredici anni, sogna di fare l’estetista. Dice che scapperà.
Lo dicevo anch’io. Poi il biglietto del treno me lo sono fumato in due sere.
«Vi è mai venuta voglia di sparire?» mi scappa. Non un gesto. Un modo.
«Ogni mattina, appena apro gli occhi» fa Peppe. Non ride nessuno. Le parole trovano un posto tra i denti e ci restano.
Toni si alza. Si sbottona i pantaloni e piscia contro il muro del Comune.
Il getto batte sulle pietre come un applauso sporco. «Questo è il mio voto», dice. Nessun comizio vale così tanto.
Io sento il cuore nelle orecchie. Batte piano. Come uno che ha paura di disturbare.
La rabbia mi sale. Molle. Vuota.
Vorrei gridare. Ma mi gratto il collo.
Vorrei scappare. Ma non ho dove.
Vorrei spaccare tutto. Ma ho le mani vuote.
Nunzio accende una sigaretta che sa di plastica.
«Io sogno, fratè. Sogno forte. Ma ogni volta che apro gli occhi è sempre questo cazzo di posto.»
La brace gli illumina la faccia, sembra un teschio che respira.
Poi Toni si gira verso Peppe.
«Io voglio un bacio. Con la lingua. Fammi sentire che sono vivo. O almeno che sia vivo lui.»
Si stringe l’uccello tra le mani.
Peppe lo guarda. Il silenzio si sfila piano, come un coltello dalla carne.
«Guarda che lo faccio per davvero.»
«Ho bisogno di qualcuno. Anche se sei tu. Anche se fa schifo. Basta che succeda. Che almeno succeda qualcosa.»
Toni gli prende la faccia con due mani — dita sporche con le lune nere —, gli schiaccia la bocca. È un bacio breve e cattivo: denti che sbattono, la smorfia rapida di Peppe, un colpo in pancia trattenuto. Non ridiamo. Non facciamo i buffoni. Io sento nel naso un odore di rame, forse mio.
Peppe sputa di lato. «Sapevi di pasticca e nicotina.»
Toni si passa la lingua sulle labbra. «Allora sono ancora io.»
Nunzio sale sulla panchina. Le assi tossiscono. Allarga le braccia come uno a cui stanno per perquisire le tasche. La voce gli gratta dentro, esce ruvida.
«Guardate qua». Indica con la punta della scarpa il sacchetto blu incastrato nel tombino. «Questo è il nostro mare.» Si ferma, prende fiato.
«Sentite, bastardi. Silenzio. È il mio momento.
Siamo cresciuti coi casermoni: calci al posto delle ninnenanne, sirene al posto delle canzoni. Adesso ci dicono che è poesia. Poesia ’sta fava.
Ci hanno lasciato i fondi delle bottiglie e il telecomando incollato alle dita.
E pure la faccia di dirci: “Ringraziate, sorridete”.
Basta.
Io voglio tutto. Adesso.
Non aspetto più chi ci salva. Nessuno viene. Nessuno ci deve niente.
Me lo prendo. Con le mani. Con le unghie. Con i denti.
A morsi.»
Nunzio urla e io lo sento nelle ossa.
Uno così, qui, è uno spreco.
Se glielo dico, gli regalo un rimorso in più.
Passano due ragazzi con un carrello pieno di ferraglia: pezzi di letti, antenne, una ruota che stride.
Toni li indica. «Eccoli i re del quartiere. Almeno loro fanno qualcosa.»
Gli tiro un mozzicone. «Taci, Toni. Quelli almeno si muovono, e si tengono le mani impegnate.»
Nunzio ride. «Noi abbiamo le mani libere e non ci prendiamo niente.»
Una bottiglia cade.
Il vetro si rompe: fiato di latta.
Peppe si alza. «Io me ne vado. Se restiamo ancora qua, ci mettiamo a parlare d’amore.»
«Meglio che parlare di futuro», dice Toni. «Quello ce l’hanno già rubato.»
«E il presente?» chiede Nunzio.
«Ce lo stiamo bevendo.»
Una sirena lontana. Un cane abbaia.
Il vento porta l’odore dei cassonetti.
Toni si accende una sigaretta. Se la fuma come fosse l’ultima cosa giusta da fare.
Io alzo gli occhi.
Il cielo è una ragnatela bucata, un lenzuolo strappato.
Ma tra gli strappi una puntura di luce. Forse una stella, forse un aereo.
Ci hanno lasciato rovine. Stanotte almeno alziamo un grido.
«Non c’è nessuna stella», fa Peppe. «’Sto cielo ci piscia addosso e manco ce ne accorgiamo.»
Toni ride secco, come chi sputi sangue. «Forse perché siamo già morti.»
Nunzio si sfila le scarpe e resta scalzo sull’asfalto, coi piedi nudi che cercano il battito della terra.
Come se solo così potesse convincersi di essere ancora vivo.
Io raccolgo un sassolino.
Lo stringo nel pugno fino a farmi male.
È minuscolo, ma pesa più di me.
È il chiodo che mi tiene qui.
Nessuno si muove. Nessuno se ne va.
Siamo carcasse sulla panchina.
Piove ostinato e l’acqua non lava: scava.
Ci entra nelle scarpe, nelle tasche, negli occhi.
Odora di ferro e fango, come una fossa appena aperta.
Restiamo sotto. Fermi. Testardi.
Le ossa battono, un suono cavo nel vento.
La pioggia ci scortica piano, come carta vetrata sulla pelle.
Non purifica. Non salva. Corrode.
Eppure restiamo.
Perché sulle rovine non crescono promesse.
Cresce ruggine.
E noi siamo quella ruggine.
Marcia, velenosa, ma incollata al mondo come un’unghia che non vuole staccarsi.
Domani il pennarello torna. Domani il polsino pure.
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“Piove ostinato e l’acqua non lava: scava.”
Una minima parte di questi tuoi versi liberi, di una poesia dura, ma bella.
Un inno di dolore, disperazione, angoscia… ma anche vittimismo e rassegnazione. Agnelli sacrificali, lasciati, volutamente, nell’ignoranza, nella rabbia e nella pigrizia. Un racconto del Sud che va benissimo anche per le periferie del Nord. Un racconto politico, se si vuole, di una o più generazioni schiacciate da un potere che non fa molto per creare futuro. Triste come la pioggia nel giorno dei morti, Rumoroso come il correre di una spranga su una cancellata, fastidioso come le unghie sulla lavagna eppure vero e necessario… che qualcuno ci si trovi e reagisca, che abbatta quei muri marci e sordi, perché non basta pisciarci su, non serve a nulla. Oppure non se lo fumi quel biglietto e parta per provarci altrove, ma che lo sappia che le sue fondamenta li sono state costruite e le avrà in ogni dove.
@Beppe Grazie. Hai letto esattamente la miscela che cercavo: dolore, rabbia, stasi. Non volevo fare vittimismo, ma restare dentro quella notte senza sconti; una piazza che macina i corpi e le parole. È politico nel senso più semplice: chi resta, chi prova ad alzare un grido, chi prende “il biglietto” e va. La ruggine finale non assolve nessuno, nemmeno me: è il punto da cui scegliere se grattarla via o farsela pelle.
Condivido il pensiero di @Sa.Brina un racconto intenso e amaramente claustrofobico.
Un piacere leggerti
Grazie Corrado, ma ti assicuro che il piacere è reciproco.
Se dovessi descrivere questo racconto in due parole direi: amaramente claustrofobico.
Molto bello, molto intenso.
@Sa.Brina “Amaramente claustrofobico” è una fotografia perfetta: panchina sfondata, lampione che trema, pioggia che non lava. Se ti ha tolto un filo d’aria, ho centrato il bersaglio. Grazie.
“Domani il pennarello torna. Domani il polsino pure.” Credo che in questa frase ci sia tutto il senso del racconto: adolescenti che non vedono una via d’uscita in una realtà sporca e immobile, ma la loro voglia di ripulire tutto è più forte. Come sempre, una storia palpabile.