Un Mondo di Cani e Porci

Serie: Legione di Sangue: La Chiamata


Ghidon, un falegname tormentato dai dubbi, e il giovane Ugo, si uniscono ai loro compagni, artigiani e contadini, per affrontare l'esercito dei Dori. Mentre Levorio, il loro comandante, li guida all'attacco, la paura lascia spazio alla rabbia e alla disperazione. La battaglia ha inizio.

Attraverso il cannocchiale di ottone, Arles scrutava i “ribelli”. Cercava invano una spiegazione, un senso a quell’assurda situazione. Uomini dai grembiuli lerci di polvere e grasso di animale combattevano con martelletti e coltelli. Qualcuno era persino armato con delle specie di tenaglie, ma prive di lame. Come le chiamava il maniscalco? Ah, sì, pinze. Sarebbe stato l’aneddoto perfetto per un giullare, se non fosse per i loro sorrisi. Bocche aperte che mostravano i pochi denti rimasti in ghigni sanguinanti, nonostante gli arti recisi, nonostante le viscere infilzate. Uno addirittura fendeva a vuoto l’aria con una zappa, un occhio penzolante dalla faccia come un macabro ninnolo. Ad Arles risalì in gola un nodo di bile.

Nel frattempo, il Passo Pellegrino, un tempo sentiero stretto e tortuoso che si inerpicava lungo il fianco scosceso della Montagna Velata, era diventato una pista polverosa e dissestata, coperta di erbacce selvatiche. Il verde brillante era soffocato da una coltre di rosso cupo. Giubbe di cuoio consunte dei soldati dei Doria, i “suoi” soldati, avevano invaso il sentiero. I forconi, pietose armi di disperazione, si spezzavano contro gli scintillanti scudi di ferro, che avanzavano inesorabili come una marea di metallo.

“No. Questa non è una battaglia” ne concluse Arles, stringendo le labbra in una smorfia di disgusto per questa…magra offerta ai Vecchi Dei della Guerra. “È un massacro, una carneficina indegna persino dei peggiori barbari.”

E il suo destriero prediletto, Geraldo, sbuffò impaziente, quasi a condividerne lo sdegno. Il ribrezzo trovò presto sepoltura sotto la vanagloria di ammirare il proprio esercito. Regolò la messa a fuoco del cannocchiale, stringendo l’occhio destro e ruotando delicatamente l’anello zigrinato. L’immagine si fece più nitida. Si stavano disponendo in una linea curva, le estremità avanzate, formando una mezzaluna atta a stritolare il nemico. La fanteria pesante, salda al centro, resisteva all’urto disordinato – per usare un eufemismo – dei rivoltosi. Avvolti in una stretta mortale dalla fanteria leggera, senza speranza di fuga alcuna. Magnifico.

Una gelida ondata di soddisfazione avvolse Arles. La macchina bellica forgiata con anni di addestramento, di disciplina, di dolore, stava annientando quei riottosi plebei. Avevano osato alzare la testa contro di lui, contro suo padre, il Patriarca Costamorsa Antonus.

“E ora si dimenano sotto il mio stivale” pensò, un ghigno freddo e spietato gli deformava il viso.

«Mio signore, li stiamo per sbaragliare» disse uno dei cavalieri della sua guarnigione. Si chiamava Raino? No, Reinus, o forse era Romualdo?

“Ma che importa? Che non lo rammenti, sta solo a significare la sua insignificanza.”

Pertanto, Arles liquidò la questione. Limitandosi a dare un piccolo contentino per l’osservazione più ovvia al mondo. «Vedo, vedo» aggiunse, senza staccarsi dal cannocchiale.

Chiunque fosse il cavaliere, era solo l’ennesimo rampollo di una qualche famiglia vassalla, indistinguibile dal resto della cavalleria. Arles non riusciva neppure a sostenere lo sguardo di quei falsi sorrisi, inchiodati su facce insulse, pallide come la luna. Erano viziati, codardi, pavoneggiandosi in armature scintillanti, ma al minimo tintinnio del ferro tremavano come foglie. Sicuramente pregavano di tornare nelle loro dimore, lontano dal puzzo di sangue e piscio, per annegare la loro miserabile vita negli oppiacei della nullafacenza. Un moto di nausea gli attraversò lo stomaco. 

Questi erano gli uomini su cui doveva contare? Su cui doveva poggiarsi per mantenere il potere della sua famiglia? 

“La politica siede a ogni tavolo, anche a quello di un pescivendolo” gli ripeteva sempre suo padre. Una verità tanto ineluttabile quanto indigesta.

«Forse è proprio questo il problema» disse una voce sottile, un filo d’erba nel vento, ma tagliente come un coltello infido.

«Chi ha parlato?» Arles si voltò di scatto, passando in rassegna i volti dei suoi lacché. Si scambiavano sguardi incerti, le pupille dilatate dal timore. Sembravano topi sorpresi da un leone. Trattenne a stento un sorriso malevolo.

«Da questa parte.» Si fece avanti un uomo dal margine della prima fila. Il ventre così ampio che l’armatura a malapena lo conteneva. «Pietrus dei Guardifiero.» La bocca contorta in una smorfia che poteva essere uno sbadiglio o un rutto trattenuto. Le piastre di metallo gemevano sotto la sua mole. Il suo cavallo baio sbuffava nervosamente, gli occhi iniettati di sangue che riflettevano gli ultimi barlumi del crepuscolo.

Arles strinse gli occhi, infastidito. «Poco importa chi tu sia. Spiega cosa intendevi prima».

Pietrus si massaggiò il collo, le dita paffute che affondavano nella carne flaccida, e lanciò un breve sguardo agli uomini ai suoi fianchi. Le loro espressioni cupe suggerivano che non avessero gradito l’intervento. Doveva aver realizzato solo in quel momento le conseguenze del suo gesto. Aver attirato l’attenzione.

E senza il beneplacito della cerchia di vassalli.

«Allora? Parla.» Arles gli si avvicinò, faccia a faccia. Il suo caldo respiro si mescolava con l’odore di sudore e grasso che emanava dal corpulento cavaliere. Arles storse il naso, ma rimase lì. Non tanto per l’interesse di ciò che aveva da dire questo Pietrus, quanto per la curiosità di ciò che ne sarebbe conseguito.

Il grassone, senza cedere alcuna nota di paura, si fece ancor più avanti. «È troppo facile» disse infine. «Sottovalutare così le nostre forze? Sembra piuttosto che ci sia qualcos’altro sotto. Prima un loro rappresentante ha parlato con il capitano dell’avanguardia, forse dovremmo…»

«Sciochezze!» sbottò Raino-Reinus-Romualdo. «È plebaglia, feccia che sguazza nell’ignoranza come i porci che allevano.» La sua voce stridula come un’unghia su una lavagna.

Solo allora Arles si degno di cedere uno sguardo al piccolo e magro uomo. Aveva gli occhi infossati che bruciavano di un’intensità febbrile. Indossava una ricca quanto futile armatura d’argento, ma l’effetto era rovinato dalla sua postura curva e dal tremolio nervoso delle mani, che stringevano convulsamente l’elsa ingioiellata della spada. Era un concentrato di inutili chincaglierie terribilmente costose.

Pietrus si limitò a un’alzata di spalle quasi impercettibile, un gesto che nascondeva un barlume di sfida o semplice noncuranza? Comunque sia, fece arretrare il cavallo nel chiacchiericcio di assenso dei vassalli, il fragore della battaglia che si mescolava al brusio di approvazione. Che bravi, il branco faceva fronte comune per sopprimere chi osava distinguersi. E chi osava distinguersi si rintanava come un cucciolo che singhiozza. Sicuramente credevano di giocare a scacchi, e invece stavano ancora a dilettarsi con i soldatini di legno. E non se ne rendevano neppure conto.

“Cani. Ecco cosa sono. Cani.”

Arles rivolse di nuovo l’attenzione sul campo di battaglia. L’accozzaglia di “letame umano” continuava a battersi senza tregua. Incuranti della morte che ora si manifestava ai loro piedi, incuranti della morte di cui si facevano mandante. Una vista che offriva un senso di disagio, quasi di ansia che si insinuava come un tarlo. Morso, dopo morso. Finché un ronzio crescente non si propagò dalle retrovie della guarnigione, destando la collera di Arles. Strappandolo dal brontolio dei suoi pensieri. «Silenzio, cos’è tutto questo trambusto?»

«Mio signore…» Incerto e con sguardo sgomento, Raino-Reinus-Romualdo puntò il dito sulla nuvola irriverente che si rivelò in realtà una colonna di nero fumo. Si sollevava minaccioso sulla gleba patronale, oscurando i tetti spioventi delle case contadine e ignorando gli oziosi mulini a vento. Divampando da un fiore cremisi di fiamme in un puntino grigio del fiume Eania.

Il sangue defluì dal viso di Arles. «Al castello!»

Impennando Geraldo con una stretta di redini, si scagliò come una freccia seguendone la scia. Immagini frammentate gli balenavano nella mente al rimbombo di centinaia di zoccoli. L’improvvisa ribellione. La battaglia sul Sentiero Pellegrino, a limite della vallata. Le parole di Pietrus. Da quell’oceano di pensieri, una verità emerse, cristallina, tagliente come una lama intrisa dell’acre odore del fuoco. «Ci hanno raggirato!»

Arles frustò Geraldo, spronandolo a una corsa disperata. E lì, lungo l’antica via di pietra, segnata dal tempo e dalle intemperie, un’alta figura si ergeva avvolta nei brandelli di un mantello. Arles venne inondato da una scarica di rabbia improvvisa, una sensazione alienante e sconcertante. Profondamente sbagliata. Come se qualcosa stesse cercando di strapparlo dalla sua coscienza, o forse di strappare lui dal suo corpo.

«Togliti di mezzo!» disse, ma l’Alta Figura, ora vicina, parve sorda al suo comando. Il cavallo nitrì come fosse riluttante ad avanzare.

“Non ora, non davanti a loro.”

Arles serrò le mascelle, uno spasmo di ignoto terrore gli attanagliò lo stomaco, ma la vista delle fiamme che divampavano in lontananza ravvivò la sua determinazione. «Non fermatevi! Non osate!»

Nessuno si sarebbe posto tra lui e la sua famiglia. Neppure se si fosse trovato davanti a un…un abisso di luce scarlatta che pulsava minacciosa da sotto il cappuccio dell’Alta Figura, la quale, a quel punto, alzò lentamente il capo.

Serie: Legione di Sangue: La Chiamata


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