
Un giorno di Novembre
Una delle cose che mi piace mentre aspetto l’autobus è guardare le altre persone. Ad esempio, oggi c’è questo signore pelato, sulla cinquantina, con occhiali dorati e una ventiquattrore marrone. È impaziente di andare a lavoro, ma l’autobus non arriva. Il signore sbuffa, si guarda intorno per vedere se anche nelle altre persone c’è il suo stesso sdegno; abbassa gli occhi ripetutamente verso l’orologio che tiene al polso, come se, guardandolo, il tempo possa scorrere più velocemente. Inizia a battere il piede per terra: l’autobus doveva passare cinque minuti fa. Di colpo, si ferma. Spalanca gli occhi e sembra che gli debbano uscire dalle orbite. Si gira lentamente e cerca una persona che gli ispiri abbastanza fiducia per porre la fatidica domanda. Non so perché, ma sceglie me e allora me lo chiede, già temendo di sapere la risposta.
«Ma oggi c’è sciopero?»
«Sì.» Gli dico e mentirei se dicessi che un po’ sono triste nel dargli questo dispiacere. Ma c’è da dire che anche la mia giornata non promette bene e mi riservo, almeno per oggi, di mettere via un po’ di empatia. Insomma, del resto i disagi dello sciopero me li becco pure io, probabilmente arriverò tardi in università. Ci sono giorni in cui svegliandoti percepisci che la giornata che ti aspetta non andrà per il verso giusto. Lo sciopero dei mezzi preannuncia che la funesta sensazione che mi accompagna da stamattina è ben fondata. Per non parlare del fatto che oggi la professoressa riconsegnerà gli esami e io non voglio vedere che voto ho preso perché poi ci saranno gli altri a chiedere “come è andata?”, “perché hai risposto così a questa domanda?”, “che media hai?”. I miei colleghi già mi danno fastidio e neanche li ho ancora visti; perciò del signore con la ventiquattrore non m’importa granché e non muovetemi alcuna critica. Essa risulterebbe solo ipocrita perché sappiamo che anche al signore di me non frega nulla. Tutti noi qui alla fermata dell’autobus ci comportiamo in modo individualista. Ognuno pensa di essere la vittima designata dall’universo, come se lo sciopero dei mezzi lo affliggesse in maniera maggiore rispetto a tutti gli altri. Che poi, pensare che lo sciopero dei mezzi sia una calamità è forse un insulto al nostro essere umani.
Alcuni intavolano una conversazione, parlando del meteo, che a quanto pare è l’argomento universalmente accettato per iniziare dialoghi tra estranei. Anche il signore con la ventiquattrore si unisce alla discussione. Parlano ma tanto appena arriverà l’autobus già si saranno dimenticati di aver interagito perché avranno fretta di andare da qualche parte. Alla fine, questo sciopero non è così male, ci permette di rallentare. Corriamo sempre, ma penso che pochi di noi sappiano dove vanno. Io non lo so dove sto andando, so solo che queste persone davanti a me parlano nel punto in cui, pochi giorni fa, vi era un piccione morto.
Il piccione morì tre settimane fa. Mi ricordo di essere arrivata alla fermata e di aver scorto l’animale senza vita, nascosto tra le foglie autunnali, che come lui, erano cadute dall’alto per giacere a terra e passare inosservate agli esseri umani. Io ho guardato il piccione per un po’ e poi ho distolto lo sguardo perché la morte non appartiene ai vivi. Il giorno dopo, il piccione era ancora lì, così come per tutta la settimana. Lo sguardo che gli riservavo diventava sempre più fugace man mano che il venerdì si avvicinava. Nel fine settimana non pensai al piccione nemmeno per un istante, e, lunedì, quando lo rividi, mi sorpresi nell’accorgermi che non gli avevo concesso nemmeno un pensiero veloce. Il mercoledì seguente notai che alcuni animali avevano iniziato a divorargli la pancia e alcune delle sue budella fuoriuscivano timidamente, quasi cercassero la libertà che il piccione non aveva mai avuto. Perché alla fine questi piccioni non sono davvero liberi, lo penso ancora oggi; poi, però, mi soffermo su queste persone che mi stanno davanti, sbuffando perché l’autobus non arriva e mi chiedo se, anche noi, in fondo, non siamo prigionieri della vita. Insomma, andiamo dietro ai voti, lasciamo che dei numeri ci definiscono. Ora, io sto aspettando l’autobus, ma anche l’esito del mio esame, ho il terrore che esso influenzerà le prossime ore e ammetto che mi sento un po’ stupida a lasciare che un misero voto possa decidere della mia felicità o tristezza.
Mentre rifletto, alcuni piccioni atterrano vicino alla fermata. Passeggiano, muovendosi sulle loro piccole gambe con passo calmo, senza aspettare un autobus che forse non arriverà mai. Sembra discutano in gruppo come queste persone davanti a me, dondolando avanti e indietro le loro buffe teste. Vorrei sapere se anche loro stanno parlando di questa leggera pioggia che ha iniziato a scendere, ma qualcosa mi suggerisce che si stanno raccontando di quanto è bello volare alti nel cielo. Li osservo beccare le molliche che uno dei bambini sta facendo cadere, mentre mangia il suo panino. Hanno imparato a trovare risorse e bellezza in ciò che noi esseri umani consideriamo scarti. All’improvviso, un ragazzino alto e smilzo sbatte forte il piede per terra, con un sorriso malizioso sulle labbra, facendo volare via i piccioni. E allora comprendo che questi animali, in realtà, sono più liberi di noi. Hanno il coraggio di andare via dai posti in cui avvertono il pericolo, mentre noi restiamo bloccati nei luoghi dove stiamo male. Il piccione morto, se ci ragioniamo, ha finito la sua vita da animale libero. Non si è mai preoccupato di un numero. Lui volava, mangiava, passeggiava per le strade con i suoi amici piccioni e poi è morto. Mica correva dietro ai voti come me o andava a lavoro come il signore dalla ventiquattrore marrone. Volava e andava dove vuole. Chissà quante persone possono dire lo stesso.
«Ecco l’autobus!» esclama una signora con due figli piccoli.
Il signore pelato batte le mani per la felicità e fa cadere la ventiquattrore. Sorrido perché è una bella metafora: la sua gioia non include il suo lavoro. Vorrei dirglielo, ma è già salito sull’autobus. È stato il primo a fiondarsi dentro. Vedete, già tutti si sono dimenticati di aver parlato e di essere stati amici per dieci minuti. Io mi siedo, non nel mio solito posto perché mi è stato soffiato proprio dal signore pelato.
Guardo fuori dal finestrino e mi spavento ad ogni fermata perché significa che l’università si fa più vicina, proprio come il mio voto. Ma poi all’improvviso penso che, a differenza del piccione, io possiedo un pensiero razionale e libero arbitrio. Posso quindi scegliere come sentirmi riguardo a un voto. Insomma, chi si è svegliato un giorno e ha detto che bisogna vergognarsi di un 18? E soprattutto, chi gli ha creduto? È stupido, a mio avviso, lasciare che queste piccolezze distruggano le nostre giornate e a volte le nostre vite. Quel piccione volava contento e ad un certo punto è morto. Anche noi possiamo morire ora, domani, nel fine settimana. Allora io vorrei morire volando contenta. Chi se ne frega di uno stupido voto e soprattutto chi se ne frega di quello che chiederanno i miei colleghi. Se vogliamo davvero definirci uomini liberi, allora dovremmo iniziare a dare peso alle cose importanti. Il signore pelato avrebbe dovuto dare più attenzioni alla moglie, a quest’ora non sarebbe divorziato; la signora con i due figli avrebbe dovuto aspettare a diventare madre perché sente di aver accelerato troppo progetti che dovevano appartenere ad un futuro più lontano. Queste cose le ho sentite mentre discutevano tutti insieme in attesa dell’autobus. Mi chiedo se lo sanno che un’estranea custodisce un frammento delle loro vite private.
Io scendo all’ultima fermata e camminando per cinque minuti mi ritrovo davanti all’università. Prometto a me stessa che non lascerò che il voto determini la mia felicità. Decido anche che alla fine delle lezioni andrò a comprarmi quella fetta di torta al cioccolato esposta nella vetrina della pasticceria qui vicino. Avevo detto che me la sarei comprata se l’esame fosse andato bene, ma adesso capisco che se volessi essere libera, dovrei mangiarla in ogni caso.
Saluto i miei colleghi, dopodiché mi siedo al mio solito posto e aspetto il mio esame.
La professoressa ci chiama in ordine alfabetico. Per fortuna il mio cognome mi permette di ricevere il mio esame abbastanza presto rispetto a un Rossi o un Serafini. Appena vengo nominata, il mio cuore inizia a battere forte. Mi avvicino con passi timidi alla cattedra, il volto bianco di paura.
Prendo il foglio in mano e subito mi precipito a vedere il voto. Ventinove. Sorrido soddisfatta: mi sono proprio meritata quella fetta di torta. Tornando al mio banco, vedo alcuni piccioni volare in stormo fuori dalla finestra.
«Che animali stupidi» penso «corrono verso il nulla.»
Mi fermo per un istante, per recuperare un ricordo che già è volato via. Chissà di cosa blateravo
stamattina…
Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Umoristico / Grottesco
Il racconto in generale mi è piaciuto, un pò ombroso e malinconico ma credo fosse proprio il climax desiderato dall’autrice (Il titolo già lo preannuncia). Personalmente ho trovato che la punteggiatura con questo eccesso di virgole rendesse un pò frammentata la lettura, facendo perdere il ritmo di questo flusso di pensieri della protagonista. In alcuni passaggi la ricerca continua di frasi a effetto porta a sottolineare alcune banalità. A mio modesto parere si sarebbero potuto descrivere meglio alcune scene o situazioni e lasciare che fossero le stesse descrizioni a farci intuire qualcosa della protagonista e dei personaggi. Evitando così di spiegare la ragione e la motivazione di ogni pensiero oppure di ogni azione. Bello il confronto tra persone e piccioni. Anche il finale mi è sembrato molto azzeccato. La protagonista mostra la stessa memoria di un piccione!
Il tuo racconto propone una riflessione che ho avuto modo di fare personalmente. Ci aggrappiamo ai nostri voti, alle cose che riteniamo “importanti” perdendo quelle che lo sono davvero: credendoci immortali. Ho sperimentato questa sensazione dopo un lutto, che si è portato via una persona giovane: quando saremo “vecchi” faremo quel viaggio… ci prenderemo più tempo per noi… e così via. Con il passare del tempo, però, si ritorna allo stato precedente dove la vita quotidiana inghiotte e così pure le cose “importanti” che non lo sono.
Mi dispiace per il lutto che hai dovuto affrontare. Pensiamo sempre che ci sarà più tempo, ma i giorni passano e noi perdiamo di vista ciò che dobbiamo invece tenere bene a mente, ma spesso lo comprendiamo tardi.
Bello questo racconto, ricco di immagini che ci identificano, direi un po’ tutti. Impegnati nella corsa della vita con mete che ci imponiamo e velocemente smontiamo. Mi incuriosisce la protagonista: tanto “blaterare” sulla metafora del piccione e della vita, per poi dimenticarsene quando non serve più. Molto bello! Brava
Grazie mille di cuore!
“Prometto a me stessa che non lascerò che il voto determini la mia felicità.”
Complimenti…
Pezzi di emozioni quotidiane raccontante con precisione e fermezza. Brava 👏
Grazie mille!