UNA VITA NELLA NEBBIA 

Non so più chi sono e solo a tratti ricordo di essere stato un uomo degno di una vita, se così si può definire. Ho persone attorno che mi mostrano affetto, eppure io non ricordo il loro amore, soprattutto quello della donna piena di rughe che mi sta accanto. Il suo volto scavato dal tempo non mi dice nulla, quello stesso tempo che, credo, abbiamo passato insieme.

Si fa chiamare Lia, dice che non è il suo vero nome, e che è un nomignolo che le ho dato io. Nulla, vuoto. La rivedo vestita da sposa come un lampo, in un tempo indefinito, poi la troppa luce mi offusca.

Passo tutto il giorno con in mano dei giochi che dovrebbero aiutare la mia memoria a rimanere nel mio cervello, che sembra avere come un cestino incorporato che mi cancella ogni mia azione all’istante. Poi, però, mi viene in mente la mia mamma e le parlo. È giovane e bella, gioco con i suoi capelli biondi. Ricordo tutto della mia infanzia, della mia giovinezza, gli scherzi che ci facevamo in caserma, perfino come sono entrato a far parte del regime di Mussolini. Insomma, il passato torna sempre con prepotenza e arroganza. Mi hanno spiegato che si chiama memoria a lungo termine, l’unica che funziona ancora. Poi c’è quella a breve termine, dove non ricordo nemmeno se il mio pasto è un pranzo o una cena.

Confondo la figura severa di mio padre con la mia che, a quanto mi dicono, è stata altrettanto autoritaria. Non sono riuscito a lasciare la vita militare sul campo di battaglia.

Ogni giorno tutti mi raccontano la stessa storia. La storia di un uomo di ottant’anni, sposato da sessanta, padre di tre figli e nonno di cinque nipoti. Non mi ricordo niente di loro.

Spesso nella mia testa vedo delle immagini: di nascite, di battesimi, gente che festeggia, bambini che corrono in campagna, cani che abbaiano… insomma, scene di vita quotidiana che mi scaldano il cuore, però che non mi appartengono.

La storia che mi raccontano è anche quella di un ragazzo che ha passato la sua giovinezza servendo il suo paese. Mi dicono che ho combattuto in una grande guerra e che noi eravamo i cattivi. Sì, io ero il cattivo.

A volte mi fanno vedere delle foto: un ragazzo con una divisa di color grigio, un fucile e un sorriso da ebete. Lo guardo e mi sta sul cazzo.

«Che cavolo hai da sorridere? Hai ucciso con quel fucile. Non c’è nulla da ridere!» gli urlo.

A quel punto, lei, la signora Lia, mi dice che il ragazzo in questione sono io. A quanto pare sono stato un soldato della Seconda Guerra Mondiale e, secondo i miei figli, mi sono guadagnato l’appellativo di eroe. Così sento crescere in me un senso di vergogna e vorrei sparire dalla faccia della terra.

Ma quale eroe? Non ricordo molto, ma i miei sogni mi parlano di un passato che non mi appartiene o, meglio, vorrei non mi appartenesse. Ogni notte rivedo lo stesso film: scene sanguinose di uomini stesi a terra e un uomo che gli punta un’arma. Poi, fortunatamente, mi sveglio, ma bastano due minuti ed è di nuovo vuoto. Tiro un respiro di sollievo, però resta in me un vuoto e un senso di colpa senza un motivo preciso e senza fine.

Ho una malattia chiamata Alzheimer che mi toglie ogni frammento di ricordo, belli e brutti che siano, e questo mi rende vulnerabile. Però, egoisticamente, la malattia è uno stato di grazia perché non mi fa ricordare le molteplici atrocità che ho compiuto.

Proprio nei miei momenti di lucidità spero di ritornare in quelli di buio e ritrovare la pace del cuore.

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Discussioni

  1. Un monologo interiore potente e toccante, che usa la malattia in modo geniale per esplorare il senso di colpa e la memoria storica. La confusione tra l’eroe e il “cattivo” crea un bel dramma. La figura di Lia, che resiste al vuoto della memoria, è molto forte, ma la storia mi sembra dominata dalla vergogna del protagonista.

  2. Impeccabile il modo in cui descrivi l’Alzheimer.
    ​La parte sui ricordi più vecchi che si ripresentano, al contrario di quelli più recenti, porta a pensare che il cervello sia come una stampante: quando le cartucce sono nuove, stampa immagini di ricordi nitidi e poi, man mano che l’inchiostro si esaurisce, diventano sempre più sbiadite.
    ​E infine, la scena dove il protagonista vede la sua malattia come un “leteo” rimedio agli errori commessi è potente.
    ​Brava, Camilla!

  3. Una scrittura semplice e diretta. Mi è piaciuto il modo in cui affronti un tema doloroso e complesso. Non ti perdi in banalità o sentimentalismi inutili. E il senso arriva tutto.