Villa Beldì

Semplicio era uscito mentre gli altri stavano consumando la colazione. C’era stata un po’ di confusione. Qualcuno aveva rovesciato la tazza del caffellatte sul tavolo. Una delle assistenti si era precipitata a rimproverarlo, mentre una collega si affrettava a prendere gli stracci, per pulire quel pastrocchio di fette biscottate inzuppate, con tutto il liquido che colava sul pavimento, sulla carrozzina e addosso all’uomo maldestro.

Approfittando di quel momento di distrazione, Semplicio era arrivato fino al corridoio, dove aveva incontrato un’altra dipendente, prima di riuscire a oltrepassare la soglia verso il giardinetto, che separava Villa Beldì dalla strada. 

La donna gli aveva chiesto dove stesse andando. Lui aveva risposto che si stava recando al bagno, mentre in realtà rischiava di farsela addosso per paura che il suo piano fallisse ancora.

Aveva già tentato la fuga altre volte. La prima, per andare alla ricerca di suo nipote, l’unico parente di cui ricordasse l’esistenza. 

Era stato riportato indietro da don Luigi, il sacerdote che celebrava la messa nella casa di riposo, ogni sabato sera e ogni domenica mattina. Gli stessi giorni riservati alle visite di famigliari e parenti, accolti puntualmente, all’ingresso, con la stessa musica in sottofondo. Le quattro stagioni e L’inno alla gioia: le colonne sonore di presentazione della buona atmosfera regnante in quella residenza sanitaria assistenziale, dedicata a BE-ethoven e Vival-LDI.

Don Luigi l’aveva riconosciuto, il giorno della sua prima fuga, mentre rischiava di essere travolto attraversando una strada molto trafficata, creando un caos di frenate brusche, urla degli automobilisti e clacson  che gli strombazzavano, nervosamente, contro. 

La seconda volta lo avevano beccato i carabinieri, mentre faceva pipì verso il muro, sul retro della caserma. Lo avevano identificato quasi subito, perché l’istituto aveva già segnalato il suo allontanamento, descrivendo l’aspetto fisico e gli indumenti che aveva indossato quella mattina. La direttrice della struttura gli aveva chiesto  dove volesse andare e lui, candidamente, aveva risposto che stava andando a vedere Anna Magnani.

La direttrice Di Gessa stava per sollevare la cornetta e convocare l’equipe neuro-psichiatrica, quando Semplicio era riuscito a spiegarsi meglio. La sua intenzione era di prendere l’autobus per  andare in città, al cinema Quattro Mori, per vedere un film con Anna Magnani. 

La dottoressa lo aveva informato che quel cinema l’avevano chiuso da una trentina d’anni. Avevano demolito anche il palazzo, per costruire un centro commerciale.

Per farlo stare più tranquillo, il giorno dopo, avevano portato una videocassetta del film Roma città aperta,  con Anna Magnani.

Semplicio, dopo che le luci della saletta erano state spente, si era addormentato quasi  subito e aveva iniziato a russare, tra le proteste di alcuni ospiti che  volevano rivedere e sentire quel vecchio film.

La terza volta che aveva cercato di fuggire, l’avevano beccato alla stazione ferroviaria, mentre aspettava il treno per andare chissà dove.

Nell’attesa si era addormentato sulla panchina e quando si era risvegliato era già buio. Il capostazione, che lo teneva d’occhio, aveva chiamato il maresciallo che lo aveva riportato all’istituto.

Il giorno del suo ultimo tentativo, durante l’ora di colazione, Semplicio non aveva alcuna voglia di viaggiare in treno e neppure con l’autobus. Non gli interessava più né il cinema, né la televisione. Non gli sarebbe importato neanche di incontrare una bella bionda come Monica Vitti, in persona. O quell’altra bella Monica, bruna, ancora molto giovane, rispetto a lui, che parlava in modo strano e di cui era sempre incerto se il cognome fosse Bellini, Belloni o Bellucci. L’unica Monica che avrebbe gradito, forse, era quella nel bicchiere, di succo d’uva fermentato. Da quando era segregato tra le mura di Villa Beldì, gli avevano negato anche quel piccolo piacere quotidiano.

Semplicio non aveva figli; non si era mai sposato. Aveva un fratello soltanto, che era morto da tanti anni. Il suo unico nipote era andato a vivere – come diceva lui – a Novaiorc. Da quando suo fratello se n’era andato all’altro mondo Semplicio aveva vissuto sempre in quell’ospizio; anche se nessuno osava più  chiamarlo così, era rimasto, comunque, tale e quale a prima. L’unica novità era la musica nelle ore di visita, che cessava subito dopo,  quando restava soltanto la  sinfonia del solito mortorio.

Ormai era stufo di tutto e di tutti; perciò aveva  deciso di affrettare il suo ultimo viaggio.

Non era stata una vita facile, sin da bambino, tra guerra, povertà e sfruttamento da parte di un padrone che lo trattava come uno schiavo, per una manciata  di lire. L’aveva poi cacciato a calci in culo, dopo aver scoperto che si era addormentato, invece di controllare il gregge. Le pecore avevano invaso l’orto confinante con il terreno del pascolo, radendo a zero tutte le insalate.

Non era stato felice né  da bambino – orfano di padre – né  da adulto. Sua madre portava il lutto nel cuore, nello sguardo e negli indumenti che indossava. Il fazzoletto nero sui capelli scuri, raccolti in una crocchia, che solo qualche volta, in piena estate, metteva a nudo. E la gonna lunga, che arrivava fino alle caviglie. Sua madre non era una donna espansiva, tenera e affettuosa. Dopo la morte del marito, il suo cuore si era indurito come un pezzo di pane secco. L’aveva mandato in campagna, a fare il servo pastore, per guadagnarsi un piatto di minestra, quando aveva solo otto anni. Aveva chiuso con la scuola per iniziare la pratica dura e malsana, di sorveglianza del bestiame,  senza un riparo dalla pioggia, zoccoletti di legno al posto delle scarpe e pochi indumenti addosso, anche in pieno inverno. La paura era spesso, la sua unica compagna; soprattutto quando calava presto il buio e doveva attraversare, con tutto il gregge, il Ponte dei Banditi, così  chiamato perché, in passato, vi si appostava una banda di ladri, per rapinare i  ricchi possidenti, obbligati a transitare da lì.

Per decenni Semplicio aveva subito ogni genere di soprusi dal suo padrone. Quando era tornato a reclamare i soldi dell’ultimo mese, lo schiavista non si era degnato neppure di fargli aprire il portone. Era così  tanta la rabbia che aveva  accumulato in corpo, che aveva spaccato quel robusto portale in legno, con un solo calcio, sferrato con gli scarponi rinforzati, che si era procurato da grande.

La morte non lo spaventava. Sarebbe stata la fine di tutto, di tante sofferenze fisiche e morali, e di una grande, incolmabile, solitudine.

Nel caso si fosse ritrovato in un altro mondo, non avrebbe potuto essere peggiore di quel duro calvario in cui aveva vissuto per novant’anni e più.

Il giorno prima dell’ultima evasione, si era intrufolato nell’infermeria, per arraffare i sonniferi che gli avrebbero procurato l’eterno riposo. Aveva scartato l’idea di tentare il suicidio disteso sul letto della sua camera. Era sicuro che l’avrebbero salvato. Dopo l’avrebbero marcato  senza tregua e chiuso a chiave l’infermeria, impedendogli di riprovarci.

Sarebbe diventato lo zimbello della casa. Sconfitto e deriso: di male in peggio.

Quando aveva varcato il cancello, quella mattina, aveva girato a  sinistra, verso la periferia. Dopo le ultime case sparse sarebbe arrivato fino al fiume. Aveva sentito che in quei giorni il livello dell’acqua era salito fino al  terzultimo segno tracciato sull’argine. Se si fosse tuffato dal ponte romano, dopo aver ingerito una grossa quantità di pillole, non sapendo  nuotare, nessun santo l’avrebbe salvato. Il suo calvario sarebbe presto finito.

Dopo quasi un’ora di cammino, era  giunto a destinazione. Prima  di salire sul vecchio ponte, aveva tastato le tasche  dei pantaloni, per tirar fuori le compresse di Dormix. Aveva frugato meglio, infilando le mani fino in fondo; controllato le tasche posteriori, il taschino della camicia… Niente scatola e niente pillole; forse le aveva perse strada facendo. A quel punto aveva  deciso di sedersi sopra un sasso, in mezzo all’erba. Gli facevano male i piedi, si era sfilato le scarpe ancora nuove, che era un peccato farle affogare insieme a lui. Di tornare indietro, verso quella che considerava una gabbia di matti, non aveva alcuna intenzione, La piena del fiume lo avrebbe trascinato via, sarebbe annegato rapidamente, anche senza Dormix. Aveva osservato quel flusso continuo, il gorgoglio dell’acqua sui bordi frastagliati dai sassi e lo scroscio che proveniva da un dirupo poco distante, formando una modesta cascata.

Aveva dormito poco durante la notte precedente, per la paura che si accorgessero  delle Dormix sottratte dall’infermeria. Temeva che potessero perquisire tutte le  camere  degli ospiti. Per sicurezza le aveva tolte  dalle tasche dei pantaloni e le aveva nascoste sotto le foglie secche del vaso di ficus, che stava nel corridoio.

La mattina, prima di uscire dalla struttura, aveva dimenticato di prenderle.

Era esausto. Seduto in mezzo all’erba ancora bagnata di rugiada, cullato dalla  nenia del fiume, un colpo di sonno l’aveva fatto vacillare, per poi accasciarsi lentamente sul prato. Aveva dormito finché  l’abbaiare di un cane randagio, magro, sporco e pieno di zecche, si era  avvicinato  scodinzolando e gli aveva leccato le mani. Semplicio, destandosi di colpo, si era guardato intorno senza capire. Non aveva la più pallida idea del motivo per cui si trovasse in quel luogo. La  bestiola si era  accucciata accanto a lui: sembrava si conoscessero da sempre. Osservandolo attentamente, senza alcuna certezza,  aveva pensato che, forse,  si  trovava lì perché aveva deciso di portare a spasso il suo cane, a fare pipì. 

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Discussioni

  1. La malinconia di questo racconto mi ha portato alla mente quanto la solitudine possa essere nemica nella dimenticanza. Sono molti gli anziani a viverla, condannati ad essere non sbiaditi ma neppure ricordo. Il finale mi ha allargato il cuore: l’incontro con il cane parla di un amore nascente.

    1. Ciao Micol. Hai centrato in pieno il mio obiettivo. Il cane e` esattamente un amore nascente, il nuovo appiglio per dare un senso alla vita che continua, anche quando la situazione sembra buia e disperata.
      Grazie Micol.

  2. Altro ritratto duro e crudo di una realtà che fingiamo che non esista. Molto molto bello anche questo racconto, poetico in certe parti e che trasmette tantissima tenerezza e pietà. Il finale mi ha sorpreso, mi aspettavo un epilogo tragico ma che avrebbe finalmente dato la pace e la libertà a Semplicio. Ho notato un gioco di parole degno di Fabius, BEethoven e vivaLDI 😂

    1. Ciao Carlo, grazie di cuore per i tuoi apprezzamenti. Questo racconto e` ispirato e dedicato a un uomo che ho conosciuto durante la mia attivita` in un istituto che ospitava anche persone anziane. Lui adesso e` passato a miglior vita, ed e` morto di vecchiaia. Era davvero un bravuomo che aveva sofferto e suscitava una grande tenerezza.
      Salutiamo anche Fabius, che hai nominato e che ci ha trasmesso qualcosa del suo stile. Non so se ci legge ancora o se ci ha completamente abbandonati.