Alghero

Il lungo tavolo del buffet era imbandito con vari tipi di pane: carasau, zichi, spianate, civraxiu a fette, focaccine con ricotta (costedda cun arrescottu), focaccine con uva passa (costedda cun pabassa); ma soprattutto dolci tipici di quella zona dell’isola.

Su’ e Gi’ avevano assaggiato e gradito, senza badare a diete, salute o galateo. Erano andate a sedersi col piatto colmo di ogni ben di Dio. L’unica esitazione l’avevano avuta prima di addentare i biscotti decorati con la glassa, che sembrava un peccato doverli ridurre in una poltiglia, per passare dalla bocca allo stomaco e – come diceva qualcuno di Iglesias – dal pilloro all’intestino.

«Mi dispiace che una parte di questi gioielli debba finire nel WC. Starebbero bene in uno scrigno d’argento» aveva commentato Gi’, mentre divorava un dolcetto dopo l’altro.

Quando Fernanda, la proprietaria del B&B, si era avvicinata al loro tavolo, aveva domandato a Ginetta se il piede le facesse ancora male. L’urto contro la sedia della camera da letto le aveva lasciato un lieve edema e un piccolo ematoma.

«Si, un po’.»

«Dovresti Andare a Ozieri, a farti controllare. Se ci fosse qualche piccola frattura, non andrebbe trascurata. In ospedale, questa mattina, c’è anche Enrico, mio figlio. Lui potrebbe esserti d’aiuto»

L’esimio dottor Fermi: basterebbe un suo sguardo per cicatrizzare anche l’osso di un bue. Era stato il pensiero ironico di Susi, mentre sulla sua bocca, più che un sorriso forzato, compariva una smorfia.

Gi’ aveva ascoltato con interesse, illuminandosi come la luce di un faro, sopra uno scoglio, in piena notte. E mentre Fernanda si allontanava, dopo aver riflettuto un istante, si era rivolta alla sua cara amica Susi.

«Tu aspettami in camera, fatti le parole crociate; oppure esci e vai a vedere… le cascate. Io vado a Ozieri.»

«Non ci sono le cascate in questo paese.»

«Ah, no? Peccato. Allora potresti andare a spasso nelle strade affollate.»

«Si, certo, affollate di foglie*, nel viale che porta al belvedere.»

«Giusto. Buon’idea.»

«Ma non dovevamo partire?»

«Si, più tardi, o stasera, o boh!»

«Ma… il treno passa fra due ore. Qui non siamo mica a… Singapore.»

«Che c’entra Singapore?»

«Perché… perché lì ti puoi imbarcare col primo vapore. Te la ricordi la canzone? “Singapore, vado a Singapore, benedette care signore”.»

«Si, si, me la ricordo: “Singapore, vado a Singapore, che mania di fare all’amore.” Comunque, se vuoi andare a casa…»

«In che senso?»

«Hai presente i muri color kaki, le finestre in PVC, il tetto con l’antenna e il fumaiolo? Casa tua, Susi. Se hai fretta di tornarci, arrivi a Berchiddeddu, prendi il prossimo treno e vai. Io vado a Ozieri.»

«Ma la macchina, la Porsche, non hai paura che te la rubino un’altra volta? Tuo cugino ha detto che te l’hanno riportata sotto casa.»

«Fanculo alla Porsche e a tutti i ladri di macchine, di motorini e di biciclette. Non mi importa nulla. Io vado a Ozieri.»

«Ma come ci arrivi? Mary e Betta sono uscite con la Jeep per andare ad Alghero. Chissà a che ora tornano.»

«Non ti preoccupare, qualche mezzo lo trovo.»

Il mezzo sul quale era salita, poco più tardi, era il furgone di un tizio che trasportava prodotti surgelati. Uno dei fornitori abituali del B&B, che faceva la spola da Ozieri, ai tanti paesi del Logudoro.

Il tizio non sembrava molto entusiasta di darle un passaggio, anche se lei gli aveva lasciato intendere che la visita in ospedale era della massima urgenza. Una questione di vita o di morte, o quasi.

Il tizio non poteva immaginare quale fosse lo stato febbrile, da cui Gi’ era afflitta. Tanto meno poteva sapere qualcosa del suo minolo destro, inizialmente contuso e ormai quasi guarito. Di certo non poteva intuire il vero motivo dell’urgenza che spingeva quella donna ad avanzare richieste sfacciate e incoscienti, al primo autista di passaggio verso Ozieri.

Quando Gi’ si era sistemata accanto a lui, in cabina, non potendo metterla a refrigerare con i surgelati, si era presentata col suo nome e cognome di battesimo. «Piacere: Regina Matta.»

Lui aveva abbozzato un sorrisetto sotto i baffi, senza dirle il suo nome per intero, né il suo diminutivo e neppure il soprannome da camionista. Un plantigrado meno loquace della roccia granitica di Capo d’orso, a Palau.

Aveva acceso l’autoradio per sentire la radiocronaca di una partita di calcio e quando Ginetta aveva tentato di socializzare, lui l’aveva zittita con l’indice e uno sguardo minaccioso. In quel momento agli occhi di Gi’ era comparsa la visione di un tipico uomo rude del paleolitico, con la clava accanto, a portata di mano.

Si era rassegnata a tenere la bocca chiusa, felice comunque, per la meta che avrebbe raggiunto di lì a poco, con o senza le chiacchiere col bruno, come l’orso.

Il tizio, dopo aver controllato l’orologio, con la cortesia di un antenato dell’era preistorica, che trascina la donna per i capelli, l’aveva scaricata al bivio d’ingresso del paese, avendo altre consegne da fare a Pattada, e poco tempo da perdere.

Ginetta si era posizionata sul bordo strada, con la speranza che qualcuno si fermasse. Dopo un po’, stanca e scoraggiata, si era seduta sopra un cippo di trachite.

Se ci fosse stata Susi, avrebbero riso insieme e, di sicuro, non si sarebbero perse d’animo. Loro due, negli ultimi tempi, vivevano in simbiosi, sostenendosi a vicenda. Ma Gi’ aveva deciso di andare ad Ozieri, senza averla tra i piedi. Il suo film non prevedeva candele di alcun genere e nessun’ amica che reggesse il moccolo.

Una Mercedes con tre uomini a bordo aveva frenato bruscamente, strisciando le gomme sul’asfalto. L’aspetto dei volti le era parso un po’ losco. La sensazione di tre detenuti appena evasi da Bado ‘e Carros, con la scritta Wanted sulla fronte. Nonostante la sua spiccata inclinazione all’incoscienza e lo scarso senso del pericolo, aveva sentito un brivido di paura lungo la schiena. L’Ape Car che stava arrivando in quel momento poteva essere un’ancora di salvezza. Aveva ringraziato i tre loschi maschi, mentre pensava di tornare indietro verso l’uomo che aveva chiamato “mio marito” in arrivo.

«Chissà cos’ha cacciato oggi. – aveva aggiunto – Di solito, con i suoi amici, porta a casa un cinghiale. Ed è sempre lui che lo colpisce: ha una mira infallibile.»

L’uomo dell’Ape Car viaggiava con il figlio: per lei non c’era posto neanche nel cassone, carico di sacchi pieni di granaglie e di mangimi vari per i suoi animali.

Anche i due pullman dell’ARST, uno prima e l’altro dopo un’attesa che sembrava più lunga di una notte intera, nuda, sul marciapiede, sotto la grandine, erano passati dritti, nonostante i suoi cenni disperati per indurli a fermarsi.

Gi’ era sul punto di piangere quando, a un tratto, come per miraggio, sul lato opposto della strada, aveva visto una macchina che rallentava e sostava, il vetro del finestrino che andava giù e come in un sogno a occhi aperti, la faccia stupita del conducente per chiederle, infine: «Che ci fai tu, qui?»

Si era precipitata, attraversando la strada di corsa e cercando di trattenere le lacrime di commozione che avevano prevalso sul pianto soffocato in gola, per la paura. Si sentiva graziata, dopo tante suppliche, come se avesse appena ricevuto un miracolo, insieme alla presenza stessa del santo.

«Enrico!!»

«Allora, che ci fai tu qui?»

Lei esitava, non sapendo cosa inventarsi. Di arrivare all’ospedale non le interessava più, neanche un po’. Di raccontargli la verità, cioè tutte le fantasie che le frullavano in testa, non le sembrava il caso.

«Hai visto che giornata splendida? Il tempo ideale per fare un bel giro» aveva risposto infine, eludendo la sua domanda.

«Dove vorresti andare?»

«Non so, ad Alghero?»

«Ad Alghero? Forse la geografia non è il tuo forte. E neppure il senso dell’orientamento, credo. Hai idea di dove siamo?»

«Beh, si… ma che ci vuole, col tuo bolide.»

«Più che un bolide, questa Golf è un vampiro. La comprò mio padre, di seconda mano, e dopo averla usata per molti anni, la lasciò a me. Tra spese varie, riparazioni e stress, mi succhia lo stipendio e l’anima.»

«Perché non la cambi?»

«Ci sono affezionato.»

«Non dirmi che le fai anche i massaggi con la spugna impregnata di schiuma sulla carrozzeria.»

Lui non aveva risposto e dopo qualche minuto di silenzio, le aveva chiesto per la seconda volta: «Allora, come mai sei finita qui al bivio per Ozieri?»

«Guarda! Un piccione: è un segno.»

«E cosa significa?»

«Dunque… uccello viaggiatore, quindi… che dovremmo fare un viaggetto.»

«Un viaggetto? In aereo? »

«No, con la tua macchina, da qui ad Alghero.»

«Si, certo, in compagnia di uno straniero.»

«Beh, un po’ lo siamo. Io per te e tu per me. Io del sud e tu del nord o nord-est.»

«Più centro che nord-est.»

«Okay, Centro, andiamo a nord-ovest?.»

«E va be’… ajò a l’Alguèr.*»

*affollate di foglie: in sardo foglia si dice folla; quindi il termine affollate si presta per un gioco di parole a doppio senso.

*E va be’… andiamo ad Alghero. (Alguèr non è un termine dialettale sardo ma catalano.)

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Discussioni

  1. La tua ironia mi ha fatto sorridere dall’inizio alla fine! Bellissimo capitolo! Ci sono troppi passaggi di cui avrei fatto citazione per evidenziarne l’arguzia di spirito. Davvero un ottimo lavoro.

    1. Ciao Rita, grazie.
      Le tue parole sono “Brodo caldo per l’ anima”, per usare il titolo di un vecchio libro di un’ autrice di cui non ricordo il nome. La mia aspirazione principale, come scrivo spesso, e` proprio quella di suscitare qualche sorriso. Se questo succede: “missione compiuta”. Anche se l’ ideale sarebbe commuovere e divertire, ma non so se ne saro` mai capace.

  2. L’ossigeno respirativo, ispirativo, c’è e si vede, tuttavia da addetto ai lavori mi sento di dire che i dialoghi hanno bisogno di far capire chi sono gli interlocutori e come si comportano di fronte alle varie frasi, che hanno una loro forte ironia e svelano temi umani legati al viaggio che mi hanno fatto pensare.

    1. Ciao David, hai ragione, lo scarso approfondimento delle figure che rappresentano gli interlocutori e` un inconveniente legato alla mia pretesa di scrivere una serie con episodi autoconclusivi. Ho accennato soltanto, in questo racconto, che Enrico e` il figlio di Fernanda del B&B. Che Gi’ e`attratta da lui lo lascio intuire quandi dico che il suo viso si illumina come quello di un faro, quando la madre (Fernanda), le riferisce che lui e` in servizio, quella mattina, all’ ospedale di Ozieri. Pero` credo davvero che tu abbia ragione: per chi non ha letto o non ricorda le vicende precedenti, risulta difficile fare tutti i collegamenti.
      Grazie per avermelo fatto notare. Avevo gia` qualche dubbio anch’io.

  3. Mi piace molto la definizione di @kenjialbani Molto buffo! Ritmo velocissimo, molto buoni i dialoghi e poi mi piace questo stato di follia mista a eccitazione che aleggia. Hai creato un personaggio particolarmente vivo e vivace che meriterebbe uno spin off. Perché non pensarci? Abbraccioni Maria Luisa

    1. Ciao Cristiana, i tuoi commenti molto lusinghieri finiranno per farmi prendere sul serio questa storia semiseria. Non so ancora quanto sconclusionata, finche` non avro` chiara in mente la conclusione della storia, che si allontana sempre piu`.’ Pero` ti ringrazio sinceramente: hai dato gas per far salire il pallone, non dico fino a toccare il cielo, ma comunque, fino ad arrivare, bene o male, a quota 24.
      Un forte abbraccio.

    1. Grazie kenji. Il mio intento e` anche quello di portarvi qui, per una vacanza al mare o nelle zone interne piu` selvagge della Barbagia, in corpo-mente e spirito; oppure solo con la fantasia. La mia, per le descrizioni, e la vostra, per visualizzare meglio.
      Ciao e grazie ancora.

    1. Ciao Menji, uno degli obiettivi principali di questi episodi e` proprio quello di suscitare qualche sorriso, per un attimo di leggerezza e di distrazione da tutte le atrocita` che abbiamo intorno. E poi – detto tra noi – certe baggianate che scrivo, fanno sorridere me per prima.

    2. Ciao Kenji, uno degli obiettivi principali di questi episodi e` proprio quello di suscitare qualche sorriso, per un attimo di leggerezza e di distrazione dalle atrocita` che abbiamo intorno. E poi – detto tra noi – certe baggianate che scrivo fanno sorridere me per prima.

  4. Bella la descrizione dello smarrimento all’ingresso del paese. Molto realistica. Ho immaginato la vecchia e larga Mercedes, magari un modello 240d degli anni ’80 (https://thumbor-production-auction.hemmings.com/221638/82-benz-240d.jpg) polverosa ed ammaccata, con quei ceffi a bordo, il guidatore con il nerboruto braccio fuori dal finestrino, l’orologio d’oro , il bracciale d’acciaio, un anello ingombrante ed una sigaretta fra le dita. Il tutto possibilmente condito da pancette vistose, baffi neri ed occhiali da sole con la montatura nera e squadrata…
    Troppi stereotipi? No, solo Mercedes anni ’80 in una campagna siciliana… basta questo. Il resto è logica conseguenza.

    1. Ciao Giancarlo, sarei tentata di modificare il mio racconto, integrando, parola per parola, la tua descrizione della Mercedes modello240d e quella dei due ceffi. Mi e` piaciuta un sacco. Peccato che sarebbe un plagio. Grazie e complimenti a te.

    2. Ho visto la foto. L’ idea, piu` o meno, era quella. Solo il colore che avevo in mente era diverso, sul nero. Le macchine scure mi appaiono piu` cupe e quindi piu` adatte alla situazione in cui aleggiava la paura.

  5. Non vedo l’ora di leggere il prossimo episodio, che suppongo sarà ambientato ad Alghero! Ci sono stato da poco. Dopo Cagliari, che ovviamente è al primo posto delle mie città sarde, viene subito Alghero. Ajo ad Alghero!

    1. Ciao. Anch’ io adoro Alghero. Se dovessi fare una classifica, tra la citta` catalana e Cagliari, avrei difficolta` a scegliere. Mi verrebbe voglia di andarci ogni volta che sento il bisogno di staccare, di cambiare aria. Per il prossimo episodio, se tutto procedera` per il verso giusto, dovrebbe essere quella la prossima tappa. Chissa`!?
      Ciao, grazie per le tue parole e buona domenica.