
Un fato che si chiama follia
«Uto morì di venerdì 17, era settembre» disse Jorge «ancora non albeggiava, guardò fuori dalla trincea con la cicca in bocca: e lo presero in fronte. Un tiro fortunato, disse un commilitone. Io gli ero affezionato, ero amico di suo padre.»
Riavviò la pipa, fece un paio di boccate, poi continuò: «Quasi non udimmo lo sparo, ché l’altra trincea non era poi così vicina, e rispetto a noi era sottovento; Uto era tornato al coperto cadendo all’indietro, con la sigaretta che ancora fumava incollata alle labbra».
Lasciò che il tabacco aromatico addolcisse il momento, dando un altro paio di tirate. «Si era suicidato, dissero.»
Il giovane lo ascoltava, in silenzio perfetto, grato per il profumo dolciastro della pipa e per il calore che proveniva dal camino.
«Ma io sapevo che non era così» proseguì il vecchio Jorge «conoscevo bene quell’uomo… quel ragazzo. Lui non era tipo da suicidio: da scommesse, piuttosto. Troppe volte gli avevo sentito dire che doveva piantarla lì; che prima o poi avrebbe smesso con le scommesse e quella… be’, indubbiamente fu l’ultima.»
«Ma… come andò a finire?»
«Quel che accadde fu che la giovane vedova ricevette molto denaro, quale pagamento delle quote da parte di parecchi soldati e ufficiali del reggimento. Perché Uto puntava su tutto, ma solo con gente di parola.»
«Una pazzia.» Esclamò Lucas.
La finestra distillava l’ultimo residuo di un giorno ormai sopito, come la brace nella pipa di nonno Jorge. A illuminare la conversazione era rimasta la fiamma del camino, trasfigurando i volti, consacrandola come una cosa da grandi. Come un dialogo in cui il nipote chiede al nonno come è morto il padre; quando la guerra era finita da quindici anni, come terminata era pure la sua adolescenza.
Non lo sapeva, gli aveva risposto Jorge. Quando lui era partito aveva quarantasei anni, era ufficiale, suo figlio, il padre di Lucas ne aveva diciannove, volontario. Gli spiegò che aveva appena ingravidato sua madre, e che non seppe mai che avrebbe avuto un erede. Ma gli aveva anche raccontato della morte di quel ragazzo, Uto, perché in quella guerra una morte valeva l’altra; si moriva così, senza un vero motivo, se non la follia.
«E perché mai un uomo dovrebbe partire volontario per la guerra?» Domandò Jorge, più tra sé che rivolto al nipote. «La guerra è una cosa stupida: non è mai giusta, eppure questo non ha impedito agli uomini di ogni epoca di praticarla.»
«Quindi anche i volontari dovrebbero esserlo?» chiese il nipote «stupidi intendo dire, perché la mala sorte vanno a cercarsela? Che significato avrebbe esprimere una volontà, se questo significa solamente condividere un intento dissennato?»
«Non ho una risposta per quel che chiedi, ma posso dire di aver conosciuto persone che ci credevano davvero in quel che stavano facendo. Questo non li preservò dallo sconforto o dalla disperazione, certo che no. Quando partirono, la loro intenzione non era certo quella di cercare la morte o la sofferenza, ma quando le incontrarono, queste li cambiarono, benché, almeno all’inizio parevano ancora convinti di fare una cosa giusta, persuasi che persino la morte gli avrebbe reso onore. Anche se non saprei dire quale onore possa esserci nel crepare aggrovigliati a un filo spinato.»
«Io credo» insisté il giovane «che potessero nutrire l’idea che sarebbero morti per la propria patria.»
«Già, la patria…» il vecchio si fermò un istante per un lungo respiro, «come dicevo, qualcheduno dentro ce l’ha, questa cosa della patria, e ci crede come si ascolta la propria madre quando ci parla, o quando invoca il nostro aiuto.»
«E voi, nonno, ci avete mai creduto?»
«Quando avevo la tua età, forse. Poi ho capito che la patria non è come nostra madre; perché basta anche uno solo dei suoi figli che non lo creda e non è più vero per nessuno. E c’è sempre qualcuno che non ci crede. Per lo più sono quelli che ti mandano in guerra».
Nonno Jorge sbatté la pipa, svuotandola sul camino, mostrando così che il tempo era finito, la conversazione col nipote compiuta. Pensò che ormai era un uomo e che, a modo suo, gli aveva raccontato la verità.
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Dovrebbero essercene di più come nonno Jorge. Non si muore per la patria soprattutto quando è quella stessa patria che ti manda a morire, e lei mica ci morirebbe, per te. Ma non si muore neppure per scommessa, vinta bene che sia. Non si muore e basta, è una follia. Ed è proprio il concetto di follia, il significato del termine, ad avermi colpita in questo pezzo. Perché ho paragonato le volte in cui un uomo rischia o perde la vita, le condizioni più assurde. E la guerra di tutte mi è apparsa come la peggiore. Spero che il nipote abbia imparato la lezione.
Bellissimo racconto. Ci stai abituando davvero bene.
Non sono sicuro di ciò che volessi dire scrivendo queste righe, forse solo urlare un “basta!” ché sono un po’ stufo delle guerre, e di come non si abbia più nemmeno il coraggio di chiamarle col loro nome… Perdonami, Irene, non vorrei assillarti con le mie paturnie… ma anzi, grazie per aver dedicato tempo e attenzione a questo raccontino. Alla prossima
Sai Paolo, sicuro o no, credo che la stanchezza che senti fosse anche in un certo modo la mia, e leggendoti mi ci sono ritrovata e ho potuto esternare la mia. Quindi, grazie di nuovo, perché è anche a questo che serve la scrittura.
Il ragazzo si rivolge al nonno dandogli del “voi” e i nomi sono spagnoli; quindi, credo tu faccia riferimento alla guerra civile spagnola. Comunque, una guerra vale l’altra e si può capire il nonno che non crede più nella patria. La scommessa di restare in vita non vale solo per Uto, ma per tutti i combattenti di tutte le guerre.
Ciao Concetta, di proposito ho mischiato un po’ le carte perché, come noti tu giustamente, nella narrazione non ha molta importanza di quale guerra si tratti, ma piuttosto ciò che le accomuna, in particolare lo scarso valora della vita umana. Grazie per aver letto
Morire per la patria non ha senso se la patria si identifica con un regime, se la patria è una repubblica democratica difendere i valori su cui si fonda è lodevole. “La finestra distillava l’ultimo residuo di un giorno ormai sopito” è una frase che mi ha colpito in particolare. Mi è piaciuto il disincanto del nonno nel raccontare l’assurdità di quella guerra che fa a pugni con la propaganda patriottica e militarista del primo novecento.
Grazie Fabius per il tuo tempo. Sono d’accordo, difendere gli ideali in cui si crede non solamente è nobile, ma forse ci distingue rispetto a un gregge di pecore… a presto, ciao
Ciao Paolo, se dovessero chiedermi che cosa mi sia piaciuto di più nel tuo racconto risponderei che è pervaso da un’alchimia inspiegabile che mi ha accompagnato riga per riga, fino alla fine. L’incipit poi è potentissimo. Grazie per avercelo fatto leggere.
Grazie a te, Roberto, per aver letto e per il commento che francamente rinnova la mia voglia di scrivere storie. Ciao, a presto
Bene, letto on vivo interesse e che dire, sei bravo con questo tipo di storie e lo saresti ancor più se tu eliminassi gerundi e avverbi di modo in mente… oltre a quei fastidiosi dialog tag, cioè i disse i rispose i domandò, sono inutili e ti faccio un esempio pratico per comprendere al meglio: Alla battuta di dialogo si aggancia (si “tagga”, per usare un neologismo terrificante) una doppia qualificazione, per precisare chi parla (se non è ovvio) e soprattutto per dare il tono della battuta (se non è scontato dal contenuto della battuta stessa).
Attenzione, quindi, a non cadere in banalità imbarazzanti.
«Mi sto allenando a scrivere,» dice Daniela.
Sì, lo ha detto, e tutti abbiamo capito che lo ha detto nell’istante stesso in cui abbiamo letto la battuta: la semplice lettura della battuta ci ha già informato di per sé che Daniela ha detto “Mi sto allenando a scrivere”. Che bisogno c’è di sottolinearlo, di ribadirlo? Perché occupare spazio nella pagina con un parola (il disse) assolutamente inutile? E poi non senti come quel disse fa molto Faraone dell’antico Egitto? “Uccidete il prigioniero, ho detto”. Buffo, non trovi?
Dovresti a questo punto percepire da solo anche la goffaggine di cose di questo tipo.
«Imparerò mai a scrivere i dialoghi?» domandò Daniela.
«Sei senza speranza,» le rispose Fabiola.
C’è davvero bisogno di scrivere domandò, se la battuta è già una domanda con tanto di punto interrogativo, e precisare rispose, se si sta rispondendo proprio a quella domanda?
Il tag è inutile, se non qualifica l’intonazione della battuta, e la pagina è uno spazio troppo ristretto (e prezioso) per riempirlo con cose inutili. Evita i disse, i domandò, i rispose, e tutto ciò che non concorre a dare un tono a ciò che si legge.
«Ne sono convinto,» affermò Andrea.
«Sono d’accordo con te,» convenne Luca.
«Mi sembra una cazzata,» ribatté Paolo.
«Maledizione!» imprecò Antonio.
Cosa significano le parole affermò, convenne, ribatté, imprecò? In che modo ci aiutano a dare un’intonazione a ciò che leggiamo? E poi non vedi che il contenuto stesso della battuta esprime già un’asserzione (nel primo caso) un assenso (nel secondo) un dissenso (nel terzo) e un’imprecazione (nel quarto)? Perché ribadire l’ovvio? Perché occupare spazio inutilmente?
Altri tag inutili sono replicare, sottolineare, concludere, e lascio a te – per esercizio – il completamento della lista, o meglio ancora lo sviluppo della sensibilità necessaria a ragionare senza sovrastrutture (giacché la lista dei tag molesti è infinita).
Condizione necessaria per la legittimità di un tag è l’aggiunta di un’informazione utile per colorare la battuta: sussurrare, urlare, piagnucolare, borbottare, bisbigliare, biascicare, mormorare, sono esempi di tag potenzialmente legittimi; sono leciti anche i tag del tipo abbaiare, sibilare, cinguettare, gracchiare che sono versi di animali e non corrispondono ovviamente all’effettivo tono di voce di un personaggio, ma ne rappresentano la soggettivazione psicologica messa in atto dal “Punto di Vista”
Attenzione, però: la condizione è necessaria, ma non sufficiente. Anche un tag di per sé legittimo può diventare superfluo, se non fa altro che confermare ciò che si era già capito dalla lettura della battuta.
Ciao Silvio, grazie per aver letto e per la notazione sui dialogue tag. In tutta franchezza, non mi pareva di averne abusato… però, in effetti, ce ne sono un paio che potrebbero allegramente essere elisi. A essere onesti, mi è pure scappato un punto fuori dalla chiusura delle caporali… E tu pensa che questo è il brano che ho proposto per diventare utente fidato… devono essere di manica larga! 🙂 Scherzi a parte, sono d’accordo con te, e benché limare certi difetti non sia facile, ci lavorerò. Alla prossima
Come ci lavoro io da anni e come te dico che non è facile affatto. Pur dopo aver letto il tuo apprezzamento, ti chiedo scusa lo stesso… i miei sono consigli – li stessi che sono stati dati a me dalle CE a cui ho inviato il mio lavoro – e quindi spero di non averti arrecato fastidio – come lo hanno dato a me loro quando mi hanno ripreso sui gerundi, gli avverbi di modo in mente e i dialog tag… oltre alla D eufonica dove non ci va e i dialoghi telefonati… cioè accennare prima quello che si sta per dire e infine sulle ripetizioni. Detto, questo, ti auguro una buona serata e a risentirci nei commenti alle nostre storie, sempre se ti va, s’intende. 🙂
“Il giovane lo ascoltava, in silenzio perfetto, grato per il profumo dolciastro della pipa e per il calore che proveniva dal camino.”
Che bella immagine, avrei voluto essere lì anche io. Da giovane fumavo la pipa e quindi mi ha riportato al passato. Non dumo più dal 2012 e quindi un po’ di nostalgia mi ha assalito. 🙂
Già il fatto che sia un racconto di guerra basta a permeare il racconto di una certa atmosfera cupa e angosciosa. Il mistero che aleggia attorno al soldato caduto rende il tutto ancora più coinvolgente, così come funziona benissimo il finale, con il ragionamento sul significato dell’impegno per la patria. E’ stato un piacere leggerti 😉
Grazie a te per aver letto, Nicola
La disillusione di nonno Jorge nei confronti della patria e forse della vita stessa.
Fa pensare…
Grazie Antonio per aver letto, a presto
“E c’è sempre qualcuno che non ci crede. Per lo più sono quelli che ti mandano in guerra”
Vero, bel racconto
Grazie Domenico per il tuo tempo