Alla luce del giorno

Il cortile è un rettangolo angusto sovrastato dalla mole scalcinata del palazzo che gli disegna intorno un ferro di cavallo, un fondale di cemento su cui il sole tratteggia le sagome volatili dei balconi di ringhiera, dei panni stesi, delle antenne paraboliche che si occhieggiano l’un l’altra come per sfida.
Nel cortile condominiale va in scena ogni giorno lo stesso teatrino di ombre, che il sole stira e accorcia mano a mano che consuma la sua traiettoria.

Conosco il cortile e le sue ombre da tutta la vita, la mia finestra al terzo piano sul lato nord è il palchetto di un teatro dove vanno in scena ogni giorno commedie degli equivoci e piccoli drammi corali.

Attrici e attori sembrano consapevoli del mio sguardo che, dietro la trama fine di una zanzariera, segue fedelmente il filo delle loro occupazioni e dei loro andirivieni, ma fingono di non accorgersene, come avessero sottoscritto un tacito accordo in cui si impegnano a tollerare la mia curiosità indiscreta. Compatiscono lo spettatore al punto da accordargli il diritto ad affacciarsi sulle loro vite, o su quel che di esse attraversa ogni giorno il cortile, siano le imprecazioni contro chiavi smarrite, le confidenze strillate a voce altissima nel corso di una telefonata in balcone, o i bisticci domestici che oltrepassano le finestre aperte e squarciano la canicola nelle notti d’estate.

Per loro, sono il povero invalido del terzo piano- così a modo, saluta sempre quando incroci il suo sguardo alla finestra- e, impietositi, tollerano che io li osservi.

Essere guardati è un’arte. Il soggetto modula se stesso sotto lo sguardo dello spettatore come le ombre dei panni stesi si dilatano e si contraggono al variare dell’inclinazione da cui giunge la luce.

La donna del secondo piano, lato ovest della palazzina, si passa meccanicamente le mani nei capelli davanti allo specchio del bagno, nel tentativo di raccoglierli in una coda di cavallo che ne nasconda la ricrescita color ardesia. Studia il suo riflesso nello specchio cercando di vedersi attraverso gli occhi dell’uomo che da qualche settimana la riaccompagna a casa, il primo con cui la si vede in giro dopo il divorzio. Sola nel bagno, vede nello specchio gli occhi di lui, e non sa che la finestra è un altro specchio dal quale anche io la sto guardando.

Nel balcone di fronte, il suo vicino spruzza insetticida sulle piante. Ha già lavato due volte i pavimenti e sbattuto i tappeti, mentre le finestre della casa sono spalancate per arieggiare l’appartamento in vista dell’arrivo dei funzionari dell’immigrazione che decideranno se concedere l’autorizzazione al ricongiungimento familiare.

Se la visita di oggi andrà bene ci vorranno solo pochi mesi, come gli si sente ripetere da giorni nel corso delle telefonate alla moglie in Pakistan.

Al piano di sopra, una donna ancora in pigiama siede al tavolo della cucina davanti alla finestra aperta, accende l’ennesima sigaretta e accarezza distrattamente il gatto che passeggia avanti e indietro sulla tavola.
Con ogni probabilità, nel corso della prossima mezz’ora il telefono che tiene sul bancone emetterà quell’odiosa nenia al pianoforte accompagnata da intense vibrazioni dell’apparecchio, segnalando alla proprietaria che una delle sue amiche la sta cercando. Da lì avrà inizio una lunghissima invettiva contro l’inefficacia delle pillole per la pressione, l’inedia del suo medico curante, l’inefficienza del trasporto pubblico, la maleducazione del figlio della dirimpettaia, che con la sua moto di grossa cilindrata ammorba l’aria del cortile, per non parlare della prepotenza dell’odore di spezie che viene dall’appartamento di sotto.

Frattanto le sue dirimpettaie, due studentesse, stanno attrezzando il loro angusto balcone di ringhiera con sedie a sdraio e un ombrellone Algida. Costumi da bagno e ventagli di plastica alla mano, sono pronte per prendere il sole.
Non possono permettersi il volo per tornare in Sicilia in alta stagione, trascorreranno l’estate in questa città di merda che non ha nemmeno il mare.

La loro coinquilina, che a giudicare dalla mole di volumi e blocchi di appunti che tiene sulla scrivania sotto la finestra sta preparando diversi esami, ha detto loro chiaramente che non intende andare ad abbronzarsi sul balcone, non finché quel pervertito sempre alla finestra non si darà una calmata.

Giorni fa si è presentata a casa mia e ha suonato il campanello per affrontarmi di persona, ma in casa non c’era nessuno che potesse aprirle la porta, e non ha ricevuto risposta. Dall’interno della stanza ho potuto sentire la sua voce, ovattata per via della superficie che ci separava. Ho immaginato il dondolio delle sue treccine e degli orecchini dorati mentre saliva le scale fino al mio appartamento, il leggero alone di sudore che doveva essersi formato per via del caldo sopra il labbro superiore mentre tuonava “per favore apra, avrei bisogno di parlarle”.

Anche guardare è un’arte, e non sempre necessita dell’uso diretto della vista. 

Gli appartamenti al primo piano sono abitati, rispettivamente, da un tizio che fa il turno di notte e durante il giorno sbarra le finestre nel tentativo di isolarsi dal rumore per poter dormire, e da una coppia giovanissima con un neonato che invece sembra non dormire mai.
Il suo pianto è una litania incessante che fa da sottofondo agli improperi della tabagista del terzo piano e alla musica da discoteca delle studentesse, al rombo sordo di moto e motorini, al borbottio dell’uomo con l’insetticida che ripete alla moglie l’inventario dei mobili presenti nell’appartamento, e persino ai gorgheggi della pensionata del terzo piano che possiede l’invidiatissimo terrazzo sovrastante il lato ovest dell’edificio, sul quale coltiva dalie e giacinti, uva fragola e gladioli, e nelle ore crepuscolari che precedono la sera intona arie di Verdi e Puccini dietro i vetri socchiusi.

Come suo dirimpettaio godo di un’acustica privilegiata sulla sua voce di mezzosoprano, magistralmente perfezionata nel canto da una lunga carriera nell’opera.
I suoi esercizi di lirica accompagnano il fluire incessante dei miei pensieri, mentre, distolto lo sguardo dal palcoscenico che si apre sotto la mia finestra, detto alla macchina le parole che infonderanno vita al testo.
Dialoghi, ambientazioni, imprevisti, reticenze: tutto nasce lì, davanti alla finestra della cucina che affaccia sul cortile.
Ogni volta che Marisol rientra in casa- che sia in estate, con la canottiera sportiva ombreggiata di sudore e i capelli raccolti da un fermaglio in plastica, oppure in inverno, con il naso rosso che spunta sopra la sciarpa di lana e gli occhiali appannati per lo sbalzo termico- ogni volta mi trova lì, assorto nella trasposizione del mio sguardo sulle vite reali in sceneggiature teatrali.

Anche Edoardo mi sorprende spesso a scrivere al rientro dal lavoro, anche se non tanto quanto Marisol, perché al bar fa chiusura e finisce quasi sempre tardi.
I nostri vicini non lo vedono di frequente, così come sembrano non vedere Marisol, perché sono indaffarati e non sanno che le finestre servono a guardare fuori oltre che a regolare l’ingresso dell’aria e della luce nelle case.

Forse alcuni di loro, tra gli inquilini di vecchia data, sanno chi è Edoardo, e che vive qui.

La nostra convivenza ha avuto inizio quasi sette anni fa. Prima della mia malattia, il vecchio appartamento di famiglia al terzo piano di una palazzina senza ascensore era sembrato perfetto per una giovane coppia in cerca di stabilità. Oggi lui vive quasi solo fuori da questa casa, per via del lavoro, mentre io ci vivo soltanto dentro.

Ancora per poco, dice Edoardo, perché se a novembre riuscirà a passare all’indeterminato potremo finalmente aprire un mutuo e comprare una casa al pianterreno con giardino.

Gli dico sempre che non vedo l’ora, ma una parte di me soffre all’idea di perdere il contatto con l’energia magmatica della vita che va in scena ogni giorno nel cortile condominiale. Saprò continuare a scrivere in una villetta a schiera? Come potrà l’ispirazione raggiungermi nella monotonia di un cortiletto privato, recintato da una muraglia di biancospino?

Marisol comprende la mia preoccupazione segreta, ma è fermamente convinta della necessità di questo cambiamento, sostiene che il cambiamento sia la forza motrice dell’arte.
È entrata nelle nostre vite quattro anni fa, quando l’avevo aiutata a preparare la tesi di master in regia teatrale. Sei mesi dopo era iniziata la nostra vita insieme, una vita come le altre, che da fuori non si vede e non si comprende.

Dopo la laurea, Marisol ha cominciato a lavorare come critica teatrale, e da allora fa spesso in modo di procacciarsi occasioni per recensire personalmente le mie pièce di nicchia, con pochi scrupoli rispetto a un conflitto di interessi che nessuno dei suoi colleghi può immaginare che lei stia vivendo, e di cui lei stessa non si cura. Al lavoro non sanno quasi nulla delle sue relazioni, ed ancor meno della mia esistenza.
Edoardo è solito scherzare dicendo che siamo un’associazione a delinquere, una specie di massoneria del teatro, e io gli rispondo che non mi pongo affatto il problema che possano scoprirci perché nessuno è tanto interessato a noi da potersi accorgere di chi o cosa siamo.
E del resto, anche sforzandosi di guardare davvero, c’è così poco da vedere delle vite degli altri.

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