V – IL GIURAMENTO DEL FERRO  Prima parte

Serie: La memoria delle acque


NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Nova Ilion accoglie i superstiti della catastrofe

Il primo suono non fu una voce, ma un rintocco di ferro nudo contro la campana.

Viaggiò nell’aria della mattina, attraversò la nebbia che ancora si stendeva sul fondovalle, colpì le colline annerite e le fece vibrare come pelli tese.

Il silenzio che seguì era più spesso della bruma: sembrava che il mondo intero si fosse fermato per ascoltare.

Non era un richiamo religioso, non una preghiera.

Era la fame che batteva: il bisogno di dire “siamo vivi”.

Enea ascoltava il suono sparire, sentendo sulle labbra il sapore del ferro ossidato.

Aveva passato la notte in bianco, camminando avanti e indietro sulla piazza dura, il Sigillo appeso al collo che batteva sul petto come un secondo cuore.

Nei pochi momenti di sonno aveva sognato la fucina di Aurion in fiamme — il fumo, i corpi che scappavano, le urla tagliate dal vento.

Ogni giorno, la memoria della città morta gli cresceva dentro come una scheggia: non si toglieva, non guariva, diventava solo più opaca.

Il sole salì, lento e pallido, svelando le tende piantate a fatica nel fango.

Gli uomini si stringevano nelle mantelle lise, le donne sistemavano i bambini sotto i teli, cercando di riparare almeno le mani dal gelo del mattino.

L’odore di legna marcia, di lana bagnata, di sangue vecchio e pane raffermo ammorbava l’aria, come una nebbia che non voleva andarsene.

Il suono della campana sovrastava tutto: ogni colpo era una domanda senza risposta.

Da sud arrivarono i primi gruppi di sopravvissuti.

Si vedevano da lontano, sagome piegate che avanzavano come cani bastonati. Contadini con le gambe coperte di terra secca, mendicanti dall’occhio spento, donne che portavano i figli legati addosso con strisce di lenzuolo, uomini più scheletrici che armati, ma con uno sguardo che non chiedeva pietà.

Enea li osservò mentre varcavano la soglia invisibile della piazza.

Qualcuno si fermava subito, gettando per terra una sacca o una coperta, qualcuno s’inginocchiava, sfinito, baciando il fango come un altare. Altri restavano in piedi, occhi duri, labbra serrate.

Aveva imparato a riconoscerli: chi si inginocchia vuole sperare, chi resta in piedi vuole sopravvivere.

Li accolse senza parole, con il gesto lento di chi mostra dove ci si può sedere e dove non si deve mettere piede.

Quando il sole fu alto, la piazza era una ragnatela di corpi stanchi, occhi sbarrati, fame e paura.

Solo quando pensò che non sarebbe arrivato più nessuno, vide un gruppo diverso avvicinarsi.

Erano cinque, camminavano in silenzio assoluto, senza lamentarsi né imprecare, quasi tagliando l’aria invece di abitarla.

Li guidava una giovane donna, i capelli raccolti in una lunga treccia scura, la veste rossa, consumata e piena di macchie più antiche della polvere.

Sotto il braccio portava una brocca vuota, tenuta con la fermezza di chi non accetta l’elemosina.

Dietro di lei, tre ragazze — forse figlie, forse sorelle, difficile dirlo, con quella stessa aria risoluta, le braccia ossute e gli occhi che non si abbassavano.

Chiudeva la fila un vecchio, magro come un bastone, i libri legati da uno spago che sembrava l’unica ricchezza rimasta.

La donna arrivò davanti a Enea senza nessun segno di sottomissione, senza supplica.

«Mi chiamo Maddalena,» disse, ferma, la voce più roca che dolce. «Non abbiamo un posto dove andare.»

Enea la guardò negli occhi: erano limpidi, sì, ma già stanchi, pieni di una fatica che non aveva più rabbia dentro.

Aveva visto quegli occhi altrove, in un’altra vita, forse su un altro volto — per un attimo il ricordo di Selene gli attraversò il petto come una lama sottile.

Il Sigillo reagì al suo battito: un piccolo lampo, subito nascosto dal mantello.

«Qui non promettiamo miracoli,» disse Enea, sapendo di mentire, perché anche solo restare vivi era già un miracolo ogni mattina.

Maddalena non si scompose.

«Ne ho visti abbastanza,» replicò. «Basta che prometti silenzio e pane.»

Dietro di lei, le ragazze restavano dritte, la brocca vuota oscillava piano, il vecchio con i libri tossiva senza scusarsi.

Per un momento, tutto il mondo sembrò ridursi a quella stretta di occhi tra lui e Maddalena.

Enea sentì il bisogno di dire qualcosa che non fosse solo una promessa di sopravvivere, ma le parole gli si ruppero in gola come il ghiaccio.

Le mostrò la piazza, la dispensa (mezzo sacco di farina, cinque cipolle, un orcio d’olio), la tenda meno marcia.

La gente di Nova Ilion osservava in silenzio: alcuni invidiavano la dignità nuova di Maddalena, altri si sentivano offesi dal suo coraggio, altri ancora — i più vecchi — riconobbero nel modo di camminare della donna qualcosa di familiare: chi ha perso tutto, e sa che nessuno potrà restituirglielo.

Quando scese il sole, la piazza era ormai piena di gente e ombre, le voci rimbalzavano tra le tende e le pietre, il rumore del ferro — qualcuno batteva una lama, qualcuno aggiustava un secchio — si mischiava ai primi canti dei bambini, che per la prima volta giocavano senza urlare.

E proprio mentre Enea pensava che avrebbe passato la notte senza trovare riposo, vide Maddalena camminare verso il torrente.

Non lo fece per spettacolo, né per allontanarsi: si muoveva come chi cerca l’unico luogo dove il silenzio non pesa.

Rimase a guardarla da lontano, la brocca appoggiata sulla riva, le mani immerse nell’acqua, lo sguardo fisso verso il nord, dove la notte aveva già cancellato ogni memoria di Aurion.

Enea si accorse che non era più solo.

Che il mondo, rotto, aveva ancora voglia di essere ricucito.

E, per la prima volta da mesi, sentì che la stanchezza non era solo peso, ma materia per ricominciare.

Serie: La memoria delle acque


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