Vincenzo

Eppure l’avevo istruito sui pomodori. Freschi devono essere, maturi ma sodi. Tastali e infilaci dentro l’unghia, se la buccia cede dopo una breve resistenza e un rumore croccante, prendili. Questi pomodori sono più vecchi di noi due messi assieme. Se ci infilo l’unghia si infossano quasi fossero di gomma pane. Troppo tardi per comprarne altri. Pazienza, metterò più basilico nel sugo.

Il basilico per me è la bella stagione come i mandarini sono il preludio all’inverno. C’era odore di basilico anche quell’estate, forte ad adornare la miseria dei vicoli, a prendersi gioco della fame, della ricostruzione mai avviata, di quel miracolo economico visto in televisione e pronunciato a stento nelle nostre bocche semianalfabete. Belle parole perché sentite in tv, scomode perché blasfeme per noi che i miracoli eravamo abituati a chiederli ai santi e, in casi del tutto eccezionali, alla Madonna o a Cristo in persona.

Sophia Loren era il mio miracolo economico.
Per la festa patronale avevo ammodernato un vestito di mia madre prima e di mia sorella poi. L’avevo accorciato fino alle ginocchia e come La ragazza del fiume roteavo tirandolo su con le mani. Ballavo approfittando dello sguardo noncurante di mio fratello intento a violare con gli occhi altre grazie invece di preservare le mie. Ballavo aspettando il mio Rik Battaglia che si presentò diverso dell’originale a 35 mm e con un coro di risate e schiamazzi tutt’attorno.

«Andiamo Vince’ falla ballare.»

Vincenzo lo conoscevo già da bambino. Era il figlio di Nino, il droghiere, e profumava di vaniglia e zuccherini.  A scuola noi altri bambini, piccoli e macilenti, lo guardavamo succhiare caramelle e addentare panini con la mortadella che riempivano l’aula di languore e invidia. 
Quell’estate al panino aveva sostituito la sigaretta; gli pendeva dal lato destro del labbro inferiore mentre discorreva con i suoi compagni. Lo osservavo e mi stupivo di come riuscisse, utilizzando sono un minuscolo lembo di pelle, a tenere il mozzicone incollato al labbro senza farlo cascare.
Era diventato di colpo alto, Vincenzo, ma anche grosso e prestante. Indossava dei pantaloni decisamente corti e aderenti, sorpresi anch’essi da una crescita fulminea. Non era bello, ma sapeva esserlo. 

«E dai Vince’ falla ballare»

E lui lo fece. Mi cinse la vita, mi spinse indietro per poi riprendermi subito facendomi scoprire una prossimità nuova, vertiginosa, sconosciuta ai miei 15 anni.  Si muoveva girando su se stesso, sicuro, a grandi passi, troppo grandi per i miei piedi che andavano staccandosi dal legno fracido e lamentoso e quasi non volevano tornare giù.

Andiamo Vince’ fammi volare.

Poi gli sguardi, le ore rubate, i giorni, le stagioni e gli anni. Poi Giovanni, il nostro primogenito, poi Rosa nata morta e Carlo nato vivo per il tempo che gli è servito a morire. Aveva 8 anni e un tumore che gli cresceva dentro infame, ingordo, vigliacco, avido, terribile, inarrestabile. Proprio così ci dissero alla fine, inarrestabile, e lo fecero allargando le braccia in segno di resa. Inarrestabile. Una parola che ci travolse come uno tsunami, abbattendosi con pervicacia e sadismo sul filo precario e fragile della speranza. Eppure restò lì, la speranza a combattere con lui, a nutrirsi dell’amore che scavava dentro di noi un abisso di dolore. 
Quanto può far male l’amore quando è incapace di guarire? 

Sono passati trent’anni da allora eppure ancora oggi, nonostante il silenzio duro e impenetrabile, glielo leggo negli occhi a Vincenzo il senso di colpa per aver dato a suo figlio il veleno del suo lavoro, la precarietà della cassa integrazione, l’insufficienza delle cure. Lo vedo tra le pieghe della pelle quel dolore antico, mai assopito e vorrei cancellarlo, vorrei dirgli che più di così non avrebbe potuto. Poi penso a Carlo, a Giovanni, a Rosa, all’amore che tracima e non sa guarire e quel “più di così” si svuota di senso, si smorza in gola, diventa un inchino e una mano tesa:

«Giovanotto, posso invitarvi a ballare?»

Lui sorride, stupito, ancora una volta, del mio gesto consueto. Si solleva lentamente sulle gambe malferme. Mi prende la mano, mi abbraccia. E d’un tratto il dolore e gli anni svaniscono, diventano musica, odore di basilico, rumore di legno marcio e di fuochi in lontananza. L’amore non guarisce. L’amore unisce. Per sempre. 

«Andiamo Vince’ fammi ballare.»

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Discussioni

  1. Che meraviglia. Un racconto fatto di immagini, scorre come dentro ifilm e non ci limitiamo a leggere. Sentiamo, proviamo le stesse emozioni, siamo lì, sembra quasi di poterlo toccare.

  2. È un bel soggetto. L’incipit, intrigante nel lasciare sospeso l’interlocutore, fa immaginare una coppia rodata e l’affetto a compensare certe cose che non s’imparano mai. Davvero ben fatto.
    Prosegue in un ricordo nostalgico e incantato che culmina, concentrando gli eventi, in un momento drammatico. Qui, a mio modesto parere, il lessico utilizzato in prima persona si fa un po’ troppo colto, meno calzante con quello di una persona semplice (“… ci travolse come uno tsunami, abbattendosi con pervicacia e sadismo sul filo precario e fragile della speranza”, ad esempio). In sintesi, il racconto è bello, ma credo che meriterebbe un’attenzione maggiore, in particolare nella seconda parte, dove chi racconta sembra cambiare voce. Grazie per la bella lettura

  3. È quasi ora di pranzo. Oggi non so neanche se mi vada di mangiucchiare qualcosa: troppo caldo.
    Ho notato il tuo follow e anche un racconto nuovo e così provo a leggerlo, ho ancora cinque minuti prima di dover preparare la poppata al mio gattino orfano e vorace.
    Arrivato alla parola “pervicacia”, mi sono sentito sazio, soddisfatto, contento e leggermente elettrizzato. Hai descritto una intera esistenza con delle matite colorate e una scatola di acquerelli in pastiglia. Un quadro bellissimo, davvero.

  4. Situazioni, sensazioni e persone appena tratteggiate, ma che potenza descrittiva, ogni riga induce il lettore a completare quei quadri con la sua immaginazione legandolo a doppia mandata al racconto.
    È lo stile che preferisco, asciutto, senza orpelli enfatici ma con ogni parola, anche la più semplice, dotata di profondità proprio come i sentimenti che descrive.
    Ancora complimenti.