Un figlio e il suo Papi

Serie: L'Adelina


La scuola era finita da una settimana. Come al solito non aveva più contatti con nessuno dei suoi compagni.

Quella mattina la mamma si era fermata per strada a fare colazione, mentre lo accompagnava dai nonni. La voce girava tra i tavoli, in tutti i macabri dettagli.

L’assassino le aveva tagliato la gola, e aveva abbandonato il corpo in mezzo alla campagna. L’aveva trovato un tizio che portava il cane a passeggio, la mattina presto. Doveva essere rimasto lì tutta la notte, ma non più a lungo, perché il tizio aveva detto che passava da lì tutte le mattine, e non aveva mai visto niente del genere in vita sua…

“Pensi, pensi che spavento, poveretto!”

Proprio quel pomeriggio, c’era stato il litigio che aveva spinto la sua estate su quel binario imprevisto.

Era successo che la nonna avrebbe dovuto ricoverarsi per una serie di esami, e il nonno aveva deciso che sarebbe andato con lei. Dato che l’ospedale era in città, la scelta più ovvia era stata prendere una stanza in albergo.

A Fausto non aveva pensato nessuno. La mamma si era infuriata. Aveva urlato al telefono con il nonno, cosa che non aveva mai fatto prima.

Era stata una reazione un po’ esagerata, secondo lui. Ma sapeva che la mamma era molto sotto pressione, in quel periodo. Alla fine, il nonno aveva sbraitato che non aveva finito coi suoi, di figli, per cominciare con quelli degli altri; la mamma gli aveva gridato, sull’orlo delle lacrime, che questo erano le famiglie, se ancora non lo sapeva.

La litigata era sfociata in un gran scambio di insulti; e Fausto, non sapendo se mai sarebbe tornato a casa dei nonni, aveva preparato, insieme al solito zaino, anche una valigiona grossa come lui, con tutto quello che gli poteva servire per il resto dell’estate.

“Se ti manca qualcosa, o ti occorre altro, dimmelo, quando ci sentiamo al telefono, che te lo porto quando passo a trovarti.”

Era abbastanza strano, ma anche divertente.

Papi non aveva ancora sistemato le stanze da letto: erano accampati sui materassi, nella grande stanza al pianoterra, che faceva da salone e insieme da cucina. Era la stanza con il grande camino in pietra, la stessa che, col passare del tempo, era diventata la sua preferita; anche ora, che la sua stanza era pronta da un pezzo.

Lavoravano quasi tutto il giorno, dalla mattina presto fino alle quattro del pomeriggio, con qualche sosta per mangiare. Poi si lavavano, si cambiavano i vestiti e restavano fuori, sull’aia, immersi nel canto dei grilli, a chiacchierare, a guardare il cielo… Papi conosceva i nomi delle costellazioni, e certe volte gli raccontava le leggende legate a questo o a quel gruppo in particolare.

Ma le storie che Fausto preferiva erano quelle sulla sua giovinezza; anche se un pochino le temeva. Gli capitava spesso di fare il confronto.

Papi era stato uno di quei piccoli leader che trascinano tutti in giochi e scorribande, non si perdeva mai una sassaiola, inventava battute di spirito che facevano ridere tutti… In altre parole: il suo esatto opposto.

La cosa che Fausto temeva di più era che Papi se ne accorgesse. Che una sera, alla fine di una storiella divertente, si voltasse a guardarlo fisso.

“Che diavolo ci fai qui, ciccione? Non sei mica mio figlio, non è possibile…”

Ma Papi non sembrava consapevole di quanto fossero diversi; e la verità non aveva nessuna importanza, finché durava quella grazia.

Anzi, tutto l’opposto: Papi non faceva che notare somiglianze tra di loro.

Il modo come Fausto impugnava il martello e lo picchiava sui chiodi, ad esempio. Come si smarriva a fissare l’oscurità della campagna, al di là della linea di luce delle lampade esterne.

A lui non sarebbe mai passato per la testa che persino quelle piccolezze potessero veicolare una somiglianza.

Le giornate estive ora piene zeppe di cose da fare e da sistemare, di soluzioni da inventare, e diventarono di colpo troppo brevi. Per la prima volta, Fausto si trovava a condividere con i compagni di scuola il desiderio che l’estate durasse per sempre.

Si somigliavano anche abbastanza tutte, in realtà; ma non era quello, il punto.

Il punto era svegliarsi con la prima luce che filtrava attraverso le imposte ancora chiuse del salone, col profumo del caffè che Papi stava preparando, e quell’aspettativa di felicità in fondo alla pancia. Quando si presentava nella zona cucina, Papi aveva già messo in tavola la colazione e due tazze.

Gli strizzava sempre l’occhio, mentre aggiungeva anche al suo latte qualche goccia di caffè. Era una specie di rito. Papi diceva che un uomo non ce la fa, la mattina, senza il suo caffè.

Era come ammettere che lo riteneva un uomo, proprio come lui; ma comunque quella strizzatina d’occhio significava tienitelo per te.

Fausto avrebbe voluto ricambiare la strizzata d’occhio, ma non ne aveva il coraggio: era una cosa un po’ troppo figa, per lui.

Dopo il rito del caffè, di solito cominciavano i lavori. Non parlavano molto, ma a Fausto non importava. Ci sarebbe stato tempo, di chiacchierare. La sera, forse Papi gli avrebbe indicato di nuovo lo spazio per le galline, e avrebbe fatto quel gesto particolare, con le braccia allargate, ad indicare che ne voleva di grasse e felici.

“Le uova sono buone se le galline sono felici.”

Fausto avrebbe voluto un cane. Una volta gli era sfuggito, e Papi l’aveva fissato in modo un po’ strano.

“Ma come, un cane? E quando torni a casa, dove lo metti?”

Cavolo. Se n’era completamente scordato.

Avrebbe dovuto tornare a casa, alla fine dell’estate.

Per un attimo, aveva sentito come un grosso grumo di pianto che gli saliva nella gola. Voleva restare, voleva che l’estate durasse per sempre.

Papi non aveva detto niente per un po’; poi, come se sapesse esattamente cosa gli passava per la testa, aveva concluso:

“Qua farà freddo, con la nebbia e il resto… Meglio godersela d’estate, questa casa, tipo casa-vacanze, che ne dici?”

Fausto si era un po’ rincuorato, soprattutto perché Papi non sembrava aver dato molto peso ai suoi occhi pieni di lacrime. Gli venne in mente una battuta, sì, era proprio una battuta!

Fausto non faceva mai battute. Quelle poche volte che ci aveva provato, non aveva riso nessuno; così aveva smesso, semplicemente.

Per questo motivo, la voce gli venne fuori un pochino incerta, un pochino fragile, mentre diceva:

“Papi, ma le case-vacanza di solito non sono già pronte?”

La risata di Papi, fragorosa, la pacca sulla schiena che ricevette in cambio, lo fecero sentire sollevato e orgoglioso di se stesso.

Ok, allora. Non avrebbe avuto un cane.

Ma ci fu comunque quel tardo pomeriggio in cui andarono a fare il bagno al fiume.

Papi aveva appena finito di dare la seconda mano di pittura in una delle stanze al piano di sopra, mentre Fausto aveva ricevuto l’incarico di girare per casa, con una grossa torcia elettrica in mano, e di individuare tutti quei pertugi che avrebbero potuto nascondere tane di topolini o di altri animali.

Non gli importava dei topolini, li trovava teneri. Ma l’idea di aver dormito, in perfetta innocenza, in mezzo a ragni potenzialmente assassini gli aveva provocato un brivido segreto.

Naturalmente non aveva detto niente; tuttavia stava svolgendo il suo compito con cura particolare, quando Papi tornò di sotto.

Aveva i capelli sporchi di pittura, e un asciugamano gigante buttato di traverso su una spalla.

Fausto dimenticò i ragni, proprio come se non fossero mai esistiti. Il suo terrore era tutto quanto concentrato sull’asciugamano.

Papi fischiettava. Andò in cucina, dove si mise a preparare dei panini. Fausto iniziò a tremare.

“Che ne dici se andiamo giù al fiume? Mi hanno parlato di un posto dove si può fare il bagno. Possiamo portarci i panini, e magari ci facciamo un tuffo, giusto per lavarci via le ragnatele…”

Fausto deglutì. Papi sembrava così entusiasta. Non poteva dirgli di no.

“Ho paura dell’acqua…” balbettò, piano.

Come mai non se n’era ricordato? Fausto forzò la memoria: non era sicuro di avergliene mai parlato. Ma non ci sono delle cose che i padri sanno e basta?

Beh, comunque era tutto finito. Ora avrebbe capito che lui non era altro che un bluff.

Fausto dovette fare uno sforzo per non socchiudere gli occhi, aspettando il colpo.

La cosa più umiliante in assoluto sarebbe stata che facesse finta di niente, mentre tutto era cambiato. Che cominciasse a guardarlo come tutti gli altri.

D’altra parte, a pensarci bene, tornare ad essere umiliato e niente affatto speciale era la punizione perfetta, per un inutile grassone come lui…

“Beh, giovanotto, e io che ci sto a fare?” disse invece Papi, con una strizzata d’occhio.

Serie: L'Adelina


Avete messo Mi Piace1 apprezzamentoPubblicato in Narrativa

Discussioni