A come Appartenenza

Serie: Abbecedario sentimentale


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Appartenenza

La prima volta che entrò in quel casale, Beatrice sentì un profumo familiare. Non sapeva spiegarsi il perché. Era la prima volta che metteva piede lì, accompagnata da un’amica conosciuta a un seminario di yoga. “Vieni a cena, siamo un gruppo strano ma gentile,” le aveva detto. Beatrice, da settimane chiusa nel bozzolo dell’ufficio e di Netflix, aveva accettato con riluttanza.

Il casale era vecchio, ristrutturato con amore: muri pieni di libri, tende leggere, sedie tutte diverse, una stufa accesa anche se era marzo. La porta d’ingresso scricchiolava. I piatti erano spaiati. Le bottiglie di vino, tante.

Ma era l’atmosfera, soprattutto, a colpirla. Un’atmosfera calda di voci, risate, una naturalezza che le mancava da anni. Nessuno le chiese da dove venisse, che lavoro facesse, se era single. Le chiesero se avesse fame. Se le andava un po’ di parmigiana. Se preferiva stare in veranda o a tavola.

Quella sera parlò poco. Ma ascoltò tutto. C’era chi suonava, chi raccontava barzellette vecchie, chi leggeva una poesia in piedi su una sedia. Nessuno giudicava. Tutti accoglievano.

Quando tornò a casa, sentiva un calore che non veniva dal vino. Una tenerezza. Come quando da bambina al mare, usciva dall’acqua e sua madre la avvolgeva con un telo grande.

Ci tornò il sabato successivo. E quello dopo ancora. Col tempo, cominciò a portare torte, libri, storie. A ridere a voce alta. A lasciarsi toccare la spalla mentre qualcuno passava. Aprì i suoi silenzi come scatole dimenticate.

Una sera d’estate, stava sul terrazzo con Miriam, una delle prime a parlarle. Il cielo era nero, le stelle immobili. Miriam le chiese: “Da quanto tempo non ti sentivi così?”

Beatrice ci pensò a lungo. Poi disse: “Da quando mia nonna mi leggeva a voce alta. Avevo cinque anni. Sapevo che ero al mio posto.”

Appartenenza, capì quella notte, non è radici, né sangue. È riconoscersi nello sguardo di qualcuno. È non dover spiegare chi sei. È sapere che, se sparissi per un mese, qualcuno ti terrebbe il posto a tavola.

Negli anni a venire, il casale divenne la sua casa. Non nel senso burocratico. Ma nel senso vero. Quello emotivo. La stanza dove puoi piangere, ridere, dormire sul divano.

E ogni volta che qualcuno nuovo arrivava, Beatrice sorrideva e chiedeva: “Hai fame?” 

Serie: Abbecedario sentimentale


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Discussioni

  1. “Appartenenza, capì quella notte, non è radici, né sangue. È riconoscersi nello sguardo di qualcuno. È non dover spiegare chi sei. È sapere che, se sparissi per un mese, qualcuno ti terrebbe il posto a tavola.”
    Una delle definizioni più belle che abbia mai letto❤️

  2. “Il casale era vecchio, ristrutturato con amore: muri pieni di libri, tende leggere, sedie tutte diverse, una stufa accesa anche se era marzo. La porta d’ingresso scricchiolava. I piatti erano spaiati. Le bottiglie di vino, tante.”
    Il paradiso in terra😂

  3. Mi è piaciuta molto la frase finale. Beatrice viene accolta a inizio racconto, e chiude con un gesto di accoglienza. Segno di come i gesti buoni siano contagiosi, medicina per l’anima.

  4. “Appartenenza, capì quella notte, non è radici, né sangue. È riconoscersi nello sguardo di qualcuno. È non dover spiegare chi sei. È sapere che, se sparissi per un mese, qualcuno ti terrebbe il posto a tavola”
    bellissima👏

  5. Stavo per scrivere esattamente ciò che ha scritto M.Luisa: adoro l’atmosfera del casale, mi piacerebbe andarci 🙂 Curiosità: ha forse descritto un luogo in cui sei stato davvero?

  6. Semplice ed evocativo. Bello che per testimoniare l’accoglienza hai scelto di usare gesti piccoli e concreti dei personaggi invece di dialoghi interiori e profondi. “hai fame”, “dormire sul divano” ,”leggere ad alta voce”, “stare in veranda o in terrazzo”, sono espressioni ed immagini estremamente ordinarie. Le hai fatte diventare muri di una casa accogliente più efficaci di dialoghi e parole.