Un sabato sera qualunque
Un sabato sera di fine anni ’90, aprii la porta e mi ritrovai davanti Duccio, profumato di Vidal e vestito a festa, con le braccia incrociate, le gambe ben piantate a terra e, alle spalle, il muso della sua Alfa Romeo 75 rossa fiammante.
«Sei pronto?» latrò.
«Sono nato pronto» mentii.
«E allora gnamo, che c’è da passare a prendere quel rimbarcato di Pedro» disse montando in macchina e dando due sgassate d’impazienza.
Di malavoglia inserii l’allarme, spensi le luci di casa e mi trascinai la porta.
Pochi minuti dopo sfrecciavamo per le strade della città, illuminate dai lampioni e piene di gente che affollava i ristoranti di ogni ordine e grado.
Mi guardai nello specchietto, dove notai un’espressione più matura. Poi lanciai una rapida occhiata a Duccio che guidava come se stesse alle prese con la Parigi-Dakar. Avevamo tutti più o meno quell’età in cui non hai ancora deciso se laurearti o prolungare le vacanze a spese di mamma e papà, i quali vorrebbero cacciarti di casa a calci in culo ma sono terrorizzati che tu molli gli studi a un passo dalla tesi; e quindi pagano, borbottando, ma pagano.
Duccio strombazzò sotto casa di Pedro Aulente Dion.
Pedro si affacciò dalla finestra e ci fece cenno di pazientare.
«La solita primadonna» borbottai accendendomi una Davidoff.
Dalla finestra accanto apparve don Giuseppe, il padre di Pedro.
«Uscite anche stasera eh, brigantacci? Ma quando vi laureate? Quando vi trovate un lavoro?? Guardate che noi non siamo eterni!!»
«Buonasera anche a lei, conte Aulente Dion» lo salutammo noi non senza qualche sghignazzo.
Di nuovo in macchina tutti e tre, in direzione della discoteca, come altre mille volte.
Pedro era avvolto in un mantello.
«Ma come minchia ti sei conciato? Sembri Batman» obiettammo.
Ci spiegò che era un mantello di famiglia, che proveniva direttamente dal suo bisnonno, e che teneva più caldo dei nostri piumini da bottegai.
«Va bene, va bene» tagliammo corto Duccio ed io, ben consci che se Pedro Aulente Dion avesse riattaccato con la storia della sua nobile famiglia, che figurava nelle carte documentali sin dai tempi della terza Crociata, dopo non finiva più.
L’Alfa 75 di Duccio inchiodò davanti al solito circolino lungomare.
Come ci vide entrare, Silvano, il proprietario del circolo – e nostro sommelier personale, da dietro il bancone iniziò a prepararci i soliti giri della morte. Il giro della morte consisteva in una serie di micidiali shottini di bevande impronunciabili atte ad allietare il pre serata; e a darci quell’energia giusta per proseguire con la giusta dose di alcol nelle arterie.
Dalla radio sopra il bancone del bar, Vasco cantava:
ci vuol qualcosa per tenersi a galla sopra questa merda
sopra questa merda…
L’ultimo shottino ci bruciò nelle budella più del solito.
Ma da quanto cazzo era che uscivamo, andavamo da Silvano, e ingurgitavamo quei veleni prima di andare in discoteca?
Ah boh, almeno da quando ci eravamo iscritti all’università.
Oh-oh, ma allora si parla di sette anni. Minchia sette anni!
Quando sono trascorsi sette anni?
Questi sarebbero stati i discorsi che avremmo dovuto affrontare se fossimo stati sobri, lucidi e con un barlume di coscienza.
E invece niente, come automi decerebrati continuavamo a menare quella vita da zombie della notte.
L’Alfa di Duccio rombò di nuovo.
Un’altra mezz’ora di viaggio e finalmente torreggiavamo all’entrata della discoteca.
Ma quella sera Polpaccio, il buttafuori, ci guardò con aria compassionevole. «Ragazzi, ma siete sicuri che volete entrare in discoteca?»
«Polpaccio, ma che ti prende stasera?» replicammo scrutandoci increduli.
«Ma è pieno di ragazzini!» belò l’orchesco buttafuori mentre spostava il canapo e faceva entrare delle ragazzine truccatissime sui vent’anni.
Nonostante i saggi consigli di un buttafuori di nome Polpaccio decidemmo lo stesso a favore dell’ingresso in discoteca; anche perché non avremmo saputo che altro fare per la serata. Del resto, non facevamo altro da anni.
Una volta entrati la realtà ci aggredì all’improvviso, come un assassino nella notte.
La pista era infestata da spermatozoi che saltellavano al ritmo di One and one di Robert Miles.
Nonostante questa doccia fredda evitammo, scientemente, ciascuno lo sguardo dell’altro.
Per non pensare a quello a cui stavamo pensando.
Ci dirigemmo al bancone del bar e ordinammo tre Negroni senza ghiaccio.
Ci vuol qualcosa per tenersi a galla sopra questa merda…
sopra questa merda…
Visibilmente ubriachi ci dirigemmo barcollando verso la pista da ballo.
Decisi a scrollarci di dosso certi pensieracci che si annidavano fra i neuroni come piovre nere.
Poi una ragazzina mi urtò: «Oh, mi scusi signore» e tirò a dritto ridendo trascinata via dalle amiche.
Ci ritrovammo in mezzo alla pista circondati da ragazzini vocianti e fuori controllo.
Una smorfia comparve sui nostri volti.
Adesso ci guardavamo, tutti e tre, con insistenza.
All’improvviso il dee jay sfumò la disco music nell’inno di Mameli.
Pam parapam parapampampà!
Ma ovviamente l’inno di Mameli era tutto solo un parto della nostra mente.
Ci guardammo lo stesso atterriti.
E un pensiero finale ci ammutolì definitivamente.
Opporcamerda, ma noi dobbiamo fare ancora il militare!
https://www.youtube.com/watch?v=GENTAFIrC6o&list=RDGENTAFIrC6o&start_radio=1
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L’Alfa 75, immancabile, il Vidal, le Davidoff, l’inno di Mameli che parte all’unisono…c’è proprio tutto per tenersi “al di sopra di questa merda” come canta Vasco da dietro il bancone. (Tra l’altro, avevo scordato che c’è stato un tempo in cui la leva era obbligatoria, è stato il particolare che mi ha fatto sentire, più di tutto, il sapore di fine secolo…)
Grazie Irene. Già, la leva obbligatoria… un bel grattacapo per dei post vitelloni di provincia.
Una lettura molto piacevole (ho amato particolarmente il tizio col mantello😁)
Grazie Arianna.
Sì, il tizio col mantello N1
Hai descritto splendidamente la faticosissima fase di transizione del post Sailor, molto più sofferta di quanto, all’epoca, ci affannassimo a camuffare, combattuti tra l’angoscia per un futuro nebuloso ed un presente che vedevamo scivolare tristemente via, consapevoli che non sarebbe tornato e che quelle erano le ultime fiammate
Che te lo dico a fare…