
Vergogna
Il profumo di pane appena sfornato era così intenso da solleticare le narici. Entrava nel naso e scendeva giù nella gola, quasi a sfamare. Lo stomaco, ingannato, si apriva in una voragine che procurava i crampi. Agata e Davide ne desideravano subito un pezzetto e la zia, che li capiva al volo, li portava nel retrobottega del negozio di alimentari dove una decina di ceste colme di pane caldo se ne stavano accatastate in attesa di venire esposte per l’apertura domenicale delle ore 11.00.
Loro ne sceglievano sempre uno a testa di tipo all’olio, di quelli morbidi e rotondi. A mangiarlo ci mettevano un attimo e subito dopo ne desideravano un secondo che non arrivava fino al momento del pranzo. Dovevano aspettare per non rovinare l’appetito, come stabiliva la mamma.
Durante l’infanzia le gite domenicali a casa del nonno erano una festa. Ad Agata piaceva quel posto caldo e profumato, lo zio gentile in canottiera bianca che emergeva dal forno, ricoperto da una sottile nuvola di farina. Salutava timidamente e spariva dietro la piccola porta che dava sulla scala irta con i gradini in pietra che conduceva alle camere da letto.
La casa dove la mamma di Agata era cresciuta, aveva soffitti altissimi a volta e intonacati di bianco. La donna si muoveva all’interno delle stanze sicura di sé nel suo ambiente. Agata la osservava, felice come se quel ritorno fosse il premio per le sue giornate difficili. Ogni timidezza spariva sul volto amato e pareva persino più bella di quanto non lo fosse già.
Il nonno appoggiava le sue ossa magre alla poltrona verde in pelle accanto alla stufa e il padre di Agata sedeva sul divano con il giornale in mano. L’uomo era sempre a suo agio con le cognate e la ragazzina lo osservava sorridere spesso, mentre conversava a voce alta con il suocero di politica in quelli che a lei parevano piuttosto lunghi monologhi o anche comizi con il solo anziano come pubblico. Agata incrociava lo sguardo mite del nonno nascosto dietro l’azzurro delle iridi chiedendosi dove finisse la pazienza dell’ascolto e dove invece cominciasse una pacata inconsapevolezza.
Sentiva che un pezzo di lei faceva parte di quegli ambienti dove era bello trascorrere il tempo fra le stanze anguste tutte da scoprire. La cameretta dei cugini adolescenti, molto stretta e lunga, con i poster dei cantanti attaccati con lo scotch alle pareti. La camera dei nonni, invece, grande e spaventosa, con l’antico letto di legno massiccio posto al centro della stanza. L‘immagine del defunto su quel letto con le donne della famiglia attorno, impegnate nella preparazione del corpo come in una danza perfettamente coordinata, l’avrebbe sempre accompagnata.
La casa si apriva su una corte. A volte un adulto chiudeva con il chiavistello di ferro il portone in legno massiccio che dava sulla strada e a quel punto ai bambini veniva concesso il permesso di uscire per giocare in attesa che il pranzo fosse pronto.
***
Agata non ricorda esattamente la volta in cui tutto cominciò, sa solamente che in quel momento diventò grande. Nemmeno se ne rese conto all’inizio, scambiando la violenza per gioco. Le carezze non autorizzate per un divertimento fra bambini. Lui più grandicello e sicuramente con piccole esperienze già vissute.
Non intese allora cosa andasse cercando, forse nulla, e lo capisce solamente adesso che è adulta. Quasi un prendersi ciò che a volte si crede essere dovuto, compiendo un errore vecchio di millenni.
Il suo disagio cominciò nel momento in cui si rese conto di quanto male ci fosse in quel gesto. Inizialmente cercò di difendersi e protestare. Poi, lentamente i sensi di colpa si sostituirono alla rabbia e allora Agata prese a scappare. Cercava di sfuggirgli rifugiandosi in mezzo alle persone. Stava bene attenta a non rimanere sola con lui che la braccava come un cane da caccia, la seguiva e alla fine la ritrovava. La afferrava saldamente in mezzo alle gambe per attimi che sembravano interminabili. A volte Agata smetteva di lottare e persino di respirare e aspettava paziente.
***
Avevo undici anni quando mio cugino cominciò ad allungare le sue mani su di me. Lo faceva sistematicamente e ogni volta che ne aveva l’occasione, come se fosse un tic nervoso. Lo faceva soprattutto quando eravamo soli, ma capitava che mi toccasse anche in presenza degli adulti, approfittando della loro distrazione.
Mi diceva cose all’orecchio che erano per me ancora forse incomprensibili, ma suonavano già come minacce. Mi entravano dentro e mi spaventavano. Pensavo a lui soprattutto di notte immaginando che venisse veramente a cercarmi nel buio.
«Ti vengo a prendere». Me lo disse una volta sussurrandolo all’orecchio e io percepii il calore del suo alito che si condensava al contatto con la pelle sudata della mia guancia. Mi guardava di sbieco e sorrideva.
Stretta nel suo abbraccio forzato, la schiena contro il muro del forno, guardai mio fratello incrociando il suo sguardo e provai vergogna. Mi chiesi quanto fosse ancora troppo piccolo per capire. Mi interrogai su cosa potesse provare guardandoci, cosa gli sarebbe restato dentro.
In attesa paziente, ogni volta, lui ci osservava dal suo angolo. Attendeva che finisse il nostro gioco del gatto che insegue il topo. A volte lo vedevo ridere. La bocca, non i suoi occhi. Dietro di essi si nascondeva la paura.
***
Agata non ne ha mai parlato con Davide. Ancora oggi che sono adulti e si dicono quasi tutto, ci sono volte in cui lei vorrebbe aprirsi e interrogarlo per chiedergli quale ricordo abbia di quei momenti, cosa gli sia rimasto dentro. Vorrebbe che lui la stringesse fra le braccia rassicurandola sul fatto che fosse troppo piccolo per capire, ma già grande per starle vicina, per farle sentire la sua presenza silenziosa, come un conforto e non un imbarazzo.
Agata è diventata grande e ha imparato molte cose, ma alcune ancora no. La vergogna può essere un macigno che ti porti sulle spalle e sai che nessuno ti può aiutare a condividerne il peso. Ti sta addosso e basta. Agata crede che alcune cose vadano per forza tenute sotto chiave. La chiave pesante gettata nel mare che a volte non è azzurro, ma scuro a coprire agli occhi quello che giace sul fondo.
Avete messo Mi Piace15 apprezzamentiPubblicato in Narrativa
Dal profumo del pane caldo, al tonfo di una chiave nel fondale di un mare oscuro, la tua voce ha saputo disegnare l’orrore a partire dall’incanto, con la stessa levità delle antiche fiabe o dei racconti neri, dove dalle trecce delle principesse dietro le grate, spuntano gli occhi rossi dei lupi e i fruscii delle serpi. La tua sensibilità artistica ha forgiato uno squarcio drammatico in una luce linguistica ancora lieve, misurata, scritta con gli occhi ben aperti, dove nell’aria è ancora presente lo stesso profumo dell’incipit, “che entrava nel naso e scendeva giù nella gola”, con la stessa forza e precisione di un incubo e della direzione della chiave verso il buio del suo fondale. Bravissima, anche nella finezza contrappuntistica tra gli estremi del racconto.
Quando si ha fra le mani un tema così delicato da trasformare in racconto, bisogna, a mio avviso, che il taglio sia accuratamente scelto in base alla propria sensibilità e stile di scrittura. Uscire da questo punto di vista è pericoloso e si rischia di scadere in un semplice esercizio stilistico che difficilmente riesce o, comunque, raramente trasmette un’emozione. Io, in un certo senso, so scrivere così, ed è così che ho deciso di narrare questa storia ‘difficile’ perché, come tutte le storie di bambini e di violenza, andava davvero ‘maneggiata’ con grande cura e con rispetto. Altro che evito di fare, è esprimere un giudizio. Desidero piuttosto che sia il lettore a farlo, nel momento in cui riesce a provare empatia con la vicenda e i suoi attori. La chiave è, naturalmente, una metafora che tu, con la tua particolare sensibilità, hai colto subito. Grazie per il tuo importante commento.
Mi piace come affronti un argomento così delicato.
Si Rocco, un argomento delicato e bambini come protagonisti. È un po’ come camminare sui vetri. Grazie ☺️
C’è sempre una verità che aspetta e un silenzio che la custodisce. La vergogna, a volte, è una condanna al silenzio. Tu hai una sensibilità nello scrivere che rimane, resta, si deposita oltre le parole. Complimenti
Ti ringrazio tanto Mattia e lo faccio purtroppo in ritardo perché il tuo bellissimo commento mi era sfuggito. Sono parole, le tue, che accolgo e che, ti garantisco, vanno a segno.
Continuo il ragionamento di Micol: il tuo racconto è arrivato anche a me, che alla vergogna non riesco nemmeno a pensare, figuriamoci raccontarla. Grazie.
Grazie a te Francesca. Un racconto non facile perché volevo trattare questo tema affinché si sentisse quanto mi sta a cuore. Così l’ho calato dentro di me e dentro al mio contesto famigliare. Così, per sentirlo veramente mio e riuscire a trasmettere l’emozione che una realtà del genere può suscitare.
Mi hai dato un’idea, sai? Si può seguire anche il percorso contrario.
Spesso si tende a pensare alla violenza come un atto cruento, che lascia cicatrici visibili. In realtà, quella psicologica può assumere forme peggiori perché nel tempo cresce e si fa malessere in grado di condizionare una vita intera. La “vergogna” è uno dei sentimenti peggiori con cui venire a patti, per quanti ragionamenti facciamo la razionalità è completamente accecata dal dolore. Combatterla è anche questo: scrivere un racconto che arrivi dove deve.
Grazie Micol, ci siamo dette tutto. Un abbraccio
“ma scuro a coprire agli occhi quello che giace sul fondo”
Indimenticabile
Grazie Roberto per aver letto. Lo apprezzo molto 😊
Semplicemente, grazie per aver condiviso una storia così dolorosa ed intensa.
Che tutta questa compassione nei commenti possa sollevare non solo il peso di Agata, ma di molte altre lettrici e molti altri lettori.
Grazie Gabriele per la tua sensibilità e per il prezioso augurio💜
Complimenti. Ho fatto molta fatica a proseguire nella lettura, ma solo perché hai risvegliato in me emozioni contrastanti.
Grazie Rita. Certe storie sono difficili da raccontare e anche da leggere. Un abbraccio 💜
Salve ho letto il tuo racconto ad alta voce alla mia compagna …io non leggo ad alta voce molto spesso ma questo si è da leggere ad alta voce… complimenti
Salve a te 🙂. Immaginare che insieme abbiate dedicato il vostro tempo della lettura e dell’ascolto al mio racconto mi lusinga naturalmente, ma anche mi intenerisce. Sento di avervi fatto un po’ di compagnia. Grazie di cuore a voi due.
Ciao Cristiana, se non sbaglio, questa è la prima volta che commento un tuo racconto. In questo testo c’è tanto da leggere, anche ciò che non è scritto. Un tema molto attuale, basta ascoltare le cronache di oggi. Un senso di vergogna così intimo e personale – molto brava, secondo me a renderlo comprensibile a chiunque – che sicuramente noi uomini non possiamo capire fino in fondo. Ma di sicuro possiamo capire che aiutare a raccontare e denunciare questo tipo di storie, non solo come fratelli, padri, mariti o amici, ma soprattutto come persone è il primo passo per cambiare la storia della società. Di conseguenza la storia di tutti noi.
In realtà, Mattia, io credo che si possa essere vittima indipendentemente dal fatto che siamo maschi o femmine. Io ho scelto chiaramente la posizione che mi è congeniale e anche, se vuoi, quella più comune. Ho provato a volte in alcuni racconti a mettermi in panni maschili, scegliendo situazioni delicate che mi piaceva raccontare. Non so esattamente come sia andata, però aiuta sia chi legge, ma soprattutto noi che scriviamo. Ti ringrazio per aver compreso che molto in questo testo non è scritto, così che l’esperienza personale possa diventare universale di modo che ci si senta più partecipi. Non lo so, in effetti, se questa sia o meno la prima volta che commenti un mio testo, ma non importa. Mi hai fatto un regalo. Un abbraccio
Malgrado l’importanza del tema e lo stile da “penna gentile” con cui lo hai trattato non ti renderei giustizia se mi focalizzassi solo su quello. E’ la stesura che ti è venuta bene, a prescindere dall’argomento. La suddivisione in tempi ti è congeniale, ma qui i collegamenti sono davvero azzeccati, nel metodo voglio dire. Alla fine del “primo tempo” accenni alla cameretta dei cugini adolescenti, poi inizia il secondo tempo con il cugino nella parte dell’orco. Alla fine della solitaria riflessione ci presenti l’episodio sconcertante del fratello, poi l’io narrante riprende da lui come fulcro del discorso. Quella riflessione in prima persona è uno stacco, quasi una parentesi che non mi era piaciuta immediatamente, mi mancava l’interlocutore. Poi l’ho riletta ed è la vergogna di Agata quell’interlocutore, il suo silenzio. Qua e la ci sono poi delle sfumature che impreziosiscono ulteriormente il racconto. Per esempio i panini all’olio, che per noi degli anni settanta hanno un certo significato forte e nostalgico. O ancora la mamma di Agata che “si muoveva all’interno delle stanze sicura di sé nel suo ambiente”, è una sensazione ben precisa che coinvolge il lettore (forse chi è ancora molto giovane no, ma vabbè 🙂 ). Insomma, tutto questo per dire che un tema delicato possiamo affrontarlo tutti, poi c’è la forma del racconto che fa la differenza.
Bravissima!
Inizialmente avevo considerato la possibilità di mantenere il medesimo tempo e io narrante dall’inizio alla fine. Poi però, leggendomi mi sono annoiata. Mi era parso niente più che un racconto (!). Mi piace, invece, e mi diverte spostare il punto di vista e navigare a tratti nel tempo del testo. Mi rendo conto che così esso possa sembrare disconnesso, tuttavia impegna maggiormente e vivacizza la lettura. Come immaginare di togliere i soffitti a una casa e osservarla dall’alto. Il fratellino e la vergogna sono i perni su cui ho fondato la narrazione, cercando di partire e tornare esattamente in quel punto. Grazie per aver riconosciuto nella vergogna stessa l’interlocutore di Agata, altrimenti sarebbe rimasto un monologo fine a se stesso, tanto per piangersi addosso. La gentilezza bisogna per forza usarla, soprattutto se si pensa alle storie che si possono nascondere dietro alle spalle di coloro che ci fanno il piacere di leggerci. Grazie Francesco per il commento che non so definire senza rischiare di svilirlo.
Ciao Cristiana! Racconto delicato ma intenso, ho sempre trovato così ingiusto che nonostante siamo le vittime siamo noi a provare vergogna e schifo per noi stesse a volte, mentre chi compie il gesto non riceve quasi mai la punizione adeguata da chi di dovere ma ancor peggio dalla sua stessa testa che non gli fa provare rimorso o sensi di colpa.
Ciao Valeria. Che piacere che tu sia passata 😊. Le tue parole sono dure il giusto, per come deve essere. Io come autrice cerco sempre di restare in un certo senso come ‘sospesa’ quando tratto temi delicati. Nella realtà, e qui mi trovi totalmente d’accordo, ci vuole durezza. Grazie
C’è stato un momento in cui ho avuto la pelle d’oca mentre leggevo…. è un testo che fa riflettere, ma nonostante la complessità risulta scorrevole, piacevole e chiaro….. complimenti davvero ❣️
Grazie Lola per aver letto e soprattutto per esserti soffermata. Quando leggiamo con altri occhi, riusciamo a ‘entrare dentro’. A me capita la maggior parte delle volte e mi dà spesso una sorta di sollievo e spunti per nuovi racconti.
Un racconto da leggere con la pancia, non solo con la testa, come penso l’abbia scritto tu, pancia e testa.
Vorrei poter sussurrare ad Agata che non è lei quella che deve vergognarsi, e sperare che riesca a vedere l’infinita bellezza del senso di protezione che ha provato verso il fratellino.
Sono davvero contenta che quel cassetto si sia aperto…
Cara Nyam, il cassetto si è aperto grazie soprattutto allo spunto importante che è venuto dal tuo bellissimo racconto. Credo, rileggendo alla luce di alcuni vostri commenti, che il fratellino sia un po’ la chiave, in un certo senso. Diventa luogo meraviglioso su cui posare gli occhi e riposare in attesa che tutto passi. Una sorta di alleviamento del male. Sguardo da incrociare senza il bisogno delle parole. Grazie
Ciao Cristiana, hai saputo descrivere così bene l’aspetto lieve dell’infanzia, circondato dal calore degli affetti, di più generazioni.nella stessa casa. Hai saputo raccontare altrettanto bene la vergogna impietosa che marchia la fine di quel tempo, nonché la paura vissuta dalle vittime “ti vengo a prendere”, quel non sentirsi mai al sicuro e spesso nell’indifferenza degli altri. C’è anche il sentimento di protezione verso il fratello e la vergogna che ritorna nel mostrarsi in quel gioco. C’è una linea che a me pare il fendente di una lama. Grazie per averlo scritto. Aggiungo che la protagonista è già “oltre” la vergogna, nel momento stesso in cui ritorna e rivisita l’accaduto col coraggio del presente. Brava.
Grazie Bettina perché hai saputo vedere bene oltre le parole e oltre al dramma che ho cercato di descrivere. Ci sono violenze che si consumano nella solitudine totale della vittima e ce ne sono altre che invece avvengono negli ambienti domestici e spesso sotto gli occhi di tutti. Nel mio racconto la famiglia è cieca, tranne il fratellino. Lui sa vedere e forse a suo modo vigila sulla sorella. O perlomeno è come ho voluto credere e raccontare. Un legame silenzioso che però diventa un’ancora per la vita.
Quante vite innocenti, divenute, di colpo e troppo presto, smaliziate, diffidenti e segnate da ombre piu` o meno scure, nella mente e nell’ anima, che hanno condizionato la vita intera di molte donne come Agata. Un numero incalcolabile, da parte di cugini poco piu` grandi, quando gli approcci non richiesti e forzati sono andati meno peggio di altri, con persone (familiari o estranei), molto piu` adulte e consapevoli; quindi piu` colpevoli.
Un argomento importante, su un tema delicato di cui non si parlera` mai troppo. L’ inizio e` delizioso, come lo e` il pane appena cotto. Il seguito, al contrario e` un po’ piu` crudo, come lo e` spesso la vita. Hai saputo descrivere anche questa storia, con il solito stile garbato che ti contraddistingue.
Un abbraccio.
Grazie Maria Luisa perché i tuoi commenti sono sempre particolarmente delicati. Traspare da ciò che scrivi, in generale, la tua attenzione all’universo femminile e alle tematiche che lo riguardano. Io, personalmente sento sempre la necessità di utilizzare quello stile che tu definisci ‘garbato’ soprattutto quando scrivo della mancanza di luce. Ci sto dentro meglio, maggiormente a mio agio. Spesso dietro al carnefice si nasconde una vittima. Ci vuole delicatezza. Un abbraccio
Un gran racconto, che fa battere il cuore all’impazzata. Dal titolo si intuisce già cosa succederà, e lo si aspetta, chiedendosi chi sarà mai l’orco nel quadro iniziale bellissimo che hai dipinto. Non mi aspettavo il cugino più grande, ma posso capire benissimo la sensazione di vergogna che una vittima si porta dentro, a lungo, il non riuscire a parlarne. Ci si sente sporchi, in colpa, e viene difficile non solo essere toccati ma anche toccare le persone che si amano per paura di contaminarli. Hai ben descritto che si porta dentro un macigno, è un qualcosa che ti impedisce di volare, è più un buco nero, una forza che ti attira giù, ma è proprio la luce di chi ti vuole bene che non ti lascia nelle tenebre. Il problema sta proprio nella paura di non avere più quella luce, di essere visto diversamente, e quindi, alla fine, essere avvolti dalle tenebre. In tanti dicono che faccia bene parlarne, faccia bene magari scrivere, ognuno ha il suo modo di superare questi traumi, l’immagine della chiave di Agata gettata nel mare profondo è forse quella più suggestiva.
Grazie Carlo, con il cuore, sempre. Le case dell’infanzia sono molte e non sempre si rivelano i luoghi accoglienti e caldi che ogni bambino meriterebbe. Ho cercato ancora una volta di stare ‘leggera’, su quel passo di danza che mi piace tanto. Poi certo, il buio spesso arriva, ma non è detto che sia più oscurante di quanto a volte le meraviglie della vita ci illuminino. Ed è a quel punto che possiamo decidere che persona vogliamo essere. La tua riflessione mi suggerisce molti spunti, ma mi fermo volutamente qui, sempre alla ricerca della chiave nel mare. Un abbraccio.
Ciao C., ho apprezzato molto questo racconto che si divide in due movimenti. Nel primo mi è rivenuto in mente il brano “Ritorno a casa” degli Afterhours dove il protagonista torna nella casa dov’era cresciuto da bambino e, in forma adulta, riesce a capire e colmare buchi di una memoria che pensava di aver perduto. Quando sei un pre-adolescente e hai un gruppo di amici stretti e sperimenti momenti intensi assieme si crea un legame speciale che, non importa quanto tempo trascorrerà, un giorno ripenserai a loro e all’incidente vissuto. Il tema che ho scorto è quello di un momento che può cambiarti la vita per sempre e di come il tempo possa aiutare a comprendere meglio il dolore, senza però sopperirlo.
Ciao David. Grazie di cuore per la lettura e le tue parole. Mi capita spesso, in realtà, di affrontare argomenti pesanti o anche momenti particolarmente difficili nei miei testi. Tuttavia, quando scrivo, cerco di farlo sempre con una certa leggerezza d’animo che poi è la mia. Lo sai bene oramai come mi piace prendere le cose anche nel quotidiano, nel vissuto di ogni giorno. Giudicare non mi va e credo che non esista linea di demarcazione fra bene e male. I colori si mescolano sempre e le sfumature sono molteplici. Bello il rimando alla canzone. C’è sempre la musica nella testa di chi legge e in quella di chi scrive. Un forte abbraccio