Stop me

Serie: Bivacchi


(Immagine di copertina di Fabo Elia)

Muovendosi con la cautela degli equilibristi, abbiamo attraversato il ruscello che precipitava a picco sulla valle sottostante. Durante l’attraversamento utilizzavo anche le mani per assicurarmi di non scivolare giù.

Una volta dall’altra parte, seppure molto pendente, il sentiero era di nuovo praticabile e nel giro di venti minuti circa, eravamo giunti a destinazione. Come sempre era Ele, per prima, a vedere il bivacco e ad urlarlo al gruppo. Visto da fuori, sembrava una baracca male in arnese. Di un rosso acceso, probabilmente per essere avvistato facilmente anche quando coperto di neve. La preoccupazione, come tutte le volte che si raggiungeva stremati il bivacco, era quella di arrivare alla porta e scoprire che era chiusa. Chi avrebbe avuto la forza di tornare indietro e rischiare, con il buio, la discesa ripida tra le rocce e, ammesso che si sopravvivesse a questo, un’altra camminata di più di due ore?

Ma la porta si è aperta e siamo entrati. La targhetta, all’ingresso, rendeva omaggio ai due alpinisti che davano il nome al bivacco: Combi e Lanza. L’interno era più carino della facciata esterna; tutto in legno e diviso in due locali, cucina e dormitorio. Era molto più piccolo rispetto agli altri bivacchi e aveva anche molti meno posti letto, ma più che sufficienti per noi. In cucina, c’era un ampio tavolo circondato da panche.

Ancora una volta, forse per la tensione dell’arrampicata, avevo mal di testa e così, rinunciando alla polenta, ho mangiato qualcosa di leggero e poi ho preso il mio solito Oki. Gli altri, invece, hanno consumato allegramente la solita polenta ai formaggi, mentre Favie sottolineava, sarcastico, la mia dipendenza dal farmaco e Scilli mi rimproverava per questo.

Dopo cena, sul portatile di Favie, abbiamo visto “Stand by me”, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Scilli non era molto soddisfatto del film e sembrava invece più attratto dal forte vento che imperversava fuori e che, talvolta, faceva sbattere le imposte. Dalla finestra, dietro di lui, si scorgeva una vista suggestiva: la vallata sottostante terminava e si potevano scorgere una serie di picchi dalle forme più strane, illuminati da una splendida luna. Il vento, strofinandosi contro le pareti dei picchi intorno a noi, emetteva un cupo muggìo, quasi un prolungato boato che sembrava inquietare il nostro amico. E bisogna ammettere che si trattava di un suono parecchio sinistro. Alla fine del film, sentenziava:

-Sto “Stop me” non è che m’è piaciuto tanto. Non si capiva il senso. Questi vanno a cercare sto cadavere e poi? Uno pensa che deve succedere qualcosa e invece non succede niente.-

Favie cercava di mediare, sorridendo: -Ma è una storia di amicizia.-

-Bah.- Rimaneva perplesso, Scilli.

Dopo di che, ci siamo messi a letto, non prima di esserci accertati che Blaco, non visto, fumasse in cucina per sottrarsi al freddo vento della notte di montagna. Poco più tardi, eravamo in silenzio, distesi ad ascoltare quel cupo boato intorno a noi. Sembrava un gigante arrabbiato, presago di sventure catastrofiche.

-Questa baracca avrà visto tante di quelle tormente e tempeste…- Ho detto, provando a rassicurare gli altri e me stesso.

La situazione mi ricordava quando lavoravo sulle navi e, a volte, di notte, capitava di svegliarsi perchè la nave, facendo manovra, prendeva a vibrare tutta.

Ele, per rassicurarsi, teneva una lucetta accesa accanto al proprio letto, per la “gioia” di Favie a cui ciò rendeva più difficoltoso prendere sonno. Ma l’amore è anche questo. Forse, soprattutto questo.

Al mattino, mi è capitato, come non mi succedeva più da anni, di avere quella che viene definita “paralisi del sonno”, una delle cose peggiori che si possano sperimentare. Avevo la faccia rivolta verso il muro ed ero a pancia in giù; avevo preso coscienza, ma a quanto pare il mio corpo doveva ancora attivarsi. Non riuscivo a muovermi, nè a parlare. Sentivo che Scilli, nel letto accanto al mio, era già sveglio. Volevo gridargli di aiutarmi, di girarmi sul fianco, ma non riuscivo ad emettere suono. Poi, piano piano, ho cominciato a riuscire a muovermi e a voltarmi.

Poco dopo, facevamo allegramente colazione. Blaco sembrava un re, tra il caffè e l’amaro con cui lo aveva allungato, pregustando la sigaretta che, a breve, avrebbe coronato questo suo momento magico. Ma il pensiero di tutti era rivolto alla discesa di quel tratto pericoloso che, con grande fatica, avevamo superato per salire. Sarebbe stato altrettanto pericoloso scendere, ma questa volta avevamo il vantaggio di conoscere il percorso.

(Foto di Fabio Elia)

Proprio dietro il bivacco, c’era un ghiacciaio, poichè ci trovavamo a 2500 metri. E’ risaputo che nei bivacchi non c’è il bagno. Guardandomi attorno, nel cercare il posto adatto per defecare, ho pensato che sarebbe stato magnifico farlo sul ghiacciaio e poi lavarsi con la neve. E così ho fatto. Mi sono vantato per tutto il giorno con gli altri, di questo.

-Quante persone- Chiedevo- Possono vantarsi di aver cagato in un ghiacciaio? Pochi! Ed io l’ho fatto!-

Ricevevo in cambio sorrisi, per metà di scherno e per l’altra metà di compiacimento. Sembravano contenti che io l’avessi fatto. Forse dava colore alla nostra avventura e Favie già pensava di inserire tutto ciò nel sul suo blog “I mediamente organizzati”.

Mentre gli altri finivano di prepararsi, io sono sceso qualche decina di metri più in giù con l’intento di cercare un posto tranquillo in cui fare la mia preghiera buddista. Avevo bisogno di positività per affrontare la discesa che ci aspettava, la determinazione giusta e un po’ di buona fortuna (o Shoten Zenjin, come dicono i buddisti).

Favie mi raggiungeva per legarmi allo zaino il solito, simpatico sacchetto dell’immondizia. E via, verso la temuta discesa.

Beh, non è stato facile. Una volta, così come era successo durante la salita, abbiamo sbagliato percorso e siamo dovuti tornare indietro, ma eravamo freschi e questo faceva una grossa differenza. Il rischio era sempre molto elevato. Ricordo, ad esempio, che in un punto, avevamo come appoggio una striscia di terra di circa 10 cm, in cui ci stava giusto giusto un piede di taglio e, per un metro circa, abbiamo proceduto così, aggrappati a degli arbusti, con il vuoto sotto di noi. La maledetta busta dell’immondizia, per giunta, mi ballonzolava attorno allo zaino sbattendomi ora su un lato della faccia, ora sull’altro. Come se non fosse già abbastanza complicato di suo, il momento! Comunque, ad un tratto ci siamo resi conto che il grosso della discesa era superato, ma la busta si era rovinata strisciando contro le rocce e cominciava a disseminare rifiuti sul terreno. A quel punto, Favie l’ha rattoppata in qualche modo e se n’è fatto carico lui.

Tornare sul sentiero che scendeva a valle, ci ha dato un enorme sollievo, ma Scilli era davvero provato e, non appena giunti in piano, abbiamo optato per una pausa. Lui si è messo su una grossa roccia a prendere il sole. Io e Blaco, seduti all’ombra, guardavamo le vette da cui eravamo scesi. Ho pregato ancora un po’ per manifestare la mia gratitudine di essere ancora vivo. Blaco, in silenzo, mi ascoltava pregare.

Dopo un quarto d’ora circa, siamo ripartiti. Destinazione Lago Nero; eravamo decisi a fare un bel bagno gelido. Abbiamo attraversato un torrente sopra un tronco d’albero disteso tra le due sponde. Dopo quello che avevamo passato tra le rocce, questo non ci faceva certo paura. Poi, inoltratici nel bosco di conifere, cercavamo un cartello, ma non c’era niente che ci aiutasse a capire che direzione prendere. Andavamo a intuito, basandoci sul ricordo del lago visto dall’alto del bivacco. Favie bestemmiava infuriato per la mancanza di indicazioni. Alla fine, abbiamo incrociato altri escursionisti che ci hanno confermato d’essere sulla strada buona e poco dopo, il lago era davanti ai nostri occhi in tutta la sua austera bellezza. Il tempo di buttare a terra lo zaino, spogliarmi ed ero dentro.

(Foto di Fabio Elia)

Poco dopo, eravamo tutti in acqua. C’era una grande quantità di girini e abbiamo notato delle piccole colonne gelatinose a bordo lago, che ondeggiavano sotto il pelo della superficie e che ci è stato detto essere una specie di plancton da cui prendevano vita i girini. Stando attenti a non calpestarli, abbiamo fatto delle brevi nuotate per sgranchirci un pochino, poi asciugatici e rivestitici, siamo partiti alla ricerca di un ristorante.

Così, abbiamo riattraversato il bosco che ci aveva condotti, il giorno prima, lontano dalla civiltà. Era davvero un luogo meraviglioso, costeggiato da vette maestose e frequenti, spettacolari cascate. L’aria pura, il profumo del bosco, il silenzio, mi hanno sollecitato qualcosa di antico nel cuore e ho composto una poesia, mentre camminavo, da solo, in testa al gruppo:

Questo è il posto in cui unico è il rumore

Della roccia e dell’acqua che fanno l’amore

Con qualche uccellino guardone

Che canta fra gli alberi.

Questo è il posto in cui l’aria è

Incredibilmente profumata

Non come quelle miscele chimiche

Che la gente mette indosso

Ma come l’essenza

Che esse provano a imitare,

La fragranza della vita stessa.

Questo è il posto in cui sei costretto

A stare nel presente

Perché un passo falso

Potrebbe farti morire

E ciò ti fa sentire

Più vicino che mai

Alla vita.

Serie: Bivacchi


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