
Vieni con me
Guardava dal vetro della terrazza il cielo di mercurio, che sprofondava nel mare. Bagliori in lontananza ricordavano che una tempesta stava arrivando. La musica che usciva dallo stereo lo accarezzava, mostrandogli la solitudine in cui era piombato da tempo. Nemmeno il suono delle sue dita sulla chitarra lo apriva al mondo. Si era perso. Lontano da sé stesso e dalla passione che avrebbe voluto ritrovare. La tastiera entrò lentamente nel ritmo di quella musica che avrebbe potuto portarlo su spiagge lontane. Ricordi di viaggi fatti o solo immaginati, tramonti senza fine in attesa di notti di passione che aveva dimenticato, erano lì, sottopelle ma non gli bastavano più. Voleva altro. Desiderava trovare la strada, che gli avrebbe fatto scoprire di che pasta fosse fatto davvero. Voleva che il suo mondo non fosse più solo gelo.
I lampi all’orizzonte lo riportarono lì a quella finestra, in quell’attico che aveva tanto desiderato, un luogo da riempire di musica e immagini, di odori nuovi, di tocchi su pelle mai sfiorata e occhi. Occhi grandi, scuri, dal colore che cambiava a seconda delle emozioni che trattenevano e che si sarebbero persi nei suoi, senza paura di smarrirsi. Il ritmo della musica con quella chitarra lamentosa, lo faceva sprofondare e lo innalzava senza requie, ricordandogli che la vita prende strade strane per portarci dove vuole e ancora un lampo lo riacciuffò per ricondurlo all’orizzonte.
Ma implacabile, il destino mischia le carte e mentre la tempesta correva verso riva, la vide.
Ricci antracite che si azzuffavano col vento di mare, un cappotto scuro che l’aveva trasformata in un buco nero che attirava chiunque osasse guardarla, stivaletti rossi.
Lei era lì che lo guardava dall’altra parte della strada. Non c’era nessun altro frapposto fra loro. Pareva che tutta l’energia di quel cielo fosse concentrata in quello sguardo, che li teneva incatenati uno di fronte all’altra, come se non avessero mai fatto altro, come se si conoscessero da sempre, come se non avessero voluto mai andare altrove. Bastava allungare la mano per trovarsi. Se entrambi avessero fatto un solo passo, sarebbero caduti in un tunnel senza fine, da dove non avrebbero avuto speranza di uscire.
Ma cosa avrebbero desiderato davvero? Uscirne? Sprofondare?
Restare.
Sembrava che la musica, che lo stava inondando, arrivasse anche a lei che, con le palpebre socchiuse, iniziò a muoversi con le spalle al mare e solo per i suoi occhi. Il vento che soffiava forte, la musica che alzava di ritmo, lei che si muoveva a un ritmo tutto suo e la tempesta che li avrebbe travolti entrambi di lì a pochissimo.
Decise di saltare e, lasciandosi la musica alle spalle, corse giù in strada. Quando arrivò dall’altra parte della strada, la pioggia iniziò a cadere furiosa, mentre la tempesta che aspettava, si scatenava su di lui. Dov’era quella donna? L’aveva solo immaginata? Era un fantasma di qualcuno che era scomparso in mare? O un desiderio che era stato spazzato via dal vento di burrasca? Poi si voltò, alzò lo sguardo verso il suo attico e la vide lì che gli sorrideva, guardandolo dalla finestra. Gli occhi questa volta avevano un colore preciso e quel sorriso, che avrebbe spazzato via le nubi di quella sera, era lì per lui. Attraversò di nuovo la strada e risalendo le scale di casa, sentì che la musica era cambiata.
Non sapeva cosa fosse quell’attimo di eternità, che stava vivendo da un po’. Era stata persa per così tanto tempo, che non aveva più nemmeno la speranza di ritrovarsi viva. Qualcosa da qualche tempo era cambiato. Le sembrava che un ritmo sconosciuto le rimbombasse dentro e, dove prima c’era solo vuoto, adesso cresceva una energia magnetica, che le metteva davanti sensazioni e desideri a cui non avrebbe voluto sottrarsi.
Aveva camminato lungo la spiaggia, mentre il cielo impazziva per l’elettricità incontenibile che lottava fra cielo e mare e lei percepiva che tutta quella potenza le confluiva sottopelle. Amava il mare in tempesta, quel vento carico di elettricità che spazzava via anche il più piccolo dubbio di quanto fosse fisica e carnale. Improvvisamente, mentre il cielo diveniva un tutt’uno con il mare e l’orizzonte spariva dietro lampi e fulmini, sentì una musica nell’aria. Una musica pazzesca. Una chitarra jazz che si arrampicava su note sempre più alte e sempre più complesse, un pugno allo stomaco che entrava prepotente e la stordiva, eccitandola. Quella musica non era nulla di banale, era la passione che cercava da sempre, era il desiderio che non aveva mai provato e, prepotente, tornò il bisogno di perdere il controllo su tutto.
Si fermò lì sul marciapiede e cercò di individuare da dove provenisse quel suono. Alzò lo sguardo e lo vide. Un uomo dietro una finestra, su all’ultimo piano, che guardava il mare immerso in quel turbinio di note. Sembrava lontano, distante, ma quel momento non era solo suo.
Lui incrociò il suo sguardo e parve rimanervi agganciato, come se stesse aspettandola. Lei non aveva idea di chi fosse, ma quella musica che portava l’energia dell’aria a salire e a inerpicarsi folle, la travolse. Aveva capito. Era lì per quell’incontro. Non era stato un caso. L’universo la voleva lì.
La musica la stuzzicava e il desiderio di muoversi divenne impellente. Ballare davanti a quello sconosciuto e convincerlo a stare al suo gioco, capire di che pasta fosse fatta e decidere di oltrepassare il recinto in cui era sempre sopravvissuta, fino a spegnersi del tutto nel passato, erano solo l’anticipo di ciò che avrebbe voluto davvero. Il desiderio entrava nella sua esistenza e, almeno quella volta, non sarebbe stato tutto finzione. Quella musica le faceva immaginare mani che sfioravano, occhi negli occhi, bocche che si univano e lingue che non avevano paura di scontrarsi. Odori nuovi da scoprire, sapori intensi da assaporare e un abbandono così totale in cui la pelle non era più necessaria. Erano lì perché non potevano essere altrove.
Quella giostra, sulla quale erano saliti inconsapevolmente, aumentava ogni attimo di forza e l’unico rischio che correvano, era quello di non lasciarsi dietro le paure, che potevano solo frenare. Il frenarsi sarebbe stato l’unico errore, che l’universo non avrebbe perdonato. E lei non sarebbe andata contro l’universo.
Prima che la tempesta le si abbattesse addosso, in un incomprensibile cambio di prospettiva, si ritrovò davanti alla finestra di quell’attico mentre l’uomo la cercava dall’altra parte della strada. Un sorriso le comparve sul viso, mentre lui la ritrovava, incorniciata dalla finestra di casa sua.
Erano pronti entrambi. La musica cambiò improvvisamente e lei si ritrovò ad aspettare che quell’uomo la raggiungesse, per perdersi in tutto quello che sarebbero stati capaci di creare. L’uno di fronte all’altra, a ballare una musica che solo loro avrebbero potuto comporre.
Eccoli lì. Uno contro l’altra, come due animali pronti ad attaccare. Il richiamo dei corpi non aveva più filtri, a tenere a freno nessuno dei due. Non c’erano finestre fra loro o scrosci di pioggia che li avrebbe potuti raffreddare. Sembravano legati l’uno all’altra, in quello strano gioco dell’universo che li aveva posti lì in quell’attico, come in un film d’autore: due sconosciuti che si incontrano, si lasciano travolgere dalla passione e poi ognuno di ritorno al proprio mondo. In quel momento però non c’era spazio per la filosofia o per la testa. In quel momento c’erano solo i loro corpi da scoprire, pelle da strappare a morsi e il tocco vicendevole, perché le anime, quelle si erano già riconosciute e incontrate da qualche parte, fuori dal tempo.
Non poterono farne a meno, le distanze si accorciarono nell’attimo esatto in cui lui varcò la porta, bagnato fradicio e con la testa che gli rimbombava dal ritmo del cuore, per le scale fatte a due a due.
Si trovarono l’uno addosso all’altra con le labbra che non potevano separarsi nemmeno forzandole. Occhi negli occhi per non perdere nessuno dei lampi che li avrebbero attraversati. Le lingue conducevano una danza tutta loro, immerse l’una nella bocca dell’altra, col respiro che aveva dovuto prendere un ritmo comune per evitare di essere costrette ad allontanarsi. Non si sarebbero mollate tanto facilmente. Le mani avevano preso a correre per scoprire cosa avrebbero trovato di lì a breve sotto gli abiti, che mai erano stati più insopportabili addosso. Caddero sul divano sfiniti, solo per riprendere fiato e iniziare a giocare sul serio, come bambini la mattina di Natale.
Non era cosa da poco essersi trovati. Non era cosa da poco aver varcato il tempo e lo spazio solo per quell’incontro, solo per ritrovarsi giungendo da luoghi impervi e desolati, dove entrambi avevano accumulato polvere e ferite sul cuore. Adesso erano pronti a darsi, adesso erano pronti ad accogliersi e niente, o qualcuno, li avrebbe potuti fermare, né il passato che incalzava entrambi o il futuro che non era di nessuno. Avevano il presente da vivere, quel meraviglioso e assoluto momento in cui erano solo loro e niente intorno.
Il mondo fuori dalla finestra, immerso in quella tempesta che li avrebbe resi immortali, avrebbe fatto a meno di loro, per tutto il tempo che avrebbero deciso di concedersi e li avrebbe lasciati correre fino alla fine del pontile o soltanto fino all’orizzonte.
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