Africa

Serie: Tutto in una sera


Una ostinata voglia di guardarsi intorno per cogliere un poco della vita degli altri. Sarà questo il filo conduttore di otto ore di apparente normalità che porterà il protagonista a confrontarsi con una serie di personaggi dalla normalità veramente unica.

    STAGIONE 1

  • Episodio 1: Africa

Ieri pomeriggio siamo stati a Padova, mia suocera voleva visitare la basilica di Sant’Antonio, immagino per chiedere la grazia di liberarsi di un genero strampalato come me e così, nonostante il caldo torrido, forti dell’attento studio di google maps, ci siamo imbarcati sul bus verso la città.

Il trasferimento è stato piacevole, aria condizionata a manetta, pochi viaggiatori e la gentilezza dell’autista che si è offerto di avvisarci di scendere quando saremo stati vicini alla basilica.

Giunti a Padova, nel breve tragitto tra la fermata del bus e la piazza della basilica ho avuto modo di osservare i passanti, è una cosa che faccio spesso quando mi trovo in luoghi che non conosco, molte facce distratte, espressioni assenti oppure perse dietro i propri problemi. Gli unici segni di vita interiore erano gli sguardi dei diversi immigrati. Glielo leggevi in faccia lo spaesamento del ritrovarsi in un luogo così diverso dalla loro casa, il senso di insicurezza, la fatica ma anche la voglia di non arrendersi. Dovrei piantarla a immaginarmi continuamente i fatti degli altri.

È pur vero che la mia attività di fotografo e di attore teatrale mi spingono a cercare di cogliere il pensiero delle persone o perlomeno quello che mi pare di scorgere nel loro sguardo, ma forse però, sarebbe il caso di non esagerare.

Tornando agli immigrati, come incrociavano il loro sguardo con il mio lo fissavano per un attimo. Chissà, forse leggevano un cenno di attenzione o forse più semplicemente notavano l’assenza di astio. Un po’ perso in questi pensieri, mentre mia moglie Teresa per l’ennesima volta mi rimproverava d’avere la testa per aria, sono stato superato da una ragazza, alta, dal corpo slanciato e un passo che esprimeva eleganza e decisione. Per un attimo ho intravisto il profilo del suo viso, che per quanto dai lineamenti delicati, indicava complice uno sguardo diretto come chi ha davanti a se un obbiettivo fermo, un carattere forte e vissuto.

Il suo vestito leggero e corto con discrezione aveva dei colori vivaci che ben si accordavano con il colore quasi nero della sua pelle. Considerata la figura e la sua bellezza statuaria, ho immaginato che potesse essere una nubiana o forse di etnia masai, oppure ancora di una qualsiasi regione africana, in ogni caso era splendida.

In poco tempo è scomparsa tra i passanti e io, con l’animo di chi ha appena apprezzato un bel quadro, ho ripreso a curiosare negli sguardi e provare a immaginare i pensieri delle altre persone che incrociavamo nel dirigerci verso l’ingresso della basilica.

La piazza del santo ci ha accolto più torrida di una sauna così che, appena abbiamo varcato il portale della chiesa, siamo stati presi da un vero sentimento di riconoscenza mistica per la frescura dell’interno. Mia suocera si è subito sistemata in una delle panche e ha iniziato a sciorinare la lunga lista di grazie da chiedere.

Immaginando che sant’Antonio, vista la marea di penitenti e turisti che via via andava presentando le richieste più varie, avrebbe messo in elenco tutte le desiderata secondo l’ordine di arrivo per poi rispondere personalmente a ognuna di esse, ho preferito impegnare l’attesa in un giro di osservazione per le diverse ali e cappelle della chiesa.

La struttura è veramente imponente, una navata centrale e due laterali quasi della stessa stazza e su queste ultime si affacciano una serie continua di cappelle piuttosto capienti e dalle pareti affrescate con figure di carattere religioso, in pratica la vita di diversi santi esposta a puntate con martìri, lapidazioni e fiamme infernali in abbondanza.

Nella prima di queste cappelle, quasi una chiesetta di campagna riccamente addobbata, stava una sola persona, un nero che più nero non si può, seduto in disparte a ridosso della parete, con la schiena curva e immobile su un libro aperto tenuto sulle ginocchia. Il suo sguardo, se pur chino, non era volto verso la scrittura ma fissava un punto nel vuoto verso il pavimento quasi che sentisse su di sé il peso di colpe non sue e per le quali ne cercasse la ragione.

Nel suo stare assorto e immobile pareva in attesa d’una spiegazione che invece stava anch’essa immobile e muta nel silenzio. Per cercare di osservarlo meglio, lo so sono curioso e poco rispettoso della riservatezza altrui, ma il desiderio di provare a cogliere qualche suo pensiero attraverso l’espressione del suo viso era troppo forte, ho fatto qualche passo in avanti e solo allora mi son reso conto che all’interno della cappella vi era anche un’altra persona.

Semicoperta dal primo banco stava inginocchiata per terra, prostrata, con la testa un poco reclinata su un lato come abbandonata, poggiava l’angolo della fronte sul primo gradino dell’altare, le braccia stavano un poco aperte e distese sul marmo quasi in una sorta di abbraccio. Stava così, immobile, silenziosa come l’aria della cappella. I colori del suo vestito così come la selva di riccioli del suo capo, mi dicevano che era la stessa ragazza dal camminare elegante e deciso che mi aveva superato mentre ci dirigevamo verso la chiesa.

Sorpreso dal contrasto dei diversi atteggiamenti son rimasto alcuni minuti a osservarla. Al pari del signore seduto con il libro sulle ginocchia, non si muoveva minimamente, pregava, immobile, in silenzio, ma pregava. Teneva gli occhi chiusi, abbracciata all’aiuto che chiedeva allo stesso modo di un bimbo che in braccio alla madre cerca con le sue corte braccia di cingerla per intero.

Abbandonata così, in quella posizione di umiltà e conforto pareva una statua raffigurante il dolore materno. Non so perché la sua posizione mi abbia suggerito quell’immagine, l’impressione che ne ho avuto è stata quella di una persona che cerca ristoro non tanto per se, quanto per qualcuno a lei cara. Il viso leggermente di lato come rivolto verso una ipotetica figura al suo fianco, il braccio destro un poco più aperto dell’altro come teso verso un affetto, gli occhi chiusi come a tenere dentro di se un’immagine o un pensiero, tutto ciò mi portava a pensare che quella donna pregasse non per se ma per un famigliare, forse un figlio.

Serie: Tutto in una sera


Avete messo Mi Piace2 apprezzamentiPubblicato in Narrativa

Discussioni

  1. Un racconto in cui il protagonista si guarda intorno, osserva cercando di andare oltre le apparenze, come se volesse scoprire l’ interiorità delle persone che casualmente incontra fuori e dentro la basilica. Ammira la bellezza esteriore, elegante e decisa della donna africana che rivela la sua profonda umilta, prostrandosi in preghiera, nella disperata ricerca di aiuto, non per sé ma per qualcuno che le sta particolarmente a cuore.
    Un racconto che invoglia a saperne di piú; spero, quindi, che i prossimi episodi ci svelino altri aspetti importanti sulla donna con la pelle quasi nera, mentre la suocera dell’ uomo che racconta, continua a “sciorinare la sua lunga lista di grazie da chiedere”. Frase ironica molto divertente.

    1. Grazie M.Luisa, hai sempre uno sguardo sensibile su ciò che scrivo. Si, nei prossimi episodi ci saranno nuovi personaggi, ognuno con la sua vita.
      (Sempre che il server del portale di EdizioniOpen si decida finalmente a non bloccarsi ogni volta che cerco di inserire un nuovo episodio)

  2. Una bella idea, davvero. In questo primo episodio sei riuscito nel tuo intento. Hai trasformato una semplice gita in autobus in un viaggio nell’anima delle persone. Hai colto sfumature che spesso ci sfuggono: uno sguardo, un passo, un gesto… e su quelle hai costruito un mondo fatto di pensieri, intuizioni e piccole verità. C’è empatia, curiosità e anche una delicatezza che rende tutto molto umano. Una partenza promettente. Bravo 👏👏

    1. @Tiziana.M Grazie Tiziana, mi aiutano molto nell’attitudine alla osservazione altre due compagne che insieme alla scrittura, stanno di casa tra i miei pensieri. La fotografia ed il teatro, entrambe osservano e fanno proprie le emozioni degli altri e come con lo scritto, cercano di descriverle per altri ancora. Insomma, si danno un mano l’un l’altra.

  3. Ho letto con piacere questo brano. Il gusto mi parso quello del diario, le pagine con cui si fanno certe riflessioni e si sonda un il proprio animo. La senzsazione è che ci sia un cambio di tono, allorquando il protagonista giunge in presenza della basilica, così come mutano le descrizioni delle figure tra dentro e fuori la chiesa. Personalmente, trovo la scrittura in prima persona più impegnativa (la seconda per i maestri) e vincolante rispetto alla terza. Perché, oltre a non offrire il bene dell’onniscenza, è più difficile da renderla una voce legata a un personaggio altro da chi scrive (eccezion fatta logicamente per uno scritto autobiografico). Grazie per la piacevole lettura

    1. @rusaniol Grazie Paolo per le tue parole, mi riconosco nel tuo commento. In fondo ci siamo sempre noi dentro le storie che scriviamo, con altre vesti o azioni, siamo in tutto o in parte i nostri personaggi. Distinguere, almeno per quello che mi riguarda, l’autobiografico dalla finzione non è semplice, tra esse c’è sempre una terra di nessuno in cui solitamente volente o nolente vado a sguazzare. Hai ragione anche per i cambi di tono, in parte son dovuti alla mia inesperienza nello scrivere, per il resto al desiderio di spezzare un tono monocorde che toglie interesse alla lettura e infine, anche al tentativo di rappresentare i nostri cambi di umore o più semplicemente di attenzione.

  4. Uno sguardo curioso e sincero su uno scorcio di bellezza italiana in un giornata qualsiasi. Mi piace molto l’uso della prima persona che rende ancora più vera la narrazione. Un po’ come essere condotti noi stessi alla scoperta della basilica.
    Molto intensa l’immagine della ragazza, anch’essa un’opera d’arte.
    Piacevole lettura.

    1. Grazie Cristiana, ogni volta che scrivo mi ripropongo di usare la terza persona, ma invariabilmente mi ritrovo invece a parlare in prima. Credo mi sia più congeniale, probabilmente perché come forma la trovo più intima. Naturalmente ciò non toglie che prima o poi mi debba decidere ad abbandonare la via facile in favore di altri, se pur per me rischiosi, spazi espressivi.

      1. A me piace molto ‘giocare’ in questo senso. Quando mi sento spregiudicata, amo usare la prima persona e andarci forte e diretta. Quando prevalgono emozione e pudore, capita che mi nasconda dietro alla terza persona ☺️