Una gran brutta faccenda
Serie: L'Adelina
- Episodio 1: Fausto
- Episodio 2: Un figlio e il suo Papi
- Episodio 3: Il fantasma dell’Adelina
- Episodio 4: Un uomo fa quello che deve fare
- Episodio 5: Gli opportuni aggiustamenti
- Episodio 6: Una gran brutta faccenda
- Episodio 7: Una storia impossibile
- Episodio 8: Il racconto di Ljuba
- Episodio 9: Mettendo a posto i pezzi
- Episodio 10: Il cacciatore
STAGIONE 1
Poi, una mattina, alla fine di ottobre, mentre aspettavano in cortile che la bidella aprisse finalmente le porte a vetri dell’atrio, Alberto si voltò, al principio della fila, e disse che ne avevano trovata un’altra.
L’Adelina era tornata.
Per tutta la mattina, Fausto non riuscì a pensare ad altro. Aveva paura che questo costringesse gli adulti a fare un passo indietro.
‘Mi dispiace, tesoro, ma io e papà pensiamo che sia troppo pericoloso per te, alla cascina…’
Non faceva che allungare il collo verso la vetrata, per controllare se l’auto di Papi fosse già arrivata.
Fu un sollievo, all’uscita, vedere l’abituale muso sporco di fango fare capolino in mezzo al parcheggio.
“Brutta giornata?” domandò Papi, mettendo in moto e cominciando la cauta manovra di uscita.
C’erano giacche colorate che saltellavano ovunque, ripiene di bambini, alcuni dei quali così bassi che si rischiava sempre di spiaccicarli sull’asfalto.
Fausto si accomodò nel sedile, sospirando di soddisfazione.
“Molto meglio, ora.” rispose.
Quella sera, non parlarono affatto dell’Adelina.
Papi aveva preparato gli hamburger con le patatine fritte. Disse che l’estate seguente aveva intenzione di ricavare uno spazio, fuori, per piantare la verdura.
“Non sarebbe bello, mangiare la verdura fresca, invece di quella del supermercato?”
“Mamma ha i vasi con il basilico, sul balcone…”
“Ma quelli sono solo vasi!”
Sembrava quasi offeso, all’idea che Fausto non capisse la differenza. Lui si arrese, affondando la testa nel piatto: riusciva ad immaginarsi perfettamente, nella calura atroce di luglio, chino ad innaffiare stente piantine di pomodoro…
“Lo sai come si fa, almeno?”
Per un attimo Papi parve sul punto di offendersi. Ma alla fine scoppiò in un’allegra risata.
“M’informerò.”
Era un modo per dire che non ne aveva la minima idea. Tra i due pezzi di hamburger che stava masticando, Fausto si permise di ritagliare lo spazio per un ambiguo sorriso di trionfo.
Aveva appena finito di lavare i denti e si stava infilando il pigiama.
Il trambusto al piano di sotto lo colpì come al rallentatore; tuttavia qualcosa nelle sue gambe doveva aspettarselo già da un po’, perché provò quasi sollievo nello scattare verso la porta, e poi giù per le scale.
Una volta lì, però, cominciò l’incubo.
Luciano venne buttato giù dal letto nel cuore della notte da una telefonata del capitano.
“Collalto, lo so che non sei di turno, ma hanno trovato un bambino, a zonzo per la campagna. È in stato confusionale, però ripete di continuo il tuo nome. Ti dispiace venire subito in centrale, così vediamo di capirci qualcosa?”
Si era vestito in fretta e furia, era salito in macchina, e via. Il pensiero dolorosamente fisso a quel bambino grasso, che gocciolava pittura su tutto il pavimento…
Di chi altro avrebbe potuto trattarsi?
In centrale, guardò dal vetro nella stanza dove l’avevano messo: un bicchiere di cioccolata ormai fredda davanti, gli occhi perduti in una distanza incolmabile.
Diede all’agente di servizio nome e cognome del bambino, perché qualcuno potesse avvertire la madre. Solo dopo gli venne in mente.
“No, aspetta, Sermonti. Se l’hanno trovato in campagna, forse era dal padre… Sta giù, alla cascina Catrìa, sulla strada per Soraga…”
“Ma come? In mezzo al nulla?”
“Non l’avete trovato, il padre?”
Sermonti scosse piano la testa, un’espressione preoccupata. Di certo, in quel momento stava pensando ai suoi due maschietti, di sette e quattro anni.
Luciano respirò a fondo, prima di aprire la porta.
“È stata colpa mia!”
Il grido disperato di Fausto spezzò l’aria immobile della stanza in due metà. Luciano sobbalzò vistosamente: non se l’era aspettato.
Fausto era sotto shock, ma non al punto da non riconoscerlo.
Non era facile trovargli dei vestiti della misura giusta, anche se li stavano cercando. Il pigiama di flanella che indossava, sotto il giaccone d’ordinanza in cui l’aveva avvolto il collega, era fradicio per l’umidità.
Si avvicinò al tavolo, sforzandosi di sorridere, di ispirare tranquillità.
“Faustino, ma che fai? Te ne vai in giro da solo di notte?”
Fausto non parve nemmeno notare il tono amichevole. L’urgenza della rivelazione vuotava le parole fuori dalla sua bocca, come si rovescia un secchio d’acqua sporca dopo le pulizie.
“Lo sapevo, io lo sapevo! L’avevo detto, a Papi! Dovevamo raccontarti tutto, dovevamo dirti di lei…”
“Fausto… Dov’è il tuo papà?”
Fausto scoppiò a piangere. Cominciò a picchiare i pugni sul tavolo. Ad ogni botta, il bicchiere della cioccolata, intatta e ormai fredda, sobbalzava pericolosamente.
Luciano lo afferrò per le braccia, con dolcezza, ma anche fermamente.
“Fausto” ripeté, con fermezza “tuo padre: dove sta?”
“Stava proteggendo me… Per questo non è scappato… Perché un uomo fa quello che deve fare…”
Lo ripeté due, tre volte, come se lo trovasse in qualche modo confortante. Poi d’improvviso si zittì, come un pupazzetto a molla che avesse esaurito la carica.
Gli occhioni, pieni di pianto, si sgranarono ancora di più, fissandosi oltre lui, sulla parete alle sue spalle.
“Lei l’ha ucciso…”
Luciano rabbrividì.
Era il solo ad essere già stato alla cascina, perciò lo accorparono alla pattuglia che doveva recarsi là per il sopralluogo.
Si avvicinarono a sirene spente e parcheggiarono nel cortile deserto. Luciano notò subito la porta d’ingresso spalancata. Sganciarono la sicura delle pistole e si disposero a copertura l’uno dell’altro, come insegnano all’Accademia.
La lentezza del movimento, resa necessaria dalla cautela, costringeva il cervello a correre avanti, ad ipotizzare… Luciano era stanco, sconcertato.
‘Sono stato qui due volte, settimana scorsa…’
Ma non aveva notato niente di strano.
Fu il primo a varcare la porta d’ingresso. Alzò subito il braccio, per fermare gli altri.
“Rotondi, chiama la Scientifica.”
Lui e Cassaro, in fila indiana, procedettero all’interno.
“Cristo, Collalto! È un lago di sangue…”
‘Che bello, abbiamo un poeta!’
Il cervello di Luciano ridacchiò inesorabilmente. Colpa dell’effetto visivo, sicuramente. Gli pareva di stare dentro un film di Dario Argento.
Non c’era da sorprendersi che Fausto fosse ridotto in quello stato.
Aggirò la gigantesca pozza che cominciava ad impregnare il pavimento, si chinò sull’uomo disteso e cercò il battito. Impiegò parecchio, prima di rialzarsi con un cenno negativo della testa.
Era prevedibile, del resto.
“Gesù, il cervello sta quasi tutto fuori dalla testa…”
Fu l’ultimo commento degno di nota del povero Cassaro. Con la coda dell’occhio Luciano lo vide uscire di corsa. Pochi secondi più tardi, gli giunse l’inequivocabile rumore di uno stomaco che si liberava nel cortile.
Uscì per fare segno a Rotondi, che aveva ancora la radio in mano.
“L’ambulanza non serve più?”
“Li devi avvertire ugualmente, Rotondi.”
Solo all’ultimo momento si rese conto di avere usato un tono seccato, da primo della classe. Non era certo da biasimare, il povero Rotondi, se era andato in confusione. Probabilmente era la prima volta in vita sua che gli capitava una simile scena del crimine.
La sua espressione confusa la diceva lunga in merito.
Luciano addolcì il tono di voce.
“Digli pure che non c’è nessuna fretta.”
Verso le cinque del mattino, arrivò la psicologa. Ma, anche così, sciogliere la mente di Fausto dallo shock si rivelò un’impresa ardua.
Il bambino ripeteva sempre la stessa storia.
Era sceso di sotto mentre si metteva il pigiama perché aveva sentito dei forti rumori, che provenivano dall’ingresso.
A metà della scala, aveva guardato giù, e aveva assistito ad una collutazione molto violenta. Era a quel punto, probabilmente a causa dell’estrema violenza del contesto, che la psicologa temeva si fosse installato uno schermo protettivo tra la sua mente e la realtà.
Nell’attesa che qualcuno venisse a prenderlo, Luciano portò Fausto di sopra, dove abitavano le reclute che venivano da fuori: soltanto una camerata con tre letti, bagno, e una minuscola cucina attrezzata.
Uno degli agenti si offrì di andare a comprare i cornetti. La madre era risultata irreperibile: al lavoro, il capo-settore aveva rifiutato di interrompere la catena di montaggio.
Decise che ci avrebbe fatto un salto lui, alla fabbrica, prima o poi. In divisa. Un controllino.
Da mettergli paura, al bastardo.
Di sopra c’era Scianna, il quale, preventivamente avvertito via telefono interno, si era presentato alla porta in ciabatte da casa e pantaloni del pigiama con l’elastico rotto. I pantaloni gli arrivavano quasi all’inguine; ma lui sorrideva, apparentemente radioso.
Luciano fu sinceramente grato che, tra tutti i poliziotti che avrebbe potuto trovare, a Faustino toccasse proprio lui.
“Uèuè, guaglio’, benvenuto assai! Scusa se il caffè fa un poco schifo, ma non teniamo ospiti, di solito…”
Strizzò l’occhio. Fausto, quasi suo malgrado, sorrise timidamente. Luciano sentì come se trenta chili di cemento gli fossero scivolati giù dalle spalle.
Scianna blaterò tutto il tempo, mentre faceva strada verso il cucinino.
“Chiapparelli ha portato i cornetti – cornetti veri, guaglio’, mica di cartone! A proposito: lo sai come li fanno, da noi, i cornetti?”
E via discorrendo, felice, sorridente.
‘Buon Dio, questo ragazzo è una risorsa! Mi batterò per farlo promuovere generale!’
See, figurarsi! Ci aveva sul naso due fondi di bottiglia che non si capiva come avesse fatto a passare la visita.
Dieci minuti più tardi, Luciano poté lasciare Fausto in tutta sicurezza, mentre Scianna rideva e scherzava per tutti e due.
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