Alla ricerca di me stesso – parte 1

Serie: Per tre punti passa l'infinito


Da dove comincia la ricerca di sé stessi?

Potrebbe iniziare nella ricerca frastornata dei propri connotati alle prime luci dell’alba, di fronte ad uno specchio flaccidamente illuminato, quando l’immagine riflessa assomiglia più alla fototessera che con colpevole masochismo appiccichiamo al passaporto, che al volto che mostriamo tutti i giorni alle masse di persone a cui dobbiamo necessariamente elargire sorrisi e false testimonianze delle nostre splendide giornate.

Ma non è lì, sulla sponda del letto, in quel momento di maligna tentazione che ci tira ancora sotto le coperte, che prende vita il nostro percorso individuale. Anche se in quel momento il nostro inconscio ancora è sveglio, ha fatto le ore piccole e ha lavorato alacremente. Lui si che si prende cura di noi, mentre dormiamo (e non solo).

Lavora in autonomia, non serve dirgli cosa fare. Un battitore libero, un lupo solitario. Uno stronzo.

Basta chiudere un attimo gli occhi e appena perdiamo il controllo lui istintivamente mette il pilota automatico e da bravo Ubenwusst alla guida della nostra macchina perfetta, ci fa schiantare nei vicoli ciechi del nostro io.

Noi che per guardarci dentro procediamo a tentoni attraverso infiniti strati di fitta nebbia e procediamo cauti, lui se ne frega e ingrana la marcia, cosi all’improvviso. È un oscuro e misterioso impulso, come diceva il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer. Non vi è ragione o intelletto che possano qualcosa contro questo animale guida, istintivo e inconsapevole.

Noi che ci facciamo mille domande e abbiamo mille dubbi, mille incertezze, ogni minuto di ogni giorno della nostra vita, passeggeri di uno spregiudicato che guida (come un animale guida, appunto) togliendo le mani dal volante, cantando a squarciagola e fregandosene del traffico contromano, anche perché contromano ci sta andando lui e noi con lui.

E nei sogni da il meglio di sé. Noi dormiamo e lui ci osserva da vicino, e addio strati di domande dubbi e incertezze, hai voglia a rimuovere pensieri, ricordi, reprimere desideri e cancellare emozioni. Lui come un artigiano lavora di cesello e recupera tutto quello che noi ingenuamente abbiamo tentato di nascondere.

E quando la mattina inizia un nuovo giorno e la sveglia passa il testimone alla nostra coscienza, dopo avere permesso al nostro inconscio di guidare tutta la notte tra scorrazzate e scorribande slacciamo la cintura, scendiamo dal letto cercando di tenerci in piedi e ci chiediamo quale importante e fondamentale percorso vada intrapreso subito dopo quello non meno fondamentale che ci guida alla macchinetta del caffè.

Non è allo specchio quindi, che troviamo noi stessi. O almeno non in quello specchio dove ci riflettiamo nell’indecisione di che vestito mettere. Non con quella lampadina che nel migliore dei casi illumina dall’alto verso il basso, in giochi di luci e ombre, fornendoci una prospettiva distorta di chi siamo. A meno che non vogliamo nascondere qualche ruga o l’adiposo inestetismo figlio della scorpacciata della sera prima.

Per cercare dobbiamo anzi rimuovere le ombre, spogliarci dei vestiti, degli strati protettivi, le distorsioni e le coperte in cui ci siamo stratificati crescendo per arrivare al nucleo della faccenda. O di noi.

Dobbiamo pensarci come la matrioska di mamontoviana ideazione (ebbene sì, se non sapevate a chi imputare la genesi di questo iconico elemento diventato rappresentativo della cultura popolare russa, congratulatevi con tale Savva Mantonov, scomparso nell’anno in cui si stavano esplodendo gli spari conclusivi della prima grande guerra).

La matrioska è una bambola che contiene una bambola che contiene una bambola che contiene una bambola.

Si potrebbe andare avanti nella nidificazione fino a 51 volte, la matrioska più grande del mondo è costituita infatti da 51 pezzi. Qui l’inconscio, per scavare, uscirebbe pazzo lui.

Però rende l’idea.

Più strati ci sono, più il nostro io, il nucleo, la ghianda, il sé interiore, la gemma, il chicco, la vocazione, il bozzolo è protetto. Il nostro carattere, il daimon come lo chiamava James Hillmann, la nostra essenza, il “demone” che ci affianca dal momento della nostra nascita (o forse anche da prima) e ci guida, un po’ come fosse l’angioletto custode che sussurra da dentro di noi anziché dalla nostra spalla. Difficile cominciare con questo essere, o essenza, difficile da raggiungere, ma non impossibile.

Sicuramente molto facile da individuare quando siamo più giovani, meno strati, meno bambole di legno dentro bambole di legno dentro eccetera.

Quando nasciamo, o forse ancora prima, quel nucleo è nudo e crudo, senza strati, senza protezioni. Qualcosa si impossessa di noi, ci prende per mano e ci porta a spasso tra imprevisti e peripezie in quella cosa meravigliosa che chiamiamo vita.

Prima di cominciare davvero il giro sulle montagne russe però, ad un certo punto ci accompagna davanti al portone della scuola, croce e delizia al contempo delle nostre vergini coscienze, trama infernale dalla quale uscire non prima di avere letteralmente compreso il significato di incolumità in tutte le sue declinazioni, e con amorevole ed altrettanto daimoniaca voce ci sussurra: «torno subito». 

 

Serie: Per tre punti passa l'infinito


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