
Un giorno
Storia di Madeleine de Valois.
I. Mattino (1520-29)
Di quand’ero bambina ricordo i vigneti inondati dal sole.
Ci andavo sempre insieme a Marguerite e a zia Marguerite. Mi ricordo bene che, finché non compii otto anni, l’omonimia di mia sorella e di mia zia mi parve un fatto inspiegabile, assai misterioso, certo estremamente significativo; è probabile che la zia se ne sia sentita chiedere la ragione tante di quelle volte da giudicarmi in cuor suo una bambina tarda, anche se non ricordo di aver mai ricevuto una risposta sgarbata da lei. Le ho voluto molto bene. Ho quest’immagine di lei con il volto bianco, incorniciato dai capelli intrecciati e scuri, un paio d’occhi fini fini, neri e sempre all’erta. Spesso scriveva, soprattutto prima di risposarsi. Lasciava che sedessi sul letto a giocare con una bambola, mentre Marguerite dormiva dietro di me. Ogni tanto si voltava dalla mia parte, ma dagli occhi capivo che non mi vedeva: frasi e parole le turbinavano in testa, e lei stava cercando il modo migliore per riordinarle. A volte si annoiava presto, e allora andavamo a fare una passeggiata.
Qualunque cosa facessimo, non mi lasciava mai da sola per più di qualche ora. Aveva troppa paura di ritrovarmi priva di sensi, sul pavimento freddo.
II. Pomeriggio (1530-35)
A dieci anni rividi mio padre. O meglio: tornai a vederlo tutti i giorni, dato che era comunque solito far visita da zia Marguerite una volta ogni mese o due. Quando vedeva Marguerite faceva le linguacce e la sollevava in alto in alto, ma quando vedeva me si comportava come se si trovasse davanti ad un’apparizione. Mi sorrideva quasi commosso e mi diceva: “Piccola mia, come stai?”, tenendomi le manine sottili nelle sue, ruvide e callose. Io non rispondevo, nonostante fossi molto contenta. Ero piuttosto timida. Allora lui alzava lo sguardo verso la zia: “Che ne pensi? Il sole le fa bene? A Parigi fa così freddo…”
A Parigi faceva freddo davvero. Mio padre mi ci portò che era ottobre, ma già l’aria mi sferzava il volto. Io dissimulavo. Non volevo farlo preoccupare. A dieci anni, però, non si è ancora imparato a fingere come si deve: mio padre non faceva che lanciarmi occhiate apprensive, e un paio di volte mi risistemò la pelliccia perché gli pareva non m’avvolgesse a sufficienza.
Mi presentò alla sua nuova consorte augurandoci di andare d’amore e d’accordo; non accadde mai. Lei mi trattò sempre con un certo distacco e io non fui disposta a volerle bene come ne avevo voluto alla zia. Non ci fu, però, alcun tipo di scontro. Semplicemente, convivemmo come due perfette estranee. Invece, trovavo simpatica la sua dama di compagnia, Anne, che aveva la lingua più sciolta del diavolo e mi insegnò a intrecciare i capelli. In un infantile istinto d’emulazione, quando ebbi undici anni presi a esaminare e ripetere quanto più fedelmente possibile ogni suo gesto, tono e movenza, guardandomi allo specchio e sentendomi una vera donna di corte. Marguerite mi osservava seduta sulla grande poltrona di velluto blu, le gambette che dondolavano sul vuoto, e si faceva delle risate grasse come polli. Non aveva tutti i torti.
La mia infanzia terminò la sera in cui scoprii mio padre insieme ad Anne, che gli stava avvinghiata con le sottane sollevate e la schiena nuda. Scappai via come se avessi visto il diavolo in persona. Non m’interessava della mia matrigna, poverina. Non m’interessava neppure di Anne, anche se da quel momento in poi smisi di imitarla. Ciò che mi colpì fu la delusione nei confronti di mio padre, colui che io ritenevo il migliore, il più nobile, il più fedele e sensibile tra tutti gli uomini sulla faccia della terra! Mi ci volle qualche giorno per tornare a guardarlo, mesi per perdonarlo di quello che percepivo come un affronto. A pensarci, sorrido di me stessa. Il tempo è il lusso più invisibile agli occhi degli uomini.
III. Sera (1536)
Quando ebbi sedici anni, un morbo mi schiacciò i polmoni e cominciai a tossire sangue. Avevo imparato a sentirlo salire. Tenevo sempre il fazzoletto a portata di mano e un sorriso disinvolto a portata di bocca. Delle volte, quando ero a letto e la tosse mi impediva di dormire sconquassandomi fin dentro le ossa, mi chiedevo perché il Signore avesse deciso di infliggermi questa punizione.
A settembre si presentò a corte con brevissimo preavviso il re di Scozia. Nei giorni che precedettero il suo arrivo, ricordo che iniziarono tutti a comportarsi come se stesse per spuntarmi una seconda testa. Mio padre fingeva una calma che non aveva. La mia matrigna mi rivolgeva occhiate strane. Anne scoppiava in un’odiosa risatina ogni volta che per caso incrociavamo gli sguardi. C’era, insomma, aria di matrimonio. Volevo essere risentita con mio padre per avermi lasciato all’oscuro di tutto, ma il morbo mi aveva resa stanca, rassegnata, e più arrendevole del solito. Mi limitai a sperare in un buon partito.
Fui accontentata. Di mio marito, dolce è l’immagine che serbo. Aveva il naso dritto e fino, i lineamenti sottili, le guance punteggiate di minuscole lentiggini. Si muoveva con l’eleganza di un reale e la disinvoltura di un ragazzo del popolo. Ne rimasi affascinata. Nel breve scambio che ebbi con lui la sera stessa del suo arrivo, mi parlò di musica, di stelle, di giovani innamorati. Mi sentii una persona diversa dalla ragazzina fragile e cagionevole che ero sempre stata. Mi sentii una persona. Mi innamorai.
Il giorno dopo, il re chiese la mia mano. Mio padre rifiutò.
Non mi aveva detto nulla perché per lui non ci sarebbe stato nessun matrimonio. L’aria gelida della Scozia mi avrebbe ghiacciato i polmoni. Mi avrebbe uccisa.
Non m’importava.
La cerimonia si tenne a Notre-Dame. I banchi erano stati addobbati con fiori candidi e profumati; drappeggi d’oro adornavano il corridoio della navata centrale. La chiesa era gremita. I vetri colorati della cattedrale non mi erano mai sembrati così belli, così pieni di luce; mi persi un attimo a rimirarli, stringendo al petto il mio bouquet di gigli bianchi, prima che mio padre mi spingesse con gentilezza verso l’altare. Il re di Scozia sollevò il velo e mi sorrise. Se si esclude la domanda di rito, non capii nemmeno una parola di ciò che disse il prete. Tutto ciò che le mie orecchie udivano era il rombare del mio stesso sangue, tutto ciò che vedevo erano le lentiggini del mio sposo.
I festeggiamenti allo Chȃteau du Louvre furono i più grandiosi a cui avessi mai assistito. Passai sere intere a ballare, in preda a una gioia furiosa per me davvero insolita, che sapeva di vino rosso, di matrimonio e di sabbia in una clessidra. Ogni giorno indossavo un nuovo abito, e così mio marito: amava il rosso e non perdeva occasione di portarlo su di sé, con grande disappunto degli alti funzionari parigini, ai quali ne era riservata l’esclusiva. Glielo feci notare una notte che eravamo in camera. Lui mi guardò con un’aria così fintamente contrita che alla fine scoppiammo a ridere entrambi. Poi mi baciò con forza. La mia vita sembrava spezzarsi tra le sue grandi mani.
IV. Notte (1537)
Mio padre mi salutò sforzandosi di mantenere la compostezza che si richiedeva al re di Francia, ma li vidi, i suoi occhi lucidi. Marguerite sciolse il suo abbraccio dopo un tempo lunghissimo. Venne a salutarmi anche zia Marguerite, che mi mise tra le mani la mia vecchia bambola di pezza e mi sorrise senza una parola. Il ricordo delle loro figure che si allontanano fino a diventare puntini mi si staglia nella mente chiaro, chiaro e misterioso come il ricamo di un arazzo.
Quando misi piede a Edimburgo, nella mia clessidra non restavano che briciole. “Tra poco arriverà l’estate,” mi diceva mio marito, “starai meglio.” Volevo credergli. Per un paio di settimane, tra maggio e giugno, il morbo parve assecondare la nostra volontà. Scrissi perfino una lettera in cui incoraggiavo mio padre a stare tranquillo, gli dicevo che i sintomi sembravano svaniti, che era tutto a posto. Non riuscii mai a leggere la risposta.
L’ultima immagine che ho è il volto di mio marito, pallido come quello di un fantasma, che mi tiene tra le sue braccia. È muto, non urla, non strepita, non chiama il mio nome. Mi guarda sgomento.
Avrei voluto sapere come andava a finire, ma sono nata con un corpo troppo fragile. A volte mi chiedo che senso abbia avuto una vita così breve. Nascere, e subito dopo morire? Come andarsene da una festa subito dopo essersi seduti al tavolo degli invitati: perché mai?
Però, penso a zia Marguerite, a Marguerite, a mio padre, a mio marito.
Penso all’amore che mi hanno donato.
Forse, è quella la risposta.
Ti piace0 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Un racconto commovente, non conoscevo Madeleine de Valois
Grazie per il commento. Ho trovato per caso la sua storia e mi ha commossa, mi è sembrata così… fragile. Non sono sicura di averle reso giustizia, ma mi fa piacere averla fatta conoscere ad altri.