Speranza
“Solo Speranza, come in una casa indistruttibile,
dentro all’orcio rimase, senza passare la bocca, né fuori volò” (Esiodo)
1.34. Neppure riesco a ricordare l’ultima volta che ho respirato l’aria della notte di Cagliari. Uscii dall’aeroporto e lasciai che lo scirocco sardo mi accarezzasse delicatamente il volto, accesi una sigaretta e espirai con soddisfazione, pensando: «Ho trascorso notti insonni sognando questo momento, e ora sono finalmente a casa!». Stetti qualche minuto davanti all’uscita dell’aeroporto finché, scorgendo un taxi in cerca di passeggeri, feci un cenno per chiamarlo:
– “Dove la porto, signore?”- disse, con il tipico accento cagliaritano.
– “Piazza Yenne, grazie!”
Salii dietro senza dire parola e mi accovacciai ad un lato della vettura, poggiando la testa al finestrino, con lo sguardo sognante rivolto alle case e i campi fievolmente illuminati.
Nei pochi minuti di marcia il tassista cercò di fare conversazione, tuttavia risposi sempre con stanche e elusive dichiarazioni. Giunto a destinazione pagai e mi congedai come meglio potei. Mi avviai lentamente sulla salita che avevo percorso infinite volte e che, negli anni della mia lontananza, non era minimamente mutata: i soliti negozietti, la chiesa di Sant’Anna, la facoltà di Lingue e l’ospedale alla fine del tornante, il Palazzo delle Scienze ed infine l’imponente Porta Cristina che separava il quartiere Castello dal Viale Buoncammino con la sua mole di pietra scolpita. Da quel punto strategico, usato storicamente come prigione, si può scorgere l’intera città: cosparsa di piccole e grandi luci multicolore, una moltitudine incostante di tetti e guglie si estende delicatamente poggiandosi ai bordi delle strade fino a sfociare nel mare distante che, inondato da un perenne tramestio di colori, si dipana fino alle montagne dall’altra parte del golfo. Presi posto in una delle tante panchine che delineano il belvedere e aprii il mio zaino consunto, traendone fuori una lattina di birra comprata chissà dove. Accesi una sigaretta, diedi una sorsata e mi adagiai a peso morto contro lo schienale, sotto un enorme cipresso accarezzato dal vento. Mi persi in mille pensieri, senza misurare il tempo, finché qualcosa mi riportò alla realtà esterna. Il suono immutabile di quel luogo si era improvvisamente arricchito di un altra sfumatura. Una melodia si propagava nell’aria, un fischiettio che portava mille sensazioni contrastanti. Mi volsi e vidi che, senza il minimo rumore, qualcuno si era seduto nella panchina affianco. Era una ragazza, la più bella che avessi mai visto. Con un’eleganza da toglierti il fiato, era avvolta in un vestitino succinto che velava le gambe accavallate con nonchalance. Le braccia conserte sopra il ventre evidenziavano i seni appena pronunciati, appena tremanti per il respiro quasi impercettibile. I capelli castani le cadevano dietro il capo in sontuosi boccoli lucenti, lasciando scoperto il profilo, con gli occhi rivolti verso il mare e le labbra color rubino, accentuate lievemente nell’atto del fischiettare. Rimasi subito incantato da quella ragazza, probabilmente non più grande di 20 anni. La fissai meravigliato finché non si volse e, smettendo di fischiare, disse:
– “Splendida notte, non trovi?”
– “Sì, incantevole” – risposi seccamente, un po’ spiazzato. – “Vieni spesso qui?”
– “Non vi è una sola notte, nella mia lunga vita, trascorsa senza che io abbia visitato questo posto. Anche tu sei rimasto ammaliato dalla sua bellezza, nonostante sia stato assente da questa città per tanto tempo.”
Inutile dire quanto mi sentii sconcertato. Aveva saputo leggere dentro di me, in un modo o nell’altro! Avrei sicuramente ricordato una ragazza simile se l’avessi già conosciuta. Ripresi a fissarla esterrefatto e la mia meraviglia aumentò di nuovo perché, tranne gli occhi, il suo volto era improvvisamente mutato: mantenendo gli stessi bellissimi tratti, era come se fosse cresciuta, ora sembrava avere una trentina d’anni, sfoggiando un tratto di maturità che poco prima non aveva. Guardai istintivamente la lattina di birra semi-vuota e la lanciai oltre il muraglione. Vedendomi scoppiò a ridere e disse:
– “Tranquillo, non sei sbronzo e non sei pazzo… Non avendomi ancora incontrata di persona non sei abituato… Per me è normale.”
– “Si può sapere chi sei?” – dissi, in tono scocciato.
In tutta risposta mi fissò con i suoi occhi penetranti e, per quanti sforzi facessi non mi fu possibile distogliere lo sguardo. Quando vide che il suo incantesimo aveva funzionato disse:
– “Mi cerchi da anni ma non mi hai mai trovata, allora ho deciso di cercarti io. Io sono Speranza e questa città è uno dei lidi a me più cari. Sapevo che il rimpianto ti avrebbe fatto tornare sui tuoi passi, così ho deciso di guidarti qui, per riflettere con me sull’ansia del futuro e chiudere la porta sul passato.”
Senza trovare alcuna parola per controbattere, feci un cenno per continuare, smarrendomi nei tratti del suo volto che invecchiava progressivamente, come un filmato accelerato. Senza farsene cura, proseguì pacatamente:
– “Siedo ogni giorno su questa panchina, a contemplare la più grande metafora dell’esistenza: il Mare. Nell’immensa massa d’acqua che affoga la terra spadroneggia la tempesta delle avversità, affogando e disorientando le zattere con cui tentiamo di attraversare il Tempo. L’acqua che si accumula con violenza in un luogo genera un ristagnare di tranquillità nell’altro e, allo stesso modo, nella nostra vita si concentrano dei periodi bui in cui affoghiamo, ma di necessità la disperazione deve cedere il passo alla felicità, non può restare perenne e imperterrita, poiché nulla può restare immobile ma tutto deve scorrere senza posa!”
– “Splendida riflessione, ma allora cosa è possibile fare se tutto accade di necessità?” – chiesi.
Ora diverse piccole rughe iniziavano a delinearsi lungo il suo viso cinquantenne e il suo respiro iniziò a diventare più affannoso, costringendo la voce a strascicare la parlata:
– “Devi comprendere che dietro questa necessità non c’è una predeterminazione incontrovertibile. Questo è il ritmo delle cose, ma neppure il fato può imbrigliarle definitivamente, ecco perché io ho ragione di esistere. Necessario è agire, sempre, ma l’ineluttabilità delle conseguenze non può essere applicata anche alla libertà delle cause! È da queste che io traggo origine e sostentamento. Ognuno decide della sua vita, trae quel che il destino vuole dargli, tuttavia anche il destino si muove forzatamente su questo binario. Come il mare che, toccando la riva con un onda le toglie granelli di sabbia e con il ritorno di questa glieli restituisce, lasciando nel suo complessivo equilibrio sempre la stessa massa d’acqua e sempre la stessa riva, allo stesso modo il destino un giorno ti toglie qualcosa e un giorno te ne da un’altra, forse anche la stessa che ti ha tolto. Ciò che spinge le cose ad andare avanti è l’attesa di una restituzione, l’elargizione di un dono che non ti farà rimpiangere il furto e quell’aspettativa sono Io. Ogni giorno al tramonto nasco, prendendo forma nell’istante in cui il frenetico ritmo della città inizia a rallentare, e nel giro di pochi istanti inizio a crescere e camminare, sostenuta ed invocata da tutti: le madri partorienti mi nutrono per i loro figli, i bambini mi nutrono con i loro sogni, i disagiati mi nutrono con i loro problemi, gli amanti mi nutrono con le loro pene, e così via… Ognuno a me inevitabilmente paga qualcosa e durante la notte veglio su tutti coloro che credono in me, spendendo la mia vita in qualche ora finché le luci dell’alba non mi conducono alla morte, poiché i frutti delle azioni che per me passano nel giorno si trasformano in realizzazioni o disillusioni. Eterna è la mia esistenza, anche se trascorsa in un alternarsi velocissimo di vite e morti, perché neppure la morte e il destino possono fare a meno di me… Se così non fosse, ogni cosa perderebbe quella scintilla che la fa andare avanti.”
Smise di parlare bruscamente e si alzò. Lenta e tremante si avvicinò a piccoli passi verso il muretto che faceva da spalto al belvedere. L’appena accennato rossore dell’alba iniziava a schiarire la plumbea notte nera in quella gradazione di blu scuro che precede le prime luci del mattino. Per qualche istante si piegò, affannando vistosamente e toccandosi le ormai infinite rughe sul volto ottantenne, dopo di che si volse nuovamente verso di me e parlò un ultima volta:
– “Ora sai come funziona! Quel che è morto vivrà di nuovo, in un’altra forma, e quel che ti è stato tolto ti verrà ridato, quel che è andato è ormai dietro di te ma solo andando avanti potrai doppiare la pista e riprendertelo! In ogni notte che nasce c’è una speranza, la speranza immortale che le cose possano sempre cambiare, sempre! La tempesta esiste solo affinché si riesca ad apprezzare la bonaccia del mare che, nel suo ciclico va e vieni, prende e ridà, senza eccezione!”
Sussultò violentemente, si volse verso lo spalto e, mormorando «Ci rivedremo», si gettò di sotto. Mi sporsi di scatto nel tentativo di fermarla, ma non ci riuscii. Guardai in basso a lungo, ma non riuscii a vedere nulla se non alcuni arbusti velati da un fitto manto di gocce di rugiada che luccicavano sotto i primi raggi del sole appena sorto.
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Grazie :)))
Speranza è l’ultima a morire…
Grande Antonio!!!
Complimenti Antonio! Davvero un bel racconto!
Bellissimo racconto.
Complimenti all’autore.
Consiglierei la ri-lettura, però! ?