Tartarughe (5)

Serie: L'Urlo Muto delle Ombre


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Gastaldo si sveglia nel cuore della notte. Qualcosa si muove nei muri della sua casa...

Gastaldo si rigirava nelle lenzuola, si assopiva e risvegliava all’improvviso. Quando il sonno sembrava finalmente giunto vi fu un tonfo, e lui si destò, scattando a sedere nel letto. Nelle orecchie rimbombava ancora l’eco del rumore. Non sapeva esattamente da dove provenisse, ma gli sembrava che l’origine fosse il muro oltre il quale vi era la casa dei vicini. Confinante con la sua camera da letto c’era quella di Marco.

Pensò che il ragazzino potesse essersi svegliato, realizzando di odiare il suo vicino di casa, e avesse picchiato il muro. Restò immobile nel letto, ascoltando la notte. Decise che, se il moccioso avesse fatto altro baccano, sarebbe corso al muro, scagliando due o tre manate, giusto per mettere in chiaro le cose. 

Ascoltava, l’orecchio teso verso le mura della sua casa, senza però udire nulla. All’improvviso, sopra la sua testa ci fu uno scalpitio. Silenzio. Poi di nuovo quel rumore, come centinaia di piedini che correvano frenetici sulle punte. I passi si fermavano, poi dopo un po’ riprendevano, per poi cessare ancora. Era come se ci fosse qualcosa che non volesse essere scoperto.

Quando i passi si furono fermati per la terza volta, nell’intervallo silenzioso squillò un versetto stridulo, sommesso ma tagliente. Impossibile non riconoscerlo.

“Che diavolo!” esclamò balzando in piedi. “Ratti…”

Continuò ad ascoltare, cercando di cogliere qualche rumore che gli suggerisse che si trattasse, per esempio, di uccelli bloccati in soffitta e incapaci di trovare l’apertura da cui erano entrati. Invece, il silenzio. Gli venne in mente la bugia che aveva raccontato al padre di Marco, quella delle tartarughe divorate dai topi, e guardò il soffitto. Trovava la coincidenza piuttosto macabra. Rabbrividì.

Forse però poteva risolvere la situazione. Se non ricordava male, c’era del veleno in cucina, nella credenza sotto al lavello.

“Vi faccio vedere io” mormorò tra sé e sé, e stava per uscire dalla camera quando un coro di squittii concitati giunse da un angolo del soffitto. Lì, a un paio di metri da terra, c’era la grata del vecchio impianto di riscaldamento. I versetti arrivavano echeggiando tra le pareti di metallo del condotto, e lui colse in quelle vocine qualcosa di anomalo. Quasi diabolico.

“Vi sistemo io” ripeté.

Il veleno era ancora lì, dentro a un sacchetto di carta vicino al detersivo per piatti. Lo prese, poi riesumò una scala dal ripostiglio. Salendo le scale udì tanti passi frenetici che si univano ad altrettante vocine stridule.

Si chiese se avesse abbastanza veleno. Si bloccò, e lesse l’etichetta sulla confezione aperta. Aggrottò le sopracciglia, mentre leggeva le dosi di utilizzo, e dopo qualche calcolo a mente realizzava di poter uccidere fino a trecento ratti. Ebbe un tremito lungo tutta la spina dorsale. Si immaginò trecento topi accatastati uno sopra l’altro nelle pareti della sua casa; trecento code lunghe e viscide. Preoccupato, gettò un’altra occhiata sulla confezione del veleno, come se potesse trovarvi conforto. L’ultima riga delle istruzioni assicurava la letalità per esemplari fino a tre chili. Tre chili? Si chiese inorridito. Come doveva essere un ratto di quella stazza? Aveva avuto un gatto, ed era arrivato a pesarne cinque. Era sul punto di darsela a gambe, quando una vocina nella sua testa parlò.

Ognuno deve occuparsi delle proprie cose.

Pensò a Wilma, e a Marco; alle sue stupide tartarughe. E decise che questa volta non avrebbe lasciato perdere. Salì un gradino dopo l’altro e, arrivato all’ultimo, esitò. I passi erano diventati tonfi, e le voci stridule si erano tramutate in urla isteriche. L’aria era pregna di un tanfo simile a quello che si poteva respirare in quei pollai che non venivano puliti a modo da anni. Pensò ancora se non fosse meglio arrendersi e chiamare aiuto, ma di nuovo la vocina nella sua testa gli ricordò com’era andata le altre volte. 

Varcò la soglia della camera e puntò a destra, verso la grata. Sentì le dita delle mani afflosciarsi; la scala scivolò dalla sua presa e cadde a terra, producendo un clangore metallico. Gastaldo non si preoccupò del rumore; non pensò a Marco e ai suoi genitori che dormivano oltre la parete. La sua attenzione era rivolta ad altro.

La griglia del condotto penzolava dai cardini inferiori, cigolando e dondolando avanti e indietro. Il condotto era aperto, un gigantesco rettangolo nero dal quale sgorgava una cascata di ratti. Restò a bocca aperta, guardandoli mentre cadevano sul pavimento in un tonfo sordo, si ammucchiavano su se stessi in una pozza fatta di pelo grigio e sudicio, dalla quale spuntavano code viscide come tanti piccoli serpenti. Centinaia di occhietti inespressivi saettavano in tutte le direzioni, come occhi di un mostro.

Gastaldo stava iniziando ad arretrare, quando un ratto – uno enorme, ben più grande di un gatto, più sulle dimensioni di un piccolo segugio – emerse da quella pozza grigia, ergendosi alzò sulle zampette posteriori, lasciando quelle anteriori a penzolare fuori dal corpo grasso. Il naso appuntito scattava fiutando l’aria. I suoi occhietti guardarono in tutte le direzioni, fino a quando si bloccarono sulla cosa che stava cercando. Era lui che stava cercando.

Si guardarono negli occhi qualche istante, quelli spalancati e pieni di terrore di Gastaldo e quelli del topo, due cerchietti neri e vuoti. Guardava la bocca del topo, e gli sembrava che sorridesse. Poi quella bocca si spalancò, e dal profondo della cavità uscì un verso osceno.

La cascata di ratti era cessata; la colonia si era riversata tutta nella camera, ed era impossibile individuare anche un solo scorcio del bianco delle mattonelle. Il pavimento era coperto da una densa coltre grigiastra. L’urlo del più grande aveva attirato l’attenzione degli altri, che ora non squittivano più. Erano immobili e fissavano Gastaldo, bloccato sulla soglia della porta. Indugiavano, forse consapevoli del fatto che quell’uomo non era in grado di muovere un solo muscolo.

Quando si mossero, si mossero tutti insieme. Gastaldo non urlò. Non provò a fuggire, e non pensò nemmeno di togliersi i ratti dalle braccia, dalla schiena e dalle spalle. Stette fermo, sopportando il solletico che saliva lungo il suo corpo, si intensificava fino a diventare dolore.

E aspettò, nella mente quel sorriso sbilenco.

Serie: L'Urlo Muto delle Ombre


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Horror

Discussioni

  1. Ciao Nicola, ho letto la storia tutto in un fiato. Mi ha colpito tantissimo il modo in cui Marco si raccomanda che la spugna per pulire i gusci sia morbida: i bambini hanno bisogno di sentirsi al sicuro e spesso i grandi non ci badano prendono il loro zelo come un eccesso. Quando Gastaldo lascia morire le tartarughe ho sentito la sua colpa, ma anche la sua inettitudine, la stessa che ha fatto si che perdesse Wilma. Sei stato molto bravo a esprimere la contraddizione che Gastaldo ha in sé. È un debole, ci prova, ma non ce la fa. E ne paga le conseguenze. Ed ecco i topi.

    1. Ciao Dea, grazie per aver letto tutti e cinque i capitoli di fila! Ho provato a inserire quella contraddizione in Gastaldo dopo aver scritto il racconto per intero, e sono felice di constatare che è stata tutto sommato una buona idea 🙂

    1. Grazie Antonio per aver seguito la storia fino alla fine 🙂
      Sì, oserei dire che il racconto intero si fonda su questa scena, in fin dei conti, e non poteva esserci un finale alternativo. Leggendo i commenti anche di altri utenti, infatti, si capisce che tutti speravamo in questo esito.