Alina

Tutto era ormai deciso. Avrei lasciato quella casa con tutti i suoi ricordi quella notte stessa. Non avrei potuto aspettare oltre, era arrivato il tempo, il momento in cui avrei finalmente il preso il coraggio a due mani e sarei fuggita da quel luogo maledetto dove la mia vita era diventata un inferno, prigioniera di una famiglia che non aveva voluto accettare la mia diversità, il mio amore per un’altra donna, Alina.

Ci eravamo conosciuti 2 anni prima a Mosca. Mi trovavo con i miei compagni in gita scolastica nella capitale, quando un attacco di appendicite mi costrinse al ricovero con urgenza. Fu lei il medico chirurgo che mi operò, e fui di lei che mi innamorai. Alina lavorava nella chirurgia estetica, una scienza nuova su cui alcuni medici puntavano tantissimo, ma quella notte era di turno al pronto soccorso e si adoperò per la mia appendicite al meglio.

Ero da tempo conscia della mia omosessualità ma fu solo dopo l’incontro con Alina che vinsi ogni tabù e lo ammisi a me stessa. Fu una liberazione, l’inizio della mia felicità e al contempo del mio calvario famigliare, ma quest’ultimo, fortunatamente, aveva ormai le ore contate.

Il piano era stato accuratamente preparato, nei minimi dettagli. Alina aveva 10 anni più di me e si vedevano tutti, non nel fisico ma nella testa. La sua maturità la sua calma la sua esperienza erano stati determinanti nel mettere a punto il nostro progetto.

Col passare delle ore e l’avvicinarsi dell’evento l’eccitazione cresceva. Dopo cena i miei si sarebbero coricati molto presto come al solito, ancora prima dell’anziana nonna, usa a passare ancora qualche ora china a ricamare pizzi sulla vecchia macchina da cucire .

Mi sdraiai sul divano, e consumai l’attesa sfogliando distrattamente una rivista. Sentii qualcosa premere sulla coscia dall’interno della tasca. Me ne ero quasi scordata, era l’anello che Alina mi aveva regalato e che quel giorno avevo deciso di tenere con me. Finalmente da lì a poco avrei potuto indossarlo e godere della sua bellezza, finalmente non lo avrei dovuto tenere più nascosto. Iniziai a giocare con lui, facendolo scorrere lungo l’anulare. Così facendo mi resi conto di essere tesa. Feci un lungo respiro per allontanare la tensione e chiusi gli occhi. Il pensiero che da lì a poche ore Alina mi avrebbe raggiunto mi riportò immediatamente alla calma.

Alle 22:00 in punto mi alzi dal divano e mi diressi verso la camera da letto dei miei. La luce fioca di due candele, poste sopra l’inginocchiatoio di fronte alla sacra icona, illuminava tenuamente di riflesso i loro visi. Gli occhi chiusi ed il respiro profondo mi rassicurarono. Si erano addormentati. 

Voltai indietro nel corridoio verso la mia camera. Vi entrai e con calma aprii il cassetto del comodino estraendone il portagioie. Vi infilai la chiave e lo aprii. Lì avevo nascosto la boccettina di cloroformio concentrato che Alina mi aveva procurato insieme ad una mascherina protettiva che infilai immediatamente. Ne versai metà su un fazzoletto, poi presi dal vecchio baule, dove ancora conservavano i giochi da bambina a me più cari, la corda per saltare e mi diressi verso la stanza della nonna.

Non mi sentì neanche entrare, il rumore della macchina da cucire coprì quello dei miei passi. Mi avvicinai fino ad esserle dietro e poi con forza premetti il fazzoletto sul suo viso. Perse i sensi in un attimo accasciandosi sulla macchina. Presi la corda, la passai intorno al collo e iniziai a stringere con tutte le mie forze incrociando le braccia, finché capii che quello appena esalato era stato l’ultimo respiro.

Ritornai verso la mia camera e versai di nuovo abbondante cloroformio sul fazzoletto poi presi l’ultimo dei regali di Alina, un affilatissimo bisturi e mi affrettai verso la stanza dei miei. Li trovai addormentati stretti uno di fianco all’altro con i visi che quasi si toccavano. “Meglio” pensai, “sarà ancora più semplice”. In pochi secondi si ritrovarono entrambi anestetizzati e io potei dare loro in tutta tranquillità l’ultimo saluto. Slacciai lentamente il pigiama di mio padre e la camicia da notte della mamma scoprendo loro il petto e poi con cura impugnai il bisturi. Lo appoggiai prima sul costato del papà, esattamente nel punto dove Alina mi aveva spiegato. Spinsi a due mani con tutta la mia forza verso il basso e vidi il bisturi penetrare nel petto di papà come una lama nel burro, fino ad arrivare dritto al cuore.

Non si accorse di nulla, solo la testa ebbe per una frazione di secondo un leggero movimento impulsivo. Guardai con soddisfazione l’esito del mio lavoro, ero stata brava, avevo seguito alla perfezione le istruzioni di Alina. “Se sarai precisa non vedrai fuoriuscire che poche gocce di sangue”, e così era andata. Ripetei la sequenza con la mamma, ed anche lei spirò senza nemmeno rendersene conto. Tamponai le ferite e richiusi loro i pigiami. Ora mi aspettava il lavoro più faticoso, quello di posizionare mamma e papà sull’inginocchiatoio, quello che era il loro luogo abituale di preghiera, quell’inginocchiatoio maledetto dove mamma e papà ogni sera pregavano prima di coricarsi. Pregavano il signore, lo pregavano affinché la loro bambina potesse guarire dalla sua malattia, l’omosessualità, perché quella vergogna avesse fine.

Li avevo accontentati.

A fatica li posizionai uno di fianco all’altro inginocchiati davanti al signore. Non fu facile e dovetti legarli con una corda all’inginocchiatoio affinché non cadessero, poi tornai nella camera della nonna e la trascinai nella stanza dei miei, posizionandola infine sulla sedia a dondolo di fianco al letto. 

“Veglia per loro Nonnina, ninna ah…ninna oh”

Alle 22:30 tutto era compiuto, accesi il camino affinché i miei cari non soffrissero il freddo e aspettai pazientemente l’arrivo di Alina, ma non solo. A farle compagnia ci sarebbe stata Veronika, una paziente ormai una sua amica, convinta a passare un week end di riposo a casa nostra, nella bellezza delle campagne fuori San Pietroburgo.

Già, VeroniKa, l’inconsapevole ispiratrice di tutto ciò, la ragazza che poco meno di un anno prima era stata ricoverata all’ospedale di Alina con il viso parzialmente devastato da un incidente, uno scoppio sul lavoro in cui era rimasta coinvolta. Alina notò subito in lei una forte rassomiglianza con me; la corporatura, il colore dei capelli e degli occhi, la carnosità delle labbra. Tutto nacque da lì, da Veronika e dall’idea di Alina di ricostruirle il viso il più possibile a mia immagine e somiglianza.

Era ansiosa di vedere Veronika, ero ansiosa che tutto finisse. Alina sarebbe arrivata in auto, presa a noleggio a Svirstroy, una vera chicca per me che su un’auto era salita solo poche volte. Finalmente la sentii arrivare e quando aprii puntai dritto lo sguardo su Veronika. Per un attimo ebbi la sensazione di trovarmi davanti ad uno specchio, tanto la somiglianza  era forte.

Ma non ci fu tempo per i convenevoli, l’ultimo treno da San Pietroburgo per Mosca sarebbe partito alla mezzanotte e trenta. Veronika non ebbe neanche il tempo di capire, si ritrovò addormentata tra le mie braccia. La trascinammo nella camera dei miei, poi presi la pistola di papà, la misi nella mano spenta di veronika e l’avvicinai alla sua tempia. Alina appoggiò il suo indice su quello di veronika e premette il grilletto. E anche per lei arrivò la pace.

Corsi in camera mia, presi il bagaglio che avevo preparato e nascosto nell’armadio ed il diario sui cui avevo annotato giorno dopo giorno la mia infelicità e il desiderio di farla finita. Lasciai il diario sul letto dei miei, guardai per l’ultima volta la famigliola riunita, questa volta al completo: anch’io ero finalmente morta.

Presi i documenti di Veronika salimmo di corsa sulla macchina di Alina partendo a tutta velocità verso la Stazione di San Pietroburgo. Lì le nostre strade si sarebbero divise, io in treno verso Mosca, Alina in auto in direzione di Svirstroy, dove il giorno seguente avrebbe riconsegnato l’auto e preso a sua volta un treno in direzione Mosca.

Arrivai a Mosca nel primo pomeriggio. Alla stazione presi un Taxi e mi feci portare a casa di Alina. Avevo le sue chiavi, l’avrei aspettata lì.

Non provavo alcun rimorso per quello che avevo fatto, al contrario ero eccitatissima da quello che mi aspettava. Una grande città, un grande amore una vita davanti. 

Aspettai Alina, l’aspettai a lungo l’aspettai invano. Alina non arrivò mai, morta tragicamente nella notte in un incidente stradale a pochi kilometri da Svirstroy.

Dal diario di Pavlina Fëdorova, rea confessa di 4 omicidi e morta suicida in carcere a 20 anni, dopo tre mesi di detenzione, il 23 settembre 1936.

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