UNA PASSEGGIATA SUL LATO SBAGLIATO DELLA NOTTE 

Serie: Cinquanta Racconti


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: .

Milano di notte non fa rumore. Cammino in viale Brianza, un respiro lento, stanco, quasi infastidito. Le luci dei lampioni sputano giallo sulle crepe dell’asfalto, sui sacchi d’immondizia, sui corpi che cercano di non sparire. Un barbone dorme sotto una coperta che non è sua, una ragazza ha il rossetto troppo rosso. Il tram striscia sulle rotaie, frena, geme.

Mi appoggio al muro di un palazzo scrostato e mi accendo una sigaretta. Le dita tremano, ma non è emozione. Non dormo da tre notti. Tiro una boccata e la notte mi si incolla in gola.

Sotto l’insegna di un kebab aperto 24 ore, lei. Il neon lampeggia “KEB”, la parte “BAB” si è arresa. Immobile, statua senza piedistallo. Capelli biondi rovinati, vestito argento da quattro euro sulla bancarella dei pakistani, giubbotto di pelle finta che sa di tabacco e sudore. Tiene la sigaretta con un’eleganza rubata a qualcun’altra.

Angie. Angelo, anni fa. Cremona. La città se l’è presa, l’ha tritata, ora la risputa qui.

Non mi vede. Parla da sola.

«Stasera non mi va di recitare.»

Sorrido. La vita è una recita, tesoro. Fingiamo di vivere.

Un rumore rompe l’attimo: una Vespa scassata si ferma sul marciapiede. Riconosco il passeggero. Nico scende. Cappotto lungo, chitarra senza custodia sulla schiena, occhi lucidi di roba. Più morto che vivo, ma in piedi. Lo invidio. La gioventù ha la decenza di soffrire senza pudore.

«Sei sparita.»

«Tu pure.»

Le voci si mischiano al rumore della città. Li osservo da lontano, nascosto. Non sanno che li sto guardando. O forse sì, e gli va bene.

Camminano verso piazzale Loreto. Resto qualche passo indietro. A volte mi chiedo se osservo loro, o è Milano che osserva me attraverso loro.

«Hai visto Rocco?» chiede Nico.

Mi viene da ridere. Parlano di me mentre li seguo.

Angie scuote la testa. Non sa che sono vicino. Nico parla del Gilda. Dice che mi ha visto lì, a bere e prendere appunti. Vero. O almeno abbastanza vero.

Li raggiungo quando il semaforo lampeggia arancione. Lascio che la mia voce li tagli.

«Il mondo vi scivola dalle tasche.»

Si voltano. Mi guardano. Angie abbassa gli occhi. Nico mi fissa come un coltello lasciato sul tavolo: rispetto, senza paura.

«Buonasera, Rocco.»

«Serata magra?» dico.

«Dipende da cosa cerchi», risponde Nico. Vuole fare il filosofo, gli riesce a metà.

«Io non cerco», dico. «Ascolto.»

Vero e falso insieme. Cerco sempre. Storie. Ferite. Cadute eleganti.

Mi allontano. Li lascio lì, incerti, sotto il cielo che sa di pioggia e smog. So che mi seguiranno. O forse sono io a seguire loro.

Il Gilda. Locale triste con il trucco pesante. Porta anonima in via Lazzaro Palazzi. Dentro, tutto sa di lacca, gin, speranze finite. Entro. Il buttafuori mi riconosce. Mi siedo al bancone, appoggio il taccuino. Ordino whisky.

Angie e Nico arrivano dieci minuti dopo. Si siedono accanto. Lei ordina due vodka lisce. Si avvicina una drag queen, parrucca rossa, canta una canzone francese che conosco e che odio anche da sobrio. La voce è rotta, bella proprio per questo.

Li guardo. Li studio. Annoto sul quaderno: “Certi corpi non mentono nemmeno quando vogliono.”

Nico trema. Angie beve. Il mondo gira.

«Avete l’aria di chi vorrebbe essere altrove e non ci è mai stato», dico.

«E tu?» chiede Nico. «Dove vorresti essere?»

«Nel momento prima che succeda qualcosa di irreparabile.»

Silenzio. Duro come un pugno.

Angie si alza. Scappa verso il bagno. Nico la segue. Io resto. Dopo un minuto, mi alzo e vado verso l’uscita. Non per andarmene davvero. Solo per restare distante.

Uscendo penso che Milano sia come loro. Come noi. Una ferita che non guarisce mai.

Chiudo il taccuino. La notte continua.

Resto fuori dal Gilda per un bel po’. Il neon azzurro dell’insegna si riflette sulle pozzanghere e trema, come se anche lui avesse freddo. Il bicchiere di whisky è quasi vuoto. La tasca del cappotto pesa: il taccuino, le parole dei vivi, un mucchio di silenzi che non riesco a scrivere.

Quando rientro dentro, l’aria è più pesante. La musica è cambiata, un pezzo lento, elettronico, nato sicuramente da qualcuno con un cuore malato. 

Mi avvicino alla porta del bagno. È socchiusa. Da dentro non arriva rumore. Nessun pianto. Nessuna voce. Solo il ronzio del neon.

Li vedo attraverso il vetro rotto: Angie e Nico, schiena contro schiena, seduti sul pavimento. Lei tiene gli occhi chiusi, il mascara sciolto. Lui guarda il soffitto come se ci fosse un cielo che solo lui può vedere.

Non entro. Non parlo. Li lascio al loro silenzio, più vero di tutto il resto qui dentro.

Torno al bancone. La barista mi versa da bere senza che io chieda. Sa chi sono o crede di saperlo. A volte è la stessa cosa. Ed io mi siedo e aspetto.

Angie e Nico tornano. Pallidi, ma più leggeri, come se avessero vomitato la notte e ora galleggiassero. Lei ha sistemato il rossetto. Lui si è passato le mani tra i capelli, inutilmente.

«Andiamo via», dice Angie, con una voce quasi soffocata.

«Dove?» chiedo.

Lei mi guarda. Stavolta non abbassa lo sguardo. «Fuori. Basta.»

Nico sorride. «Io non ho soldi.»

«Neanche io», dice Angie.

Mi viene da ridere. Ridiamo. Perché è l’unica cosa da fare quando non hai più niente da perdere tranne te stesso.

Usciamo e Milano ci accoglie con un’alba che non ha fretta. L’aria è tagliente. I semafori lampeggiano ancora. Una ragazza scende dalla macchina di un cliente e si aggiusta la gonna. Un camion della nettezza urbana raccoglie bottiglie vuote e sogni appuntiti.

Camminiamo senza meta. Io, Angie, Nico. Tre fantasmi che si fingono vivi.

Attraversiamo corso Buenos Aires. La città è quasi muta, ma sento il battito sotto le pietre. Nico si abbottona il cappotto. Angie si infila le mani nelle tasche.

L’alba spunta dietro i palazzi che diventano prima grigi, poi rosa sporco. I tram ricominciano a ringhiare. La città torna a chiedere soldi, tempo, carne.

Angie gira la testa verso di me. «E tu, Rocco… ci scriverai sopra?»

La guardo. Prendo una boccata di fumo. «No», dico. «O forse sì. Ma non stasera.»

Nico ride. Angie sospira. Il ragazzo continua a cantare.

Milano, a quest’ora, sembra quasi una promessa. Una promessa sbagliata, ma pur sempre una promessa.

Restiamo lì. Non perché speriamo in qualcosa. Solo perché non abbiamo il coraggio di andare via.

Serie: Cinquanta Racconti


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Discussioni

  1. Dipingi uno scorcio di città, che arriva bene al cuore di chi lo conosce, mettendo in primo piano, come un regista esperto, quei colori cupi, e mescolando insieme gli odori e gli umori della notte. Lasci all’immaginazione di chi legge di disegnare le storie che stanno dietro le vite inquadrate, mentre si compie la transumanza che le conduce attraverso le rotte che a un turista sarebbero sconsigliate. È interessante la narrazione del protagonista che a tratti si fonde col panorama e a tratti se ne allontana. Grazie per la lettura

  2. Un racconto malinconici e, a tratti, tagliente. Mi fa pensare al ” al male du vivere” , o anche il “mestiere di vivere”, di Pavese: una condizione esistenziale che si affronta attraverso la sofferenza, la riflessione o la creazione artistica, per chi si limita ad osservare “Il lato sbagliato della notte”, da poeta o da narratore.

  3. Francesca dice che hai ritagliato un personaggio, io invece credo sia tu il personaggio: tu le vedi le cose, sai leggere persone e situazioni e ne scrivi, e, solo leggendoti, sembra di esserti accanto, a respirare atmosfere, a sentire il freddo delle ultime ore di buio quando ti senti perso al solo pensare a un nuovo giorno. Scrivi in maniera graffiante, ogni parola un colpo di scalpello, e non brilli di ottimismo quando descrivi i tuoi attori preferiti, gente che la vita ha piegato, disillusa e con ben poche aspettative. Mi costringi a chiedermi se l’umanità è quella vinta, che racconti tu, o quella a cui do vita io, che ha sempre possibilità di cambiare… poi penso che siano due facce della stessa medaglia e che non potrebbe esistere una se non esistesse l’altra. Bene! A parte le chiacchiere ti ribadisco che mi piace leggerti perché ciò che scrivi non mi lascia mai indifferente. Abbracci a volontà!