
Tre Nomi scritti male
Ultimamente faccio sempre un sogno, sempre lo stesso.
Almeno credo. Sì, mi pare sia sempre lo stesso.
Il fatto è che io non sogno mai. Mai sognato. Non che ne abbia ricordo. Almeno credo.
Mi perdo nei passaggi; perché ultimamente non riesco più a dormire. No, non mi sembra proprio di riuscirci, credo di no.
Non ricordo da quant’è che non dormo più. Così non sono sicuro sia vero che stia facendo sempre lo stesso sogno, perché vedete, io non ho mai sognato, nemmeno quando prima riuscivo a dormire. E ora non dormo più. Non ultimamente. Credo.
Dovete avere pazienza, non sono più lucido come un tempo, non mi riesce di sbattere i tacchi come facevo una volta. Gli anni passano, travestiti da giorni.
Herr Josef – gli piaceva farsi chiamare Zio, Onkel Josef – da uomo di scienza avrebbe detto che se fossero sogni sempre uguali sarebbero sogni ricorrenti. Questo se Onkel Josef fosse ancora vivo. Ma Onkel Josef è morto. Ritrovato a pochi metri dalla riva con la faccia immersa sotto il pelo dell’acqua e le braccia larghe, aperte come il Cristo che guarda dall’alto tutti quelli che in fretta e furia sono andati ad abitare là, sotto di Lui.
Che brutta fine dopo una vita dedicata agli altri, alla medicina. Dannata è l’anima sua.
Ho detto dannata. No, non volevo.
Io volevo dire Pace.
Pace a.
Pace all’.
Dannata è l’anima sua.
Stupido, stupido vecchio. Non mi riesce nemmeno di dire le cose che ho in testa. Non sono più lucido come un tempo.
Eppure io l’ho visto Onkel Josef, è passato di qui poco fa. Non potete non averlo visto. Il viso gonfio, la divisa fradicia, mi guardava con la bocca spalancata e le orbite cave, profonde come la vergogna, i contorni segnati dalle orme di chi si è avvicinato così tanto da caderci dentro, senza fare più ritorno.
Dovrei uscire, schiarirmi un po’, anche se fuori è buio. Ultimamente faccio fatica a distinguere il giorno dalla notte, forse è perché non mi riesce più di dormire. Ma questo ve l’ho già detto, credo. Lo so, dovete avere pazienza. È la confusione, la stessa che mi spinge ad alzarmi da letto. La stessa che mi inganna, quando mi volto prima di uscire dalla camera, nel vedermi ancora lì, sdraiato su quel materasso lurido disseminato di aloni gialli, imbottito di fili che non paiono lana ma capelli di donne, uomini, bambini talmente sono sottili, che spuntano da ogni trama. Mi osservo e sembra che io stia guardando il soffitto, gli occhi puntati sull’intonaco che si stacca da solo, tanto è il fastidio che gli procura il mio sguardo.
Ma questo non può essere, probabile sia sempre il solito sogno che si ripete e mi fa vedere cose che non ci sono.
Ricordo il caldo opprimente nella mia stanza. Il sole a picco che cuoce le tegole scure allineate come soldati sui tetti delle case di Berchtesgaden in estate, quando le vampe che salgono dal terreno rifiutano di mollare la presa, come la mano di un guardiano sul polso di un bambino impertinente e ficcanaso.
Eppure stanotte è freddo. Sento gelare i piedi, nonostante gli stivali in pelle mi coprano fino al polpaccio. Avanzo su uno spesso strato di neve, la sento compattarsi sotto le suole ogni volta che affondano nella coltre candida che ricopre le vie male illuminate. Cionondimeno, mi volto e non ci sono impronte che seguano i miei passi. Non c’è traccia di me, cancellato dalla memoria di chi ha avuto per destino quello di imboccare la mia stessa strada.
Mi stranisce questo silenzio, solo il vento che si insinua tra i vicoli trova il modo di farsi ascoltare. È un suono familiare. Mi rimanda a spazi isolati, edifici che un tempo si ripetevano uguali, vuoti come i giorni che furono, colmi come la rassegnazione degli occhi inebetiti che allora mi fissavano ovunque.
Nessuno mi parla ora, nessuno mi saluta, nessuno ricorda il mio nome. Eppure a me sembra di conoscerli quei volti che incrocio. Forse per via del lavoro, pazienti al sanatorio; forse ci siamo già visti prima. Ma faccio una tale fatica a mettere a fuoco i ricordi. Sono come brandelli che oscillano abbandonati e lividi, in balia degli elementi come manichini, gemono come fa la corda che si consuma contro l’asse alla quale li tiene appesi.
Dev’essere gente come me, preda di un’insonnia intransigente e asfissiante come un gas, strappati dai loro letti senza nemmeno il tempo di vestirsi. Cos’altro potrebbe spiegare i loro indumenti uguali, logori pigiami, sottili nonostante il gelo, berretto, camicia ed un paio di pantaloni, le righe spesse tutte dello stesso colore indefinito.
Sembrano quasi le divise di un esercito di derelitti.
Vorrei avvicinarli, parlare con loro. Chiedere se provino le stesse cose che provo io, se la città appaia loro così differente nonostante sia sempre la stessa, ma ogni volta che poso su di loro lo sguardo o apro bocca, essi rifiutano di rivolgersi a me, voltandomi le spalle; e se tento di aggirarli, non importa quanto rapido io sia, ciò che trovo dall’altro lato di quei corpi sono una nuca ed una schiena.
Ma se non a parole, qualcosa mi dicono coi loro gesti, con le loro braccia tese e gli indici puntati di tutti, dal più vicino a me al più lontano, laggiù in fondo alla via, ai bordi della MarktPlatz.
Vogliono che guardi una grande villa, i cui contorni riesco appena ad intravedere tanto è fitta la bruma che ora domina le strade; vogliono tutti che mi diriga là.
Non c’è mai stata questa villa, non da quando ho memoria. Me ne ricorderei altrimenti. Credo.
È un edificio immenso, come hanno fatto a costruirlo qui, in mezzo a questi vicoli minuscoli?
Il suo ingresso è delimitato da un cancello in ferro battuto. Ne avrete visti tanti anche voi di cancelli come questo: neri, con le punte in cima e le inferriate larghe, di quelle che se ci metti la faccia in mezzo e spingi rischi di incastrarci la testa, senza riuscire più a tirarla fuori.
Mi avvicino con cautela, strizzo gli occhi ed oltre le sbarre vedo la figura di un cane. È sdraiato pancia a terra, scheletrico, posso contargli le costole. Respira a stento, so che non mangia né beve da giorni, e quando apre gli occhi per guardarmi, unico essere vivente disposto a farlo in tutto il creato, in lui riconosco Zohr, il cane della mia infanzia, e la mia anima avvampa infuocata come un corpo vivo gettato in un vulcano, sacrificato ad un Dio irascibile e spietato. Nei suoi occhi si cela tutto il peso del biasimo e della colpa, per averlo lasciato lì a soffrire le pene dell’inferno sino ad ora, solo e senza nutrimento, creatura che persino un’anima persa come la mia è stata in grado di amare.
Vorrei raggiungerlo ma il cancello chiuso mi separa da quel corpo ridotto a un fuscello, leggero come un drappo di stoffa rossa. Vorrei poterlo tenere tra le braccia e chiedergli scusa, promettergli che sistemerò tutto, che rimedierò ad ogni sbaglio, domandare perdono per tutto il male che gli ho fatto, per tutto il male che ho compiuto, ma non c’è redenzione per le mie colpe. Zohr ormai è morto, ha aspettato solo che tornassi per chiudere gli occhi, inspirare l’ultima boccata d’aria fredda della notte, assaporarla il più possibile e poi soffiarla via per sempre. Ed io vorrei solo poterlo stringere per una volta ancora. Ma non c’è niente che io possa fare per aprire quel cancello, nessuno ad aiutarmi.
Solo ora le persone in strada rivolgono a me la loro attenzione. Mi si assiepano intorno e mi fissano in silenzio.
Una fra loro si stacca dal gruppo e ancora con il dito mi indica qualcosa. Mi parla, per la prima volta: “Fragen Sie sie, Kapò”. “Domandi a loro”.
Il dito è puntato sul cancello, dove in ferro battuto sono scritti i nomi di chi vive nella villa, talmente in alto da dover piegare il collo per leggerli. Tre nomi di persone che non conosco, dall’ortografia sbagliata, tre nomi scritti male:
Arlbeirt Markcht Freitz.
Il cancello si apre senza rumore, e mentre ne varco la soglia e il corpo di Zohr viene portato via prima che io possa accarezzarlo, penso e ripenso a quei tre nomi. Forse qualcosa mi smuovono. Eppure io non conosco nessuno con quei nomi, non li ho mai conosciuti. Almeno non credo.
Avete messo Mi Piace11 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Scrive Giorgio Agamben che gli unici autentici testimoni dello sterminio sono coloro che non ce l’hanno fatta a sopravvivere. Credo siano costoro a popolare i sogni del protagonista. E la deformazione onirica della terribile scritta è forse l’ultima via d’uscita che egli abbia per trasformare la realtà in un incubo cercando di sopravvivere a se stesso.
Impressionante e scritto con vera maestria.
Accidenti Ernesto, un commento come il tuo non può che emozionarmi. Grazie davvero.
Bello il riferimento a quel dottore, che mori’ davvero in quel modo, e bello tutto il racconto. Di racconti sul tema se ne scrivono tantissimi, ma è il modo in cui si scrive che poi fa la differenza. In questo caso lo stato mentale del vecchio kapo è una bella trovata e le tre parole scritte male una genialata.
Grazie Francesco, sono davvero felice del tuo apprezzamento, su quelle parole ho puntato molto.
Scusa se mi ripeto, Roberto – credo di averlo gia` scritto in altri tuoi racconti -la narrazione in prosa assume molto spesso uno stile vagamente poetico, senza essere sdolcinato e soprattutto mai banale o superficiale nei contenuti. La forma semplice, senza fronzoli, del testo, cela sempre una profondita` di pensiero, una sensibilita`d’ animo e un un intento comunicativo verso il lettore che mi danno l’ idea di una luce interiore radiosa che guida la tua scrittura.
Che bel complimento Maria Luisa, sarà linfa per andare avanti a scrivere.
La potenza delle tue parole accende nella mente delle immagini vivide e talmente dettagliate che mi tocca andare a comprare una testa 8K OLED… Anche perché arrivato all’intonaco che si stacca da solo per il fastidio dello sguardo, mi si è aperto un pop-up con un messaggio d’errore di incompatibilità con la mia scheda video, oramai datata…
Roberto, posso solo dirti che ogni tua parola ha un preciso sapore, una temperatura e una sapidità unica e, messe tutte assieme, saziano e soddisfano.
Grazie davvero Emiliano, il tuo commento e i tuoi apprezzamenti sono da soli un racconto.
Quello che mi piace di te è la capacità essenziale di narrare per immagini senza fronzoli o inutili giri di parole, e l’attenzione particolare che dedichi al lettore. Si ha l’impressione di essere presi per mano e guidati fino al cuore stesso della storia e della scrittura. E anche l’argomento più doloroso e scomdo da trattare diventa poesia.
Complimenti davvero.
Di tutte le bellissime parole che mi hai dedicato, la parte che mi ha colpito di più è il riconoscimento dell’impegno che metto nei confronti del lettore. Posso dire di sì, quello non manca mai, c’è sempre, in ogni cosa che scrivo, è la benzina che fa funzionare il mio motore. Grazie per averlo sottolineato.
Onestamente, faccio difficoltà a commentare, perché questo è uno di quei casi in cui non bisogna ostentare un’opinione o un’osservazione, ma bisogna solo assaporare il testo fino in fondo. Fino alla fine. E, poi, lasciarsi pervadere da quel mielato sapore che permane in bocca.
Bellissima lettura!
Trovo la stessa difficoltà nel saper trovare le parole per ringraziarti 🙏🏻
Un racconto di una potenza incredibile, un tema scomodo da trattare, contestualizzato alla perfezione, una prosa praticamente perfetta, come ci hai abituati. Credo di aver fatto veramente ben poco, se non leggerlo in anteprima e dirti ‘di pancia’ quello che ne pensavo. L’inchino è per te e per il valore aggiunto che i tuoi racconti danno a questa piattaforma unica.
🙏
Evito di dare un giudizio sulla profondità e bellezza del pezzo perchè è oggettivo. Quello che apprezzo di più nel tuo stile è la capacità di trasmettere messaggio e significato senza didascalie, spiegare senza dare spiegazioni, in maniera indiretta alla fine dei tuoi racconti arrivi dritto al punto. Bravo!
Grazie Federico, un complimento che mi onora.
Qui è quando uno scribacchino dilettante come me apre gli occhi, capisce, si misura e posa la penna.
Complimenti, se posso permettermi almeno questi.
🙇🙇
Grazie Giancarlo, darsi forza a vicenda porta sempre da qualche parte.
l’ho letto tre volte e non ho ancora finito. Questa è proprio letteratura, Roberto: e Cristiana, naturalmente. Non c’è da spenderci troppe parole di commento, perché un lavoro come questo chiede silenzio soprattutto.
Un colpo di genio l’iscrizione “Arlbeirt Markcht Freitz” che personifica il destino in una sovrabbondanza di lettere nelle quali si legge il testo originario, che bisogna ripetere come uno scuro esorcismo o meglio, come una sacra maledizione.
Un abbraccio e grazie, grazie davvero.
Grazie per questo apprezzamento Francesca, mi migliora la giornata.
Stavo facendo un nome e, memore di recente errore, ometto. Comunque maledetta sia l’anima di Onkel Josef e pure quella del Kapò e benedetta la tua mano, Roberto, che lo condanna ad eterna confusione. Particolarmente apprezzato, da me, il raffronto tra l’amore per il cane e l’indifferenza per il genere umano. Un abbraccio!
Grazie Giuseppe, e grazie per avere notato quel particolare, apprezzamento ricambiato!
Un grazie senza eguali a @cristiana per l’aiuto che mi ha dato ed il tempo che ha dedicato a questo scritto.