Svolte

Serie: Il solo modo che conosco


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: «Dove se ne va di bello?» mi ha chiesto indicando la borsa sul serbatoio. «In Germania.» «Da solo?» «Da solo.» Ho visto un veloce rifesso di rimpianto attraversargli gli occhi, come un giorno toccherà a me. Ma non oggi. «Ah, bei tempi quelli. Buon viaggio».

Ho percepito la temperatura addolcirsi rispetto al giorno prima già dal momento in cui mi sono lasciato alle spalle il lago e ho fatto ingresso in Val Chiavenna, nel suo territorio non ancora montuoso ma certamente montano.

Data l’assenza di cartelli a delimitarne i confini, quale ne sia stato l’inizio l’ho stabilito arbitrariamente. Nel punto in cui la strada esce dal bosco al termine di una curva. Lì, il cuore perde un battito per l’emozione e il torace resta gonfio di fronte ad una lunga discesa che taglia in due una smisurata porzione di terra, di verde e di montagne appoggiate su un cielo azzurro e luminoso, per poi risalire repentina nascondendo alla vista quel che sta oltre, un segreto che aspetta solo di essere svelato.

Quel momento è stato come affondare il primo morso in una pietanza deliziosa, esaltata da un appetito vorace; un piatto del quale non ci si stufa mai, un assaggio che sa di promesse che verranno mantenute.

Poi il polso destro che ruota all’insù, e con lui le vibrazioni del motore che salgono su un tratto di strada quasi deserto di prima mattina.

Ho guidato per un’ora nell’impazienza di andare avanti e allo stesso tempo sperando che quel momento non finisse mai, imprigionato dallo sfrigolio di una lampadina che brucia su una macchina fotografica d’altri tempi. Con lo stomaco in subbuglio per quel che mi stava aspettando e consapevole di quanto Greta se la stesse godendo, ho ascoltato il suono roco e regolare dei cilindri attraversarmi ed uscire dalla marmitta lucida, l’aria frizzante a mantenere la giusta temperatura sulle alette di raffreddamento del motore.

Quella mattina ho anche impresso sul casco la mia prima ferita di guerra, un solco dritto ed indelebile sulla mentoniera. Devo ancora stabilire se ne andrò sempre fiero o me ne vergognerò per gli anni a venire.

Con il confine svizzero a portata di mano, distante una decina di chilometri appena, ho deciso per una sosta ed un rabbocco di benzina. Greta è una signorina dal vitino di vespa e il serbatoio non molto capiente, i cui appetiti vanno soddisfatti all’incirca ogni duecento chilometri se non si vuole essere mollati lì sulla strada.

Quella distanza non l’avevo macinata neanche lontanamente dalla partenza del mattino, ma facendo nuovamente il pieno mi sarei assicurato la scalata in totale serenità dei passi che avevo davanti, senza l’ansia di tenere d’occhio il contachilometri e dovermi guardare in giro in cerca di un benzinaio. Ad essere ottimisti, a quel modo sarei anche potuto arrivare a Dornbirn, la destinazione del giorno.

Mi sono fermato su un tratto di strada rettilineo e più trafficato di quanto la mattina non mi avesse abituato. Sotto un’ampia tettoia gialla e nera, un gruppo di motociclisti tedeschi aveva avuto la mia stessa idea e si assiepava alle pompe aspettando il proprio turno.

In realtà non tutti si stavano comportando in maniera appropriata. Qualcuno (probabilmente italiani di seconda generazione) aveva aggirato la fila, composta anche di auto, affiancandosi ai compagni di viaggio, suscitando non pochi malumori da parte di una signora del posto che aveva iniziato ad imbastire una filippica su quanto fossero prepotenti i tedeschi. «Del resto» diceva, «guarda cosa han fatto in guerra». È incredibile come certe dinamiche si presentino uguali in tutto il mondo: per ogni turista che si comporta da stronzo c’è sempre qualcuno che gli tiene testa con le cazzate che gli escono di bocca.

«Same tank» si era giustificato il motociclista salterino, che magari non avrà capito le parole della signora ma i gesti scocciati sicuramente sì. Sventolando una carta di credito e avvicinandola prima alla sua moto poi a quella del compagno, comunicava che avrebbero fatto benzina per entrambi con un’unica operazione, per questo si era affiancato.

«Eh certo, tanto il mondo lo comandano sempre loro. Ma se glielo lasciamo fare…» si era lamentata inviperita la locale girandosi verso di me, alla ricerca di una spalla facile.

«Signora, a parte che i tedeschi non comandano più da quasi cent’anni, mi dica: cosa vorrebbe che facessi? Che scendessi dalla moto, gli strappassi di mano la pompa, li cospargessi di benzina e gli dessi fuoco? Testimonia lei in mio favore al processo che è stata legittima difesa?»

Naturalmente non le ho detto niente di tutto questo. Mi è bastato alzare mezzo sopracciglio per farle capire che l’ultima cosa di cui avevo voglia quella mattina era cimentarmi in un duello al primo sangue tra la pompa numero 7 e la pompa numero 8 per difendere l’onore del ligio popolo italico.

Con un cenno del capo le ho fatto notare invece che se avesse smesso di perdere tempo con me avrebbe potuto approfittare di una postazione libera.

E così la signora ha fatto. Tutti ci siamo riempiti il serbatoio e nessuno si è fatto male.

La ferita di guerra non me la sono procurata combattendo contro i tedeschi, è che mi faceva piacere raccontarvi il contesto. Più banalmente, dopo aver pagato ho chiesto al gestore di poter usare il bagno sul retro, e una volta uscito dal cesso sempre con il casco aperto in testa ho preso una tuonata contro l’asse che reggeva una tenda, picchiando con la mentoniera alzata. La tenda si è arrotolata su sé stessa producendo uno schiocco sonoro, io sono rimbalzato all’indietro producendo fantasiosi improperi e tutti si sono voltati a guardare me producendo un silenzio carico di commiserazione. Così mi sono procurato la ferita sul casco.

Resta inteso che se qualcuno me lo chiederà racconterò di essere stato attaccato da un gang a Compton, e di essermi difeso con le unghie e con i denti.

Siamo ripartiti più o meno all’unisono, io restandomene leggermente indietro per evitare l’effetto Hell’s Angels, maledicendo la mia vescica debole che non mi aveva permesso di andare via prima di tutti gli altri, costringendomi ora ad una carovana che avrebbe ucciso ogni poesia.

Poi gli Hell’s Angels hanno svoltato in massa a sinistra verso il Passo Spluga. Ed io a destra, solo, verso il confine ed il Maloja.

Serie: Il solo modo che conosco


Avete messo Mi Piace3 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Mi sono resa conto leggendo questo episodio di essere vittima della sindrome della signora. È più forte di me, vedo un tedesco e percepisco il nemico e mo scatta il sistema di allarme. Fa piacere sapere di non essere sola 😅😅😅
    Scherzi a parte,bellissimo episodio!

  2. “Resta inteso che se qualcuno me lo chiederà racconterò di essere stato attaccato da un gang a Compton, e di essermi difeso con le unghie e con i denti.”
    E, sicuramente, la signora alla pompa di benzina, testimonierà a tuo favore.

  3. “La tenda si è arrotolata su sé stessa producendo uno schiocco sonoro, io sono rimbalzato all’indietro producendo fantasiosi improperi “
    Te l’ho detto nel commento al precedente racconto, che in questa serie c’è tanto di ‘non detto’. Vedi che avevo ragione? 😂

  4. “Quel momento è stato come affondare il primo morso in una pietanza deliziosa, esaltata da un appetito vorace; un piatto del quale non ci si stufa mai, un assaggio che sa di promesse che verranno mantenute”. Ciao Roberto, penso che poeticamente tu abbia centrato in pieno il senso di gratificazione insito in ogni motociclista degno di questo nome, cogliendo ciò lo contraddistingue rispetto un “comune turista”: ché spostarsi in moto significa vivere un panorama standoci dentro e lo si capisce solo provando. Divertente il siparietto dal benzinaio; in un certo senso, la strada rappresenta una comunità e dentro ci si può trovare davvero di tutto, e son certo che non mancheranno altre sorprese. Grazie per la nuova tappa insieme.