
Una veranda che affaccia in Australia
Quello che c’è qui è un sole differente, è oro nebulizzato e profondamente impastato nell’azzurro denso e sconfinato del cielo. E’ vivo ed è capace di toccarti come se avesse a disposizione grosse, lisce, calde, estremità animali. Vai a fare la spesa, raccogli zucchine, patate o pomodori in qualche fattoria dei dintorni, fumi una sigaretta sul terrazzino posteriore dell’ostello aspettando il tuo turno per fare la doccia e improvvisamente te lo senti addosso. Ne avverti la leggera ma infuocata pressione, ne percepisci la sconcertante natura tattile. E’ il carattere bollente del sole australiano. Un sole filtrato poco e filtrato male, un sole brillante e pericoloso, un sole a motore. Una tigre addomesticata a metà perché di più non si può.
Il Workers and Dive hostel dentro il quale occupo, in qualità di raccoglitore di pomodori datterini, il piano superiore di un letto a castello è un baraccone sgangherato e piratesco in cui polvere rossiccia, alcolici a basso costo e durissimo lavoro nei campi rappresentano gli elementi essenziali dello stile di vita comunitario e piuttosto delirante nell’orbita del quale, da ormai tre settimane, sono compreso anche io.
La veranda che sovrasta il giardino e che si affaccia, in un’esplosione di magliette colorate stese ad asciugare, sulla strada è il posto che ho scelto e che considero di mia esclusiva proprietà. Quando non lavoro e quando non dormo, se mi si cerca, nove volte su dieci, mi si può trovare qui. Sto seduto al tavolino, fumo grandi quantità di tabacco economico e parlo del più o del meno con chiunque mi capiti a tiro. Attorno a me, attorno alla mia abituale e lacrimogena stanzialità, rumorose, turbolente traiettorie internazionali si incontrano e si scontrano senza pausa illuminando e allargando sensibilmente la mia precedente concezione di mondo. Ogni tanto, oltre a fumare, a discorrere e a guardarmi in giro con aria cautamente esterrefatta, mi succede anche di mangiare qualcosa che non siano pane e formaggio o biscotti al cioccolato ma a cucinare ci pensa sempre Gido perché io e Kevin non siamo granché capaci, Leon è ripartito con il camper e Oliver, da quando abbiamo lasciato Sydney e siamo arrivati a Bundaberg, non parla più con nessuno. Nemmeno con Yuki e Kanako che sono carine, che sono giapponesi e che sono immediatamente, irresistibilmente simpatiche.
L’autore quarantaquattrenne, che ieri, in qualità di giudice-animatore in un torneo di burraco, ha fatto le tre di notte a casa di Zenno (e se questo non è un alibi allora non so che cos’altro sia), sta pensando a quale potrebbe essere la sequenza di parole più efficace per rendere reali e vivide le atmosfere e le dinamiche comunitarie di questo posto così denso, così multicolore, così peculiare e così difficilmente paragonabile a qualsiasi altra cosa.
Le quattro di mattina, gli scarponi infangati, i furgoncini scassati, la continua condivisione di spazio, tempo, oggetti e idee con tutto quello che una cosa del genere, in maniera diretta e indiretta, può comportare. Ecco, non lo so. Suonerà esagerato ma io che sono stato improvvisamente trasportato in questa babele luminosa distante tredici anni e dodicimila chilometri rispetto alla scrivania congestionata e notturna dietro cui, fino ad un secondo fa ero tranquillamente seduto, penso che in un working hostel australiano di campagna o ci sei stato e allora sai cos’è, o non ci sei stato e allora non lo sai.
In questo momento della mia vita, dentro cui l’autore, sdoppiandosi, mi ha catapultato a tradimento, ho trentuno anni e, per ragioni di natura fonetica, la materia del mio nome ha assunto una consistenza modificabile, flessibile e sorprendentemente variabile. Makala, Michelle, Micheal, Maika, Mik, Mici, Mika, Miko. Questi alcuni dei miei nuovi riferimenti. Questi i confini di un’identità che, negli ultimi quattro mesi e mezzo è stata definita e ridefinita più volte dall’ambiente mutevole e sconosciuto nel quale, dopo ventidue interminabili ore di volo, mi sono venuto a trovare.
Sto aspettando, seduto in veranda, che si liberi una delle quattro docce dell’ostello e, impastato di polvere e sudore, i capelli corti incrostati di terra, sto giocando a scacchi con un ragazzo tedesco alto e magro che si chiama Andreas. Ho i pezzi bianchi e sto perdendo perché Andreas, a differenza di me e della mia piccola guerra condotta senza strategia, gioca davvero molto bene. Davanti al mio pulsante, tragico cuore mediterraneo la sua perfetta macchina germanica avanza scivolando e ticchettando. I miei alfieri, le mie torri, i miei cavalli e i miei pedoni, vivono e muoiono alla giornata più come gladiatori attirati dalla gloria che come soldati di un qualche esercito organizzato. «Don’t do this» dice ad un certo punto Andreas sorridendo prima sopra alla scacchiera e poi direttamente in faccia a me. Io e il mio cavallo bianco già a mezz’aria, già a mezza via, guardiamo dentro i suoi azzurrissimi occhi nel tentativo di capire di che cosa, in effetti, ci stia avvertendo. «Not the horse» aggiunge Andreas, evidentemente divertito dalla mia bizzarra, inspiegabile incapacità di calcolare la dimensione dei rischi e dei pericoli contenuti all’interno di un piccolo quadrato bicolore.
Anche Andreas, entusiasta studente di cucina e turpiloquio all’italiana, sta aspettando che una delle quattro docce dell’ostello si liberi perché, esattamente come me, è impastato di polvere e sudore ed ha i capelli incrostati di terra. Nel mondo reale, fuori da questa intensa parentesi capovolta che è l’Australia vissuta con il working-holyday visa e che oggi ci vede braccianti, colleghi, coinquilini e domani chi lo sa dove saremo tutti quanti, Andreas è un giovane designer di Stoccarda che si è concesso il lusso di un anno sabbatico. Il suo inglese è eccellente e perfino Josh, che è orgogliosamente di South Hampton e che è il nostro giovane, estemporaneo e sarcastico insegnate-madrelingua ne deve ammettere, in un misto di ammirazione e fastidio, la fluente qualità.
«Checkmate» dice adesso Andreas. Il tono della sua voce è calmo e misurato. E’ il tono di voce che si potrebbe utilizzare nella certificazione di un’ovvietà, di una ripetizione ciclica che si ripresenta nuovamente lì, nel punto preciso in cui ce la si aspetta. «What are you talking about?» domando, con il mio pesante e non candeggiabile accento stereotipante. Poi guardo attentamente la scacchiera cercando vie di fuga, spazi di libertà, alternative invisibili che però, davvero, non ci sono più. Il mio re è condannato, bloccato e imprigionato per sempre nella fredda, implacabile morsa strategico-teutonica di Andreas.
«Ma vaffanculo, testa di cazzo di un tedesco», sibilo scandendo lentamente, le parole. In modo che si capiscano bene. Andreas ride, gli occhi scintillanti di infinito buonumore. Poi ripete quello che ho appena detto e agita le mani davanti alla sua faccia come pensa dovrebbe agitarle, ogni volta che apre bocca, un autentico italiano affiliato a cosa nostra.
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Bravo, Michele. Soprattutto per la trovata della meta-narrazione che caratterizza il racconto. Un esperimento ben riuscito.
Grazie Francesco! In effetti questo racconto fa parte di una cosa più ampia che funziona tutta così e che, ahimè, non sono riuscito a finire. Mi si è avvitata e l’ho lasciata perdere. L’incipit però stava abbastanza in piedi e magari, più avanti, dopo averlo riguardato, lo proporrò qui.
“«Ma vaffanculo, testa di cazzo di un tedesco», sibilo scandendo lentamente, le parole. In modo che si capiscano bene. Andreas ride, gli occhi scintillanti di infinito buonumore”
❤️
Non ne ho vinta neanche una.
Non conosco il sole australiano, ma ne ho conosciuti molti altri che mi sono sentita appiccicata addosso. Sento molto affine a me la tua narrativa perché mi dà quello che cerco, mi permette di entrarci dentro. Si sente ‘oltre’ il viaggio che hai compiuto, si sente molto di più. L’ambientazione è diversa e lo sono anche le umanità, tuttavia il tuo racconto mi ha aperto una finestra rimandandomi al romanzo di Hernán Rivera Letelier “La regina cantava rancheras” che mi sa ritornerò a leggere in questi giorni. Ancora una volta ribadisco quanto tu sia un bravissimo e ancora una volta grazie per certe finestre aperte.
Grazie a te, Cristiana, sei sempre gentilissima e incoraggiante. Viva le finestre aperte!
Bravo. Mi sono già espressa sul tuo narrare. Tutto ciò che ho trovato prima (nella serie) lo trovo anche qui. E’ un modo di raccontare preciso, che valuta il prima e il dopo di un rigo “Un sole filtrato poco e filtrato male, un sole brillante e pericoloso, un sole a motore. Una tigre addomesticata a metà”. C’è un’attitudine a “pesare” le parole e a collocarle, “scartarne altre” per centrare l’immagine che si vuol dare e il senso del discorso, senza mai dirlo, ma lasciando che sia il lettore a fare tutto questo lavoro. Questo, a mio avviso, rende raccontabile qualunque cosa. Un bel pezzo.
Grazie Bettina. Si, in effetti da qualche anno sono diventato molto più attento nelle scelte e nelle intenzioni che riguardano la mia scrittura. Da ragazzo ero più sventato, più istintivo e più immediato. Le cose cambiano. Scrivere è un viaggio.
Mi è piaciuto molto questo diario di viaggio che mette in scena un affresco realista che io stesso ho vissuto: l’esperienza del farming in Australia, il cameratismo con altri working-students, il cazzeggio puro e fantasioso che avviene nei momenti di stress. Anche la scelta del linguaggio lo trovo azzeccato, una ventata Beat fresca e dinamica che non poteva funzionare diversamente descrivendo un’esperienza del genere. Nice try.
Thanks Mate
Ciao Michele, davvero un bellissimo racconto, pieno di immagini, suoni, colori e polvere, che mi catapultà là dove non sono mai stata (chissà, anche se gli anni passano, forse non è mai troppo tardi). Apprezzo molto come hai costruito la trama e la narrazione, e l’autoritratto del protagonista e la sua l’interazione col teutonico Andreas sono deliziose. Spero che di questo racconto vorrai fare una serie.
Ciao Nyam, intanto grazie per la lettura e per il commento. Il maledetto crucco era imbattibile, per me. Sai che in effetti ci pensavo? Scrivere una serie australiana in formato libriCK non sarebbe male. Ho in cantiere un paio di racconti più lunghi ma più avanti potrei e dovrei davvero provarci. Sennò poi mi scordo troppe cose di Down Under. It’s never too late!
“E’ vivo ed è capace di toccarti come se avesse a disposizione grosse, lisce, calde, estremità animali.”
Bellissimo passaggio, bravo.